Due uomini sono stati fermati dalla polizia nell’ambito nell’indagine sul corpo smembrato e dato alle fiamme che sabato sera è stato trovato in via Cascina dei Preti, nel quartiere Bovisasca, a Milano. Sono due colombiani arrivati in città nei giorni scorsi. Uno di loro sarebbe stato bloccato dalla polizia questo pomeriggio mentre tentava di imbarcarsi dall’aeroporto di Malpensa direzione Madrid. L’uomo, non ancora identificato, trovato morto col corpo smembrato, sarebbe stato ucciso dopo “un litigio” durante una festa in una casa nella zona “per motivi futili, per ruggini e vicende pregresse ancora da chiarire” ha spiegato il pm di Milano Paolo Storari a proposito del fermo dei colombiani.
Il procuratore Francesco Greco, che ha preso parte alla conferenza stampa con il pm Storari, l’aggiunto Laura Pedio e il capo della Squadra mobile milanese Lorenzo Bucossi, ha sottolineato come l’omicidio sia stato risolto “brillantemente in 24 ore”, grazie al lavoro della Squadra mobile e della Procura. “Dal momento della notizia del rinvenimento del cadavere fatto a pezzi – ha spiegato Storari – in meno di 24 ore abbiamo raccolto prove più che significative sulla responsabilità delle due persone” fermate. Stando a quanto ricostruito nella conferenza stampa, un testimone ha raccontato di un “litigio” avvenuto in una casa in via Carlo Carrà, dove viveva uno dei due colombiani fermati, poco distante dal luogo in cui poi è stato trovato il corpo. In quella casa gli investigatori hanno trovato tracce di sangue. Stando a quanto ricostruito finora, sabato scorso nella casa “c’è stata una festa”, con tanto di grigliata, e poi, ha spiegato ancora Storari, “un litigio, probabilmente dopo che le persone avevano bevuto molto”.
La persona è stata uccisa con un taglio alla gola e altri colpi di coltello inferti in altre parti del corpo. Poi, il cadavere è stato fatto a pezzi “con un’accetta” ed è stato messo dentro un trolley. La valigia è stata, poi, trasportata “con un carrello” nella zona in cui è stato dato fuoco al corpo. Uno dei colombiani è stato fermato a Milano, l’altro mentre stava per prendere un volo per Madrid. Gli inquirenti hanno parlato di “motivi futili” e “vecchie ruggini” alla base dell’omicidio. Nell’appartamento è stata trovata anche della benzina, liquido che sarebbe stato usato per appiccare il fuoco. I due fermati, come spiegato dagli inquirenti, non risultano collegati a delle gang o mafie colombiane.
I due colombiani fermati hanno rispettivamente 38 anni e 21 anni. Il primo, regolare, in Italia da tempo e con precedenti per furto, nell’appartamento con giardino al pian terreno di un piccolo stabile in via Carlo Carrà. Per lui l’accusa è omicidio aggravato dalla crudeltà. Il secondo, sconosciuto agli archivi di polizia, è in Italia da circa un mese con visto turistico e risponde di vilipendio e soppressione di cadavere. La vittima, si presume un connazionale, è stato parzialmente riconosciuto grazie a un polpastrello di un pollice rimasto integro e che ha consentito di prendere le impronte. Per avere la certezza di chi fosse, si conta sulla collaborazione dell’autorità giudiziaria estera. Dei tre, per esigenze investigative, non sono stati resi noti i nomi.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.