Il blocco definitivo degli account di Donald Trump da parte di Twitter dopo una sospensione temporanea di 12 ore fa discutere. Tanto più che questa decisione, riguardante in assoluto il primo utente al mondo della piattaforma, con 88 milioni di abbonati nel suo solo account privato, si accompagna a decisioni analoghe di altre piattaforme, da Facebook a You Tube, da Snapchat a Twitch: tutte quante volte a limitare l’uso dei social al Presidente degli Stati Uniti.
Tutto ciò fa discutere, dunque, e con piena ragione.
Da una parte, i social media rivendicano in quanto imprese private la loro libertà di perseguire policies aziendali in ordine allo svolgimento del loro servizio. Quali che siano. Nel rispetto delle leggi vigenti, ma soprattutto tenendo conto degli orientamenti del mercato dell’informazione e della comunicazione.
Dall’altra parte, si sostiene che non si può limitare la libertà di parola e, in specie, porre il bavaglio all’esercizio dell’espressione politica. Sia pure di un personaggio come D. Trump, o di qualunque altra personalità più o meno simpatica o, all’opposto, screditata della scena interna o internazionale.
Se si discute, è perché c’è una parte di ragione in entrambe le posizioni. I social media devono poter svolgere le loro policies, all’interno di quadri normativi di tipo privatistico. E’ un principio regolatore fondamentale e irrinunciabile. Quel che tuttavia bisogna costruire sono esattamente quei quadri normativi, che oggi fanno acqua da molte parti. Mi sembra importante sottolineare due aspetti. Il primo ha a che fare con la circostanza che Internet è uno spazio pubblico, un’estensione della via in cui abito e della piazza in cui vado a passeggiare e del Parco in cui vado a correre. Senza soluzione di continuità: la distinzione tra spazio reale e spazio virtuale, già traballante da tempo, non regge più dopo l’esperienza pandemica nella quale siamo immersi. Lo spazio reale è strettamente intrecciato a quello virtuale: possiamo tranquillamente dire, anzi, che il primo funziona grazie al secondo, almeno nella stessa misura in cui il secondo funziona grazie al primo. Tenuto conto dei contenuti tecnologici, è chiaro che gli statuti giuridici devono in qualche modo essere equiparati.
Ora, parlare di spazio pubblico significa porre la questione dell’accesso, che dev’essere garantito a tutti, ogni restrizione dovendo essere espressamente regolamentata. E’ qui che interviene un problema delicatissimo, concernente specificatamente i social media. Aziende private, sì, il cui business ha a che fare con l’informazione e la comunicazione. Le quali, come per tutto il sistema mediale, devono godere di un grado elevato di libertà di creazione, di elaborazione e di circolazione: la mia pagina FaceBook, in questo senso, partecipa della stessa natura del New York Times.
Il focus si sposta dunque su: chi regola questa libertà di creazione ed elaborazione di informazioni, chi decide quando e come esse possono circolare, attivare circuiti di comunicazione e di dibattito pubblico?
La mia sensazione è che non possa essere lo Stato l’agente regolatore, non possano essere i pubblici poteri a definire i modi e i tempi e i contenuti informativi e comunicazionali dei media. Del resto, proprio le ultime vicende legate al Presidente americano ci dicono che non possono essere neppure le piattaforme ad esercitare un potere regolamentativo così delicato. Nell’uno e nell’altro caso, cioè nella fattispecie regolamentare statale come in quella aziendale, interviene ad un certo punto un elemento di arbitrio che, nel difendere gli interessi politici ed economici dei soggetti in causa, potrebbe ledere l’interesse superiore della libertà d’informazione e comunicazione e, di conseguenza, del libero accesso allo spazio pubblico di Internet.
Ho fatto prima menzione degli ultimi fatti americani. Trump è stato silenziato, afferma Twitter, per istigazione alla violenza. Si può essere anche d’accordo: l’istigazione alla violenza è certo un buon motivo. Peccato che ciò avvenga a 10 giorni dalla scadenza del mandato presidenziale. Quando l’uso dei social media che incita alla violenza da parte di Trump dura da 4 anni: si è reso manifesto sin dall’inizio del suo mandato, non è comparso alla fine. Una documentazione impressionante è fornita da https://www.vox.com/21506029/trump-violence-tweets-racist-hate-speech
e da
https://abcnews.go.com/Politics/blame-abc-news-finds-17-cases-invoking-trump/story?id=58912889
Del resto, non si tratta solo di istigazione alla violenza, dal momento che Twitter ha deciso di bloccare account di privati cittadini –pur legati alla politica- che pubblicano contenuti di QAnon, cioè negazionismi e complottismi di varia natura, non automaticamente violenti.
La quadratura di un cerchio non è mai facile, e questa è una delle più difficili. Eppure ci troviamo di fronte a un nodo cruciale per la configurazione della nuova geografia informazionale e comunicativa nella quale ci troviamo a vivere oggi e, sempre più, ci troveremo a vivere domani.
Certo un’architettura regolamentativa va pensata e costruita, ma non può essere affidata all’etica mediale che abbiamo visto fin qui in azione: quando, cioè, una piattaforma decide in assoluta autonomia cosa fare e quando farlo, dando la spiegazione che vuole. Probabilmente occorre passare attraverso fasi diverse, che partano dall’istituzione di un Codice Etico che ciascuna azienda deve darsi –esplicito ed obbligatorio- in tutta autonomia, senza però che questo contravvenga i più generali principi di una “Carta dei diritti e dei doveri mediali” stabilita in via partecipata e consensuale da un’Agenzia internazionale. E’ quest’ultima, credo, che dovrebbe vegliare, in tutta indipendenza, sul loro rispetto e fungere altresì da Tribunale a cui i soggetti deputati, utenti e fornitori di servizi, possano ricorrere ove ravvisino comportamenti inappropriati, da qualunque parte provengano.