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Esteri

Ucraina al buio dopo 450 droni russi: Zelensky chiede azioni e fondi per difesa e ricostruzione

Attacco russo senza precedenti sull’Ucraina: 450 droni e 30 missili devastano la rete elettrica lasciando milioni di persone senza luce. Zelensky chiede aiuti urgenti e l’uso dei beni russi congelati.

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Centinaia di migliaia di case inghiottite dal buio, senza acqua né corrente: è l’ennesimo drammatico capitolo della guerra in Ucraina, che alle soglie del terzo inverno di conflitto rischia di mettere in ginocchio la popolazione civile.

Nella notte tra giovedì e venerdì, oltre 450 droni e 30 missili russi hanno colpito le infrastrutture energetiche del Paese, lasciando al buio Kiev e gran parte delle regioni di Donetsk, Chernihiv, Cherkasy, Kharkiv, Sumy, Poltava, Odessa, Dnipro e Zaporizhzhia.
Il bilancio è pesante: un bambino di 7 anni ucciso e almeno 33 feriti.

Non servono parole vuote ma azioni decisive da parte di Usa, Europa e G7”, ha detto il presidente Volodymyr Zelensky, che torna a chiedere l’invio urgente di sistemi di difesa aerea e nuove sanzioni contro la Russia.


Zelensky a Lagarde: “Usiamo i beni russi congelati per ricostruire”

Il presidente ucraino ha annunciato una telefonata con la presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, in cui ha discusso la possibilità di utilizzare gli asset russi congelati per finanziare la ricostruzione della rete energetica del Paese.
Esistono soluzioni, ma serve una volontà politica sufficiente in Europa, dove si concentra la maggior parte dei beni sequestrati”, ha dichiarato Zelensky.

Secondo Maksym Timchenko, ceo della compagnia energetica Dtek, l’attacco russo rappresenta “una grave escalationnella campagna contro il sistema energetico ucraino” e ha provocato “danni enormi alle centrali termoelettriche”.

Una fonte militare citata da Afp ha spiegato che le condizioni di cielo nuvoloso hanno favorito i droni russi, consentendo loro di eludere i sistemi di difesa aerea. Zelensky ha definito l’operazione “cinica e calcolata”.


Mosca rivendica: “Colpiti obiettivi militari ucraini”

Da parte sua, Mosca non solo non nega, ma rivendica l’attacco, sostenendo di aver colpito “obiettivi energetici che alimentavano l’industria militare ucraina”.
Secondo il ministero dell’Energia di Kiev, l’elettricità è stata ripristinata in circa 270.000 abitazioni della capitale, ma ampie zone dell’est e del sud restano senza corrente.

Le stime diffuse da Bloomberg sono allarmanti: il 3 ottobre, i raid russi hanno distrutto il 60% della produzione di gasnelle regioni di Kharkiv e Poltava.
Per sopravvivere all’inverno, Kiev potrebbe dover importare fino a 4,4 miliardi di metri cubi di gas, per un costo stimato in 2 miliardi di euro, quasi il 20% del consumo annuale del Paese.


L’Europa studia l’uso dei fondi russi, ma mancano ancora decisioni

Sul fronte diplomatico, i Paesi del formato E3 (Francia, Germania e Regno Unito) hanno espresso disponibilità ad aumentare la pressione su Mosca e a procedere verso l’utilizzo dei beni sovrani russi congelati, in stretta collaborazione con gli Stati Uniti.
Ma, come denuncia Kiev, dalle parole non si è ancora passati ai fatti, mentre il tempo stringe e l’inverno avanza.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, valutano nuove sanzioni ma rinviano le decisioni, complici anche i rapporti altalenanti tra Vladimir Putin e Donald Trump.
Nelle ultime ore lo zar ha elogiato il presidente americano, dicendo che “sta facendo molto per la pace”, ricevendo in cambio i ringraziamenti di Trump, che ha fatto sapere che Melania sarebbe in contatto con Putin per discutere della deportazione dei bambini ucraini in Russia.


Tra diplomazia ferma e nuove minacce militari

Mentre la diplomazia resta impantanata, cresce la tensione tra Mosca e Washington.
Gli Stati Uniti hanno minacciato di fornire missili Tomahawk all’Ucraina, un’ipotesi che il Cremlino considera “una linea rossa”.

Una tale mossa colpirebbe gravemente i rapporti tra Russia e Usa”, ha avvertito Putin, promettendo come risposta un rafforzamento delle difese aeree russe.

Nel frattempo, l’Ucraina conta i danni, milioni di civili restano senza riscaldamento e l’inverno si avvicina.
Per Zelensky, il messaggio è chiaro: “Senza un’azione immediata, l’oscurità dell’inverno rischia di spegnere la speranza del nostro popolo.”

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Esteri

Arrestato in Europa Pipo Chavarria, il boss dei Los Lobos: «Lo abbiamo cercato fino all’inferno»

Il presidente Noboa annuncia l’arresto di Pipo Chavarria, capo dei Los Lobos, catturato in Europa dopo anni di latitanza. Il boss aveva finto la morte e continuava a ordinare omicidi dall’estero.

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«Lo abbiamo cercato fino all’inferno». Con queste parole il presidente Daniel Noboa ha annunciato la cattura di Pipo Chavarria, leader dei Los Lobos, definito «il delinquente più ricercato della regione». L’arresto è avvenuto in Europa grazie a una collaborazione tra Ecuador e polizia spagnola.

La falsa morte e la rete criminale internazionale

Secondo quanto spiegato da Noboa, Chavarria aveva finto la propria morte, cambiato identità e trovato rifugio in Europa, da dove continuava a impartire ordini. Dall’estero dirigeva omicidi in Ecuador e controllava il traffico di droga insieme al cartello messicano Jalisco Nueva Generación.

Un arresto simbolico nel giorno del referendum sulla sicurezza

La cattura arriva nel giorno del referendum promosso da Noboa su temi cruciali della sicurezza nazionale, diventando un segnale politico fortissimo. «Oggi le mafie indietreggiano. Ha vinto l’Ecuador», ha dichiarato il presidente, celebrando un risultato definito come un punto di svolta nella lotta al crimine organizzato.

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Esteri

Regno Unito, stretta storica sull’asilo: fine del permesso quinquennale e revisione continua dei rifugiati

Il governo Starmer annuncia una stretta senza precedenti sull’asilo: permesso ridotto a 30 mesi, revisione continua e residenza permanente solo dopo 20 anni. Polemiche da destra e sinistra.

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Basta asilo a tempo indeterminato. Il Regno Unito del dopo Brexit cambia paradigma e annuncia una stretta senza precedenti rispetto alla sua storica tradizione di accoglienza. A farlo è il governo laburista di sir Keir Starmer, in piena crisi di consenso e sotto la pressione crescente di forze come Reform UK di Nigel Farage.

Mahmood: «Fine del golden ticket per i richiedenti asilo»

La ministra dell’Interno Shabana Mahmood, figlia di immigrati pachistani, ribadisce alla Bbc la linea dura:

  • permesso di soggiorno ridotto a 30 mesi;

  • revisione periodica obbligatoria;

  • rimpatrio possibile se il Paese d’origine torna “sicuro”;

  • residenza permanente solo dopo 20 anni, quattro volte più del regime attuale.

La normativa vigente garantisce 5 anni di permesso ai rifugiati e accesso quasi automatico alla residenza permanente alla scadenza del quinquennio.

Londra guarda alla Danimarca e punta a frenare gli arrivi via Manica

Il governo Starmer si ispira alla linea durissima di Copenaghen, che ha ridotto le richieste di asilo ai minimi da 40 anni. L’obiettivo è scoraggiare gli arrivi via Manica sulle small boat, aumentati nonostante le promesse: nel 2025 sono già 39.000 le persone sbarcate, più di tutto il 2024.

La Francia attribuisce a Londra parte del problema, sostenendo che le norme britanniche finora troppo permissive abbiano reso difficile il controllo dell’immigrazione illegale.

Critiche da destra e sinistra

Le opposizioni conservatrici e i seguaci di Farage definiscono la stretta “superficiale” e insufficiente.
Dall’altro lato, ong, sinistra del Labour e Verdi denunciano una violazione dei principi di solidarietà e diritti umani.

Mahmood respinge ogni accusa:
«È la più grande revisione della politica d’asilo dei tempi moderni. Non sto accettando gli argomenti dell’estrema destra: è una missione morale».

Starmer cerca ossigeno in un clima politico esplosivo

Il premier laburista tenta così di frenare un’emorragia di consensi data per inarrestabile dai sondaggi, mentre anche dentro il Labour monta il malcontento. La questione migratoria diventa quindi un terreno decisivo per la sopravvivenza politica del governo.

La promessa, però, resta tutta da verificare nella sua efficacia.

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Esteri

Trump elimina i dazi su carne, frutta e caffè: retromarcia per frenare il carovita negli USA

Trump rimuove i dazi su centinaia di prodotti alimentari per placare l’ira degli americani contro il carovita. Dubbi degli esperti: è una mossa politica dettata dal nervosismo della Casa Bianca.

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Donald Trump fa marcia indietro e rimuove i dazi su carne, banane, caffè, avocado, mango, pomodori e decine di altri prodotti agricoli. Una decisione che la Casa Bianca giustifica con i “progressi nelle trattative commerciali” e con il fatto che gli Stati Uniti non producono abbastanza di questi beni per soddisfare la domanda interna.

Una spiegazione che non convince molti esperti, secondo cui la mossa nasconde il timore dell’amministrazione di fronte a prezzi sempre più alti e al crescente malcontento dei consumatori.

Il nervosismo della Casa Bianca e il tema dell’“accessibilità”

Dietro questa retromarcia c’è un’evidente tensione politica. L’inflazione sul carrello della spesa pesa da mesi sui bilanci delle famiglie, mentre Trump — che in pubblico ha liquidato il tema dell’accessibilità come una “truffa dei democratici” — teme una rivolta contro la sua agenda economica.

Il presidente era arrivato alla Casa Bianca promettendo una drastica riduzione dei prezzi e una nuova “età dell’oro”. Finora, però, gli effetti della sua ricetta economica hanno premiato soprattutto i mercati e i più ricchi, senza alleggerire la pressione sui portafogli degli americani.

Il rischio gennaio: l’esplosione dei costi sanitari

La tensione è destinata a crescere. A gennaio potrebbero schizzare i prezzi delle assicurazioni sanitarie per milioni di americani, con la fine dei sussidi dell’Obamacare. Una riforma criticata per anni dai repubblicani, ma per la quale non è mai stata proposta un’alternativa credibile.

Se i sussidi non verranno prorogati, il prezzo politico da pagare alle prossime elezioni potrebbe essere altissimo.

La retromarcia sui dazi rilancia il soprannome “Taco”

La nuova ondata di cancellazioni tariffarie ha riportato in auge il soprannome “Taco” — Trump always chickens out — con cui i critici accusano il presidente di annunciare misure aggressive salvo poi ritirarle sotto pressione.

Dal 2 aprile l’amministrazione è stata costretta a correggere più volte il tiro sui dazi, elemento centrale della sua agenda economica. Trump ha sempre sostenuto che le tariffe servono a rimettere in equilibrio gli scambi e a finanziare parte del taglio delle tasse, il suo big beautiful bill.

La minaccia della Corte Suprema

Sulle politiche tariffarie del presidente incombe ora il giudizio della Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla loro legittimità. I giudici hanno mostrato scetticismo sulla tesi della Casa Bianca, che invoca un’emergenza nazionale per giustificare le tariffe.

Una bocciatura sarebbe devastante: metterebbe in discussione la credibilità dell’amministrazione e potrebbe obbligare Washington a restituire — secondo Trump — fino a 3.000 miliardi di dollari.

Una prospettiva che spiega il clima di crescente agitazione attorno a un presidente che, per la prima volta, vede indebolirsi uno dei pilastri della sua identità politica: essere il “Re delle Tariffe”.

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