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Esteri

Trump sigla la pace a Gaza: a Sharm el-Sheikh il vertice per una nuova era in Medio Oriente

Donald Trump presiede il vertice di Sharm el-Sheikh insieme al presidente egiziano al-Sisi per siglare la pace a Gaza. Meloni e oltre venti leader mondiali presenti. Al centro del piano, ricostruzione, stabilità e nuovi accordi regionali.

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Donald Trump mette il suo marchio sulla pace in Medio Oriente. Dopo settimane di negoziati, il presidente americano ha annunciato l’intesa per il cessate il fuoco a Gaza, presentandola come una “storica occasione per costruire una pace duratura”.
Mentre la fase uno dell’accordo è in piena attuazione, la diplomazia internazionale lavora già ai passaggi successivi: la ricostruzione della Striscia, la nascita di una nuova governance palestinese e l’avvio di forze di stabilizzazione internazionali.

Il vertice di Sharm el-Sheikh

La prossima tappa sarà il vertice di Sharm el-Sheikh, co-presieduto da Trump e dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che riunirà oltre 20 capi di Stato e di governo.
Tra i presenti ci saranno la premier italiana Giorgia Meloni, il presidente francese Emmanuel Macron, il britannico Keir Starmer, il turco Recep Tayyip Erdogan, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e il rappresentante dell’Ue Antonio Costa.

Assenti i protagonisti diretti del conflitto: né il premier israeliano Benjamin Netanyahu, né esponenti di Hamas o dell’Autorità nazionale palestinese parteciperanno alla cerimonia.

Blair vicecapo del Consiglio di pace per Gaza

Nelle ultime ore l’Autorità nazionale palestinese ha incontrato Tony Blair, designato come vicecapo del Consiglio di pace per Gaza previsto dal piano americano in 20 punti. L’intesa include un’amministrazione temporanea della Striscia da parte di un comitato tecnico palestinese supervisionato da un organismo internazionale guidato da Trump e Blair.

«Siamo pronti a collaborare per il futuro della Striscia», ha dichiarato su X Hussein al-Sheikh, vicepresidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, dopo l’incontro con l’ex premier britannico in Giordania.

Trump vola in Medio Oriente: il trionfo diplomatico

Il presidente americano volerà in Medio Oriente per meno di dodici ore: prima tappa Israele, dove incontrerà gli ostaggi liberati e parlerà alla Knesset — evento che non accadeva dal 2008, ai tempi di George W. Bush — poi Sharm el-Sheikh per la firma dell’accordo di pace.

Per Trump, è un successo personale e politico che nessuno dei suoi predecessori era riuscito a ottenere. Una vittoria che conferma la sua linea diplomatica basata sulla “The Art of the Deal”, ma che segna anche un passaggio cruciale nella sua politica America First.

Ricostruzione e fondi arabi

Trump chiarirà che gli Stati Uniti non invieranno truppe né a Gaza né in Israele, e che la maggior parte dei fondi per la ricostruzione sarà garantita dai Paesi arabi.
In cambio, il presidente intende rilanciare gli Accordi di Abramo, puntando a un dialogo tra Israele, Indonesia e Arabia Saudita.

Una normalizzazione con Riad, in particolare, sarebbe un passo decisivo per ridisegnare gli equilibri del Medio Oriente e garantire quella stabilità inseguita per decenni.

La “fase due” della pace

Il vicepresidente americano J.D. Vance ha definito questa fase «la più delicata e decisiva», spiegando che servirà una «pressione costante» degli Stati Uniti per mantenere la stabilità.
A seguire da vicino i progressi sul campo ci sono gli inviati Steve Witkoff e Jared Kushner, incaricati di monitorare ogni sviluppo e prevenire nuovi focolai di tensione.

Un nuovo equilibrio per il Medio Oriente

La pace firmata a Sharm el-Sheikh rappresenta per Trump l’apice della sua strategia estera e per il mondo una speranza concreta.
Come ha dichiarato la presidenza egiziana, l’obiettivo del vertice è «porre fine alla guerra, intensificare gli sforzi per la stabilità e inaugurare una nuova era di sicurezza in Medio Oriente».

Se la “fase due” della ricostruzione avrà successo, Gaza potrebbe diventare il simbolo di un nuovo equilibrio geopolitico, con gli Stati Uniti tornati al centro della diplomazia mondiale e il Medio Oriente avviato, forse, verso una fragile ma possibile pace.

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Esteri

Arrestato in Europa Pipo Chavarria, il boss dei Los Lobos: «Lo abbiamo cercato fino all’inferno»

Il presidente Noboa annuncia l’arresto di Pipo Chavarria, capo dei Los Lobos, catturato in Europa dopo anni di latitanza. Il boss aveva finto la morte e continuava a ordinare omicidi dall’estero.

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«Lo abbiamo cercato fino all’inferno». Con queste parole il presidente Daniel Noboa ha annunciato la cattura di Pipo Chavarria, leader dei Los Lobos, definito «il delinquente più ricercato della regione». L’arresto è avvenuto in Europa grazie a una collaborazione tra Ecuador e polizia spagnola.

La falsa morte e la rete criminale internazionale

Secondo quanto spiegato da Noboa, Chavarria aveva finto la propria morte, cambiato identità e trovato rifugio in Europa, da dove continuava a impartire ordini. Dall’estero dirigeva omicidi in Ecuador e controllava il traffico di droga insieme al cartello messicano Jalisco Nueva Generación.

Un arresto simbolico nel giorno del referendum sulla sicurezza

La cattura arriva nel giorno del referendum promosso da Noboa su temi cruciali della sicurezza nazionale, diventando un segnale politico fortissimo. «Oggi le mafie indietreggiano. Ha vinto l’Ecuador», ha dichiarato il presidente, celebrando un risultato definito come un punto di svolta nella lotta al crimine organizzato.

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Esteri

Regno Unito, stretta storica sull’asilo: fine del permesso quinquennale e revisione continua dei rifugiati

Il governo Starmer annuncia una stretta senza precedenti sull’asilo: permesso ridotto a 30 mesi, revisione continua e residenza permanente solo dopo 20 anni. Polemiche da destra e sinistra.

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Basta asilo a tempo indeterminato. Il Regno Unito del dopo Brexit cambia paradigma e annuncia una stretta senza precedenti rispetto alla sua storica tradizione di accoglienza. A farlo è il governo laburista di sir Keir Starmer, in piena crisi di consenso e sotto la pressione crescente di forze come Reform UK di Nigel Farage.

Mahmood: «Fine del golden ticket per i richiedenti asilo»

La ministra dell’Interno Shabana Mahmood, figlia di immigrati pachistani, ribadisce alla Bbc la linea dura:

  • permesso di soggiorno ridotto a 30 mesi;

  • revisione periodica obbligatoria;

  • rimpatrio possibile se il Paese d’origine torna “sicuro”;

  • residenza permanente solo dopo 20 anni, quattro volte più del regime attuale.

La normativa vigente garantisce 5 anni di permesso ai rifugiati e accesso quasi automatico alla residenza permanente alla scadenza del quinquennio.

Londra guarda alla Danimarca e punta a frenare gli arrivi via Manica

Il governo Starmer si ispira alla linea durissima di Copenaghen, che ha ridotto le richieste di asilo ai minimi da 40 anni. L’obiettivo è scoraggiare gli arrivi via Manica sulle small boat, aumentati nonostante le promesse: nel 2025 sono già 39.000 le persone sbarcate, più di tutto il 2024.

La Francia attribuisce a Londra parte del problema, sostenendo che le norme britanniche finora troppo permissive abbiano reso difficile il controllo dell’immigrazione illegale.

Critiche da destra e sinistra

Le opposizioni conservatrici e i seguaci di Farage definiscono la stretta “superficiale” e insufficiente.
Dall’altro lato, ong, sinistra del Labour e Verdi denunciano una violazione dei principi di solidarietà e diritti umani.

Mahmood respinge ogni accusa:
«È la più grande revisione della politica d’asilo dei tempi moderni. Non sto accettando gli argomenti dell’estrema destra: è una missione morale».

Starmer cerca ossigeno in un clima politico esplosivo

Il premier laburista tenta così di frenare un’emorragia di consensi data per inarrestabile dai sondaggi, mentre anche dentro il Labour monta il malcontento. La questione migratoria diventa quindi un terreno decisivo per la sopravvivenza politica del governo.

La promessa, però, resta tutta da verificare nella sua efficacia.

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Esteri

Trump elimina i dazi su carne, frutta e caffè: retromarcia per frenare il carovita negli USA

Trump rimuove i dazi su centinaia di prodotti alimentari per placare l’ira degli americani contro il carovita. Dubbi degli esperti: è una mossa politica dettata dal nervosismo della Casa Bianca.

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Donald Trump fa marcia indietro e rimuove i dazi su carne, banane, caffè, avocado, mango, pomodori e decine di altri prodotti agricoli. Una decisione che la Casa Bianca giustifica con i “progressi nelle trattative commerciali” e con il fatto che gli Stati Uniti non producono abbastanza di questi beni per soddisfare la domanda interna.

Una spiegazione che non convince molti esperti, secondo cui la mossa nasconde il timore dell’amministrazione di fronte a prezzi sempre più alti e al crescente malcontento dei consumatori.

Il nervosismo della Casa Bianca e il tema dell’“accessibilità”

Dietro questa retromarcia c’è un’evidente tensione politica. L’inflazione sul carrello della spesa pesa da mesi sui bilanci delle famiglie, mentre Trump — che in pubblico ha liquidato il tema dell’accessibilità come una “truffa dei democratici” — teme una rivolta contro la sua agenda economica.

Il presidente era arrivato alla Casa Bianca promettendo una drastica riduzione dei prezzi e una nuova “età dell’oro”. Finora, però, gli effetti della sua ricetta economica hanno premiato soprattutto i mercati e i più ricchi, senza alleggerire la pressione sui portafogli degli americani.

Il rischio gennaio: l’esplosione dei costi sanitari

La tensione è destinata a crescere. A gennaio potrebbero schizzare i prezzi delle assicurazioni sanitarie per milioni di americani, con la fine dei sussidi dell’Obamacare. Una riforma criticata per anni dai repubblicani, ma per la quale non è mai stata proposta un’alternativa credibile.

Se i sussidi non verranno prorogati, il prezzo politico da pagare alle prossime elezioni potrebbe essere altissimo.

La retromarcia sui dazi rilancia il soprannome “Taco”

La nuova ondata di cancellazioni tariffarie ha riportato in auge il soprannome “Taco” — Trump always chickens out — con cui i critici accusano il presidente di annunciare misure aggressive salvo poi ritirarle sotto pressione.

Dal 2 aprile l’amministrazione è stata costretta a correggere più volte il tiro sui dazi, elemento centrale della sua agenda economica. Trump ha sempre sostenuto che le tariffe servono a rimettere in equilibrio gli scambi e a finanziare parte del taglio delle tasse, il suo big beautiful bill.

La minaccia della Corte Suprema

Sulle politiche tariffarie del presidente incombe ora il giudizio della Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla loro legittimità. I giudici hanno mostrato scetticismo sulla tesi della Casa Bianca, che invoca un’emergenza nazionale per giustificare le tariffe.

Una bocciatura sarebbe devastante: metterebbe in discussione la credibilità dell’amministrazione e potrebbe obbligare Washington a restituire — secondo Trump — fino a 3.000 miliardi di dollari.

Una prospettiva che spiega il clima di crescente agitazione attorno a un presidente che, per la prima volta, vede indebolirsi uno dei pilastri della sua identità politica: essere il “Re delle Tariffe”.

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