“Mi vogliono fermare ad ogni costo, l’America sta andando all’inferno ma noi la faremo grande di nuovo”, promette Donald Trump nell’attesissimo discorso ai suoi fan a Mar-a-Lago, di ritorno dallo storico arresto a New York che ha rivelato un quadro accusatorio più ampio e insidioso del previsto: una cospirazione per minare l’integrità delle elezioni del 2016, falsificando la contabilità aziendale per comprare il silenzio di due amanti d’alto bordo (la pornostar Stormy Daniels e l’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal) e di un ex portiere della Trump Tower su un suo presunto figlio illegittimo, in modo da non compromettere la sua campagna agli occhi degli elettori.
“Non ho mai pensato che una cosa del genere potesse accadere nel nostro Paese, l’unico crimine che ho commesso è stato difendere l’America da chi la vuole distruggere. La mia incriminazione è un insulto agli Stati Uniti”, ha esordito davanti ad una platea dove spiccava l’assenza di Melania (con rumors di divorzio) e di Ivanka. Ma è sembrato un leone stanco e ferito, che non riesce più ad attrarre grandi folle (come si è visto a New York) e ad entusiasmare gli spettatori con i suoi vecchi numeri. A Mar-a-Lago ha parlato solo mezz’ora ed ha riproposto le solite recriminazioni e i soliti attacchi, senza una visione nuova per la sua terza candidatura alla Casa Bianca. Dopo aver ribadito che tutte le indagini a suo carico sono “persecuzioni politiche” e “interferenze elettorali”, il tycoon ha ricoperto d’insulti uno per uno i procuratori che lo indagano, sfidando il monito del giudice di New York Juan Merchan a non fare commenti che fomentino disordini o minino lo stato di diritto: da Alvin Bragg, “pagato da George Soros” a Letitia James, da Fani Willis al “pazzo” procuratore speciale Jack Smith, impegnato sia nell’inchiesta sulle carte top secret a Mar-a-Lago che in quella sull’assalto al Capitol.
“Condanniamo qualsiasi attacco contro i giudici o il sistema giudiziario”, ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre, in quella che e’ la prima risposta all’offensiva mediatica dell’ex presidente. Dopo aver minato la fiducia nel processo elettorale con le menzogne sulle “elezioni rubate”, ora Trump tenta di delegittimare la magistratura, chiedendo ai repubblicani di togliere i fondi al dipartimento di Giustizia e all’Fbi. La sua linea è chiara: presentarsi come martire di un sistema giudiziario politicizzato, le cui inchieste scandiranno la sua campagna. Il 25 aprile c’è il processo civile intentato dalla scrittrice E. Jean Carroll, che lo ha accusato di averla violentata nello spogliatoio di un grande magazzino di Manhattan a metà degli anni ’90. A breve sono attese le incriminazioni della procura di Atlanta sulle pressioni dell’allora presidente per ribaltare il voto in Georgia, ma nei prossimi mesi dovrebbero arrivare a conclusione anche le indagini di Smith.
Il 2 ottobre parte a New York il processo civile per la causa da 250 milioni intentata da Letitia James alla Trump Organization per frodi fiscali. Intanto è stata fissata la scaletta del procedimento di Manhattan, con un processo che potrebbe iniziare a gennaio 2024, quando si aprono le primarie repubblicane, dove Trump esordirà nei panni del candidato-imputato rendendo incandescente la gara per la Casa Bianca. Il Grand Old party per ora fa quadrato, ma spera in un’alternativa. Convinto che, se il tycoon potrebbe strappare la nomination, con ogni probabilità non intercetterebbe i voti dei moderati e degli indipendenti, perdendo nuovamente nelle elezioni generali. Per ora tuttavia The Donald ha il vantaggio di monopolizzare l’attenzione mediatica, oscurando Joe Biden.
“Non c’è da meravigliarsi se non riusciamo a riprenderci da questa infezione di Trump perché i media continuano a nutrire la sua sete di essere ‘tutto ovunque in una volta’”, osserva un ex dirigente repubblicano anti tycoon, citando il film premio Oscar ‘Everything everywhere all at once’. Ma l’entourage di Biden gongola all’idea che il suo sfidante sia nuovamente il tycoon, ritenendo che gli sarà sufficiente continuare a fare “il presidente anti caos”. Trump intanto si consola incassando da Stormy Daniels altri 120 mila dollari di spese legali per una causa di diffamazione persa e monetizzando il suo arresto: l’ultimo gadget della sua campagna è la t-shirt con la foto segnaletica (falsa) del tycoon e la scritta ‘Not guilty’ a caratteri cubitali.
Si allargano anche alle possibili negligenze dei vertici della struttura sanitaria locale le indagini idella polizia britannica sulla “strage di neonati” del Countess of Chester Hospital: l’ospedale del nord dell’Inghilterra in cui un’infermiera addetta al reparto maternità fece morire – deliberatamente secondo le accuse – 7 neonati fra il 2015 e il 2016, esponendo a sovradosaggi di farmaci almeno altri 6, per motivi deliranti che in parte restano oscuri. Il primo capitolo della vicenda si è chiuso nell’agosto scorso con la condanna all’ergastolo dell’ex infermiera 33enne Lucy Letby, ribattezzata dai tabloid “la nurse killer del Chestershire”. Mentre è di oggi l’ufficializzazione della notizia dell’apertura formale di un secondo fascicolo parallelo da parte della polizia della contea sull’ipotesi di reato di complicità in omicidio colposo plurimo a carico di responsabili dell’ospedale o di figure addette sulla carta alla sorveglianza in seno al servizio sanitario nazionale (Nhs). Figure al momento non identificate. Il sovrintendente detective Simon Blackwell ha sottolineato che le verifiche riguarderanno anche i massimi vertici dell’epoca della struttura, precisando che esse sono tuttavia “a uno stadio iniziale”. E che quindi non vi sono per ora specifici individui nel registro degli indagati.
Un gioco al rialzo o rivendicazioni a uso e consumo interno? Il presidente tunisino Kais Saied ha rifiutato un primo assegno da 127 milioni dell’Unione europea, bollandolo come “elemosina”, con un rigurgito – almeno all’apparenza – di anticolonialismo. O, piuttosto, per alzare la posta, brandendo la minaccia dell’invasione di migliaia di migranti pronti a salpare da Sfax verso le coste italiane. Con un duplice obiettivo: ricevere una somma più alta, sul modello dell’accordo da 6 miliardi di euro raggiunto dall’Ue con la Turchia di Erdogan nel 2016 per chiudere i rubinetti della rotta balcanica; e riuscire ad ottenere i 900 milioni di assistenza macrofinanziaria previsti dal memorandum del luglio scorso, sganciandoli dai quasi 2 miliardi che l’Fmi tiene bloccati in attesa di riforme. Riforme che Saied – che dal 2021 si presenta come nuovo autocrate del Nord Africa – non sembra intenzionato nemmeno ad avviare.
La Commissione europea aveva annunciato nei giorni scorsi di aver stanziato i 127 milioni da versare “rapidamente” a Tunisi. Bruxelles aveva precisato che si trattava di 67 milioni per combattere l’immigrazione illegale (i primi 42 milioni dei 105 milioni di aiuti previsti dal memorandum firmato due mesi fa e altri 24,7 milioni nell’ambito di programmi già in corso) e 60 milioni legati al sostegno del bilancio tunisino. Ma Saied ha bloccato tutto: “La Tunisia accetta la cooperazione, ma non accetta nulla che somigli a carità o favore, quando questo è senza rispetto”, ha dichiarato il presidente dopo aver rinviato e sospeso nei giorni scorsi anche le visite delle delegazioni europee, prima parlamentare e poi della Commissione. Questo rifiuto, ha tenuto a sottolineare Saied, “non è dovuto all’importo irrisorio ma al fatto che questa proposta va contro” l’accordo firmato a Tunisi e “lo spirito che ha prevalso durante la Conferenza di Roma” di luglio, “iniziativa avviata da Tunisia e Italia”.
“Non abbiamo capito ancora cosa volesse dire Saied. Non abbiamo avuto la trascrizione e stiamo lavorando per avere più informazioni”, ha ammesso un alto funzionario Ue, intuendo però che il tunisino “avrebbe preferito più aiuti” rispetto alla prima tranche. Sullo stato dell’intesa la fonte ha ricordato che il Consiglio “non è stato coinvolto” nei negoziati. Ma, ha sottolineato, “non possiamo dire che il Memorandum sia un fallimento”. E se anche a Bruxelles l’intesa con Tunisi trova un ostacolo nelle diverse posizioni dei 27, preoccupa lo stato dei diritti umani nel Paese, dove la democrazia sognata dalla rivoluzione dei Gelsomini è ormai naufragata e dove lo stesso Saied ha di fatto aizzato una caccia al migrante subsahariano, ormai poco tollerato da una popolazione alle prese con una grave crisi economica e alimentare.
Resta il fatto che l’Europa e l’Italia non possono fare a meno di lavorare con la Tunisia per arginare gli sbarchi che rischiano di mettere in crisi l’Unione e il suo futuro dopo le elezioni di giugno. E Saied lo ha capito, rilanciando ogni giorno, non solo per sedare le tensioni interne ma anche e soprattutto per spingere l’Europa, di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti, a fare pressione su Washington per lo sblocco degli 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale.
La Camera ha approvato la mozione per destituire lo speaker repubblicano Kevin McCarthy, facendo precipitare il Capitol nel caos e nell’incertezza. E’ la prima volta nella storia Usa. A proporre la mozione il deputato del suo partito Matt Gaetz, un fedelissimo di Donald Trump ed esponente di una fronda parlamentare alla Camera legata al tycoon.
La votazione si è conclusa con 216 voti a favore e 210 no. Otto repubblicani hanno votato contro McCarthy. Quest’ultimo ora dovrà indicare il suo sostituto provvisorio sino all’elezione di un nuovo speaker, passaggio che non sarà certo facile e che rischia di paralizzare il Congresso proprio quando deve negoziare la prossima legge di spesa.