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Trump verso quarta incriminazione, riunito il gran giurì

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Un racket elettorale: è il teorema accusatorio che potrebbe essere contestato a Donald Trump nella sua quarta incriminazione, attesa questa settimana ad Atlanta nell’inchiesta sulle pressioni per ribaltare l’esito delle presidenziali in Georgia nel 2020. Sarebbe un poker di arresti in cinque mesi (escludendo i due impeachment) con le primarie alle porte in febbraio, dove il calendario delle sfide dovrà fare i conti con le udienze dei processi. Secondo il New York Times, la procuratrice (dem) Fani Willis ha ripetutamente segnalato di voler perseguire accuse sotto l’ombrello della legge statale contro il racket, usata in genere contro associazioni criminali (spesso di tipo mafioso nel caso dell’analoga legge federale) per condannare non solo i ‘soldati’ ma anche i loro leader. La violazione di questa sola legge prevede da 5 a 20 anni di reclusione.

Ma in una lettera del febbraio 2021 ai dirigenti statali, Willis aveva evocato tra i possibili reati, oltre al racket, anche la cospirazione, la sollecitazione di violazione di un giuramento d’ufficio e vari falsi materiali e ideologici: tutte fattispecie che compaiono nella causa postata temporaneamente per errore dal tribunale sul proprio sito, anche se l’ufficio del procuratore distrettuale ha precisato che per ora non e’ stata contestata alcuna accusa. Sono comunque tutti reati statali che non rientrano tra i poteri di grazia del presidente. Per questo il processo in Georgia rischia di essere il piu’ pericoloso per Trump se fosse condannato, perchè in caso di rielezione alla Casa Bianca non potrà ‘auto perdonarsi’, né in caso di sconfitta potrà farsi perdonare dal futuro commander in chief. Questo vale anche per la prima incriminazione (statale) a New York legata ai fondi neri pagati per coprire potenziali scandali sessuali alla vigilia della sua vittoria nel 2016, anche se si tratta di reati meno gravi.

Diverso invece il caso delle due inchieste federali, dove è accusato per le carte segrete a Mar-a-Lago e l’assalto al Capitol. Ad Atlanta sono già scattate misure di sicurezza, con il tribunale transennato e blindato per la convocazione del gran giurì, che ha già sentito alcuni testimoni, tra cui l’ex vice governatore repubblicano della Georgia Geoff Duncan. “Farebbe meglio a non deporre”, lo ha minacciato l’ex presidente sul suo social Truth, attaccando anche la “falsa Fani Willis”. La procuratrice ha cominciato così a presentare le conclusioni della sua inchiesta, durata due anni e mezzo, contro Trump e una ventina di suoi alleati, tra cui il suo ex avvocato personale Rudy Giuliani e vari legali coinvolti nelle interferenze sul voto. Il gran giurì dovrebbe poi decidere sull’incriminazione entro pochissimi giorni e in caso di incriminazione saranno consentite le telecamere in aula, a differenza che in quelle precedenti. Tutto è partito da una telefonata dell’allora presidente – l’audio è tra le prove chiave dell’accusa – al segretario di stato repubblicano Brad Raffensperger il 2 gennaio 2021 per chiedergli di trovare 11.780 voti necessari a fargli superare Joe Biden, sulla base dell’infondata accusa di elezioni truccate.

“Una telefonata perfetta”, si è difeso il tycoon. Poi si sono aggiunti altri filoni: le false dichiarazioni dei suoi avvocati nelle udienze parlamentari locali, i 16 falsi elettori pro Trump (alcuni hanno collaborato con gli inquirenti), le intimidazioni ad alcuni funzionari elettorali e la violazione del software per il voto nella contea di Coffee (tra le prove, sms e mail degli avvocati di Trump). “Un’altra incriminazione e vinco”, ha commentato The Donald dopo la terza per l’attacco al Congresso: in effetti continua a volare nei sondaggi, dove ha da 30 a 40 punti di vantaggio sul principale rivale repubblicano Ron Desantis, oscurato nel weekend insieme agli altri rivali nella tradizionale fiera agricola in Iowa, prima tappa delle primarie Gop. Ed è testa a testa con un Joe Biden ora azzoppato anche dal probabile processo al figlio Hunter per evasione fiscale e possesso illegale di un’arma: due temi chiave della sua agenda.

Trump sono contestati 13 capi di imputazione nell’inchiesta sulle sue pressione per ribaltare il voto in Georgia. Tra questi la la legge anti racket, l’aver sollecitato un pubblico ufficiale a violare il suo giuramento di fedelta’, la cospirazione per impersonare un pubblico ufficio (la vicenda dei falsi elettori) e commettere una serie di falsi.

Tra gli incriminati anche gli avvocati Kenneth Chesebro e John Eastman, consisderati gli architetti del piano per usare elettori pro Trump falsi in Georgia e in altri stati vinti da Joe Biden.

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Avvelenata ma fuori pericolo la Budanova, moglie del capo dell’Intelligence ucraina

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Adesso è fuori pericolo ma è ricoverata in ospedale: Mariana Budanova, la moglie del capo dell’agenzia di intelligence militare ucraina, Kyrylo Budanov, è stata avvelenata con metalli pesanti secondo l’intelligence ucraina. Lei, in un’ intervista di alcuni mesi fa, aveva raccontato dei vari tentativi che erano stati fatti per uccidere suo marito. Lui Kyrylo aveva detto che sua moglie viveva con lui nella sede dell’intelligence. Ad accusare gli stessi sintomi d’avvelenamento di Mariana Budanova, sia pue più lievi, anche altri membri dello staff di suo marito. La donna potrebbe avere ingerito metalli pesanti mangiando qualche pasto che ne conteneva. Dal portavoce dlel’intelligence non arrivano accuse ai russi ma diversi oppositori di quel regime erano stati avvelenati allo stesso modo.

 

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Stretta anti fumo, le sigarette volano a 13 euro

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La Francia inasprisce la guerra alle ‘bionde’. Il nuovo piano di lotta contro il tabagismo che il governo di Parigi ha presentato prevede un prezzo delle sigarette alle stelle e l’estensione degli “spazi senza tabacco”: dalle spiagge, ai parchi o vicino alle scuole. La nuova stretta sul fumo punta a “raccogliere la sfida di una generazione libera dal tabacco dal 2032”. Il programma nazionale di controllo del tabacco (Pnlt) 2023-2027 si basa infatti sul “rafforzamento della tassazione e dei divieti relativi al tabacco”, ha spiegato il ministro della Salute e della Prevenzione, Aurélien Rousseau. L’obiettivo è prevenire l’accesso al fumo, soprattutto tra i più giovani, e aiutare meglio i fumatori a smettere, soprattutto i più poveri.

“Il divieto di fumo sarà ormai la norma”, ha sottolineato il ministro presentando ai giornalisti il programma nazionale di lotta al tabagismo. “Gli spazi vietati al fumo, che sono già oltre 7.200 in oltre 73 dipartimenti, sono il risultato di un movimento impresso localmente dai comuni. Oggi invertiamo la responsabilità e fissiamo il principio che diventa la regola”, ha proseguito Rousseau, spiegando poi come saranno gli aumenti del costo del pacchetto di sigarette: nel 2026 si arriverà ad un minimo di 13 euro a pacchetto, con una prima tappa a 12 euro nel 2025. Ma la Francia non è l’unico Paese a dichiarare guerra alla dipendenza dalla nicotina. A partire dal prossimo anno l’Australia vieterà l’importazione di vaporizzatori monouso, stando all’annuncio del ministro della Salute Mark Butler. L’ambizione dell’Australia di diventare il primo Paese a limitare lo svapo sarà realizzata in successive fasi, cominciando da un bando alle importazioni di prodotti monouso.

E da gennaio i medici e gli infermieri professionisti potranno prescrivere vaporizzatori terapeutici per trattare la dipendenza dalla nicotina. Il giro di vite imposto dal ministro Butler è inteso a reprimere il fiorente mercato nero che importa dalla Cina milioni di vaporizzatori monouso aromatizzati e li vende ai giovani su social media o sottobanco in minimarket. A muoversi in controtendenza, per ragioni di bilancio, è invece la Nuova Zelanda che ha in programma un dietrofront sulla legge approvata nel 2022 per vietare alle nuove generazioni di fumare sigarette ed altri prodotti a base di tabacco. Gli introiti derivanti dalle tasse sul fumo – scrivono i media locali – saranno utilizzati per finanziare il taglio delle imposte promesso dalla nuova coalizione di centrodestra. La marcia indietro del nuovo esecutivo è stata criticata da medici ed esperti di salute pubblica, soprattutto perché – denunciano – avrà conseguenze sulle comunità autoctone dei Maori dove il tabagismo è molto diffuso.

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Intesa Israele-Hamas, altri due giorni di tregua a Gaza

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Altri due giorni di tregua a Gaza. Grazie alla mediazione di Qatar, Egitto e Usa, Israele e Hamas hanno raggiunto l’intesa che consentirà il rilascio di altri 20 ostaggi israeliani (10 per ogni giorno aggiuntivo di cessate il fuoco) in cambio di 60 detenuti palestinesi nel solito rapporto di 1 a 3. La proroga della tregua – che sarebbe altrimenti scaduta domani mattina – ha trascinato con sé anche lo sblocco della trattativa sulla quarta tranche di ostaggi che si era complicata. Alla fine in serata sono usciti da Gaza undici prigionieri – 9 bambini e 2 madri, tutti del kibbutz di Nir Oz – in cambio della scarcerazione di 30 minori e tre donne palestinesi: tra queste Yasmin Shaaban e Etaf Jaradat, entrambe di Jenin, e Nufouth Hamad, del quartiere di Sheikh Jaarh a Gerusalemme est.

Assieme agli ostaggi israeliani Hamas ha liberato anche 6 cittadini thailandesi. Secondo quanto riferito da Haaretz, nelle settimane scorse il leader di Hamas nella Striscia Yahya Sinwar ha incontrato alcuni degli ostaggi tenuti nei tunnel e si è fermato con loro a parlare in ebraico. Una prova importante del fatto che il capo dei miliziani è ancora a Gaza. La possibilità di estendere la pausa nei combattimenti – sono state ribadite tutte le condizioni contenute nell’intesa originaria, quindi anche l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia – era già prevista dal primo accordo che aveva come obiettivo la liberazione di 50 ostaggi in cambio di 150 palestinesi.

Ma non era affatto scontato che questo poi sarebbe effettivamente avvenuto. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha salutato con favore la proroga rivendicando di aver “costantemente premuto” per un esito del genere, mentre il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha parlato di “un raggio di speranza”. Hamas ha anche fatto sapere che i prossimi scambi potrebbero riguardare non solo donne e bambini ma anche altri ostaggi, in particolare i soldati israeliani rapiti il 7 ottobre. Una trattativa, ha spiegato Izzat Arshak dell’ufficio politico della fazione, da condurre però in maniera “separata” rispetto a quella portata avanti per i civili. Anche due beduini israeliani sconfinati nella Striscia sono da anni prigionieri di Hamas, che conserva inoltre i resti di due soldati caduti nel conflitto del 2014. I miliziani hanno poi informato l’Egitto e il Qatar di aver individuato altri ostaggi israeliani nella Striscia: si tratta di quelli nelle mani della Jihad islamica o anche di semplici cittadini entrati in Israele il 7 ottobre al seguito dei terroristi per razziare i kibbutz.

Lo stallo nel rilascio di ostaggi e detenuti palestinesi che si era registrato in mattinata era stato causato da entrambi le parti. Israele ha accusato Hamas di violare quanto previsto dall’accordo separando le famiglie, ovvero di voler liberare i bambini ma non le madri. Da parte sua Hamas voleva che Israele scarcerasse sei detenuti arrestati prima del 7 ottobre invocando il principio di anzianità, ovvero la necessità di rilasciare per primi i prigionieri detenuti da più tempo.

Altro intoppo riguardava proprio il nome di Nufouth Hamad, la ragazzina condannata una settimana fa a 12 anni per aver accoltellato una donna israeliana. La fumata bianca sul prolungamento della tregua ha consentito anche la soluzione di questi problemi. Raggiunta l’intesa, Israele ha cominciato ad informare le famiglie dei rapiti: subito dopo la loro consegna alla Croce Rossa e l’uscita da Gaza, gli ostaggi – presi in consegna dalla sicurezza israeliana – sono stati portati negli ospedali dove saranno di nuovo visitati. Ma se i civili e gli sfollati di Gaza potranno contare ancora su qualche giorno di quiete, non vuol dire che la guerra non riprenderà. Il ministro della Difesa Yoav Gallant è stato chiaro: “I combattimenti – ha avvertito incontrando un gruppo di soldati – saranno ancora più grandi e si svolgeranno in tutta la Striscia di Gaza. Non ci fermeremo finché non avremo finito”.

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