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Esteri

Trump parla con Putin: “Un grande progresso”. Presto un nuovo vertice a Budapest sulla guerra in Ucraina

Trump e Putin tornano a parlarsi dopo due mesi: “Un grande progresso”. Presto un vertice a Budapest. Intanto Zelensky chiede a Washington nuovi aiuti militari dopo i bombardamenti russi.

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Un grande progresso”. Con queste parole il presidente americano Donald Trump ha commentato la telefonata di due ore e mezza avuta con Vladimir Putin, la prima dopo due mesi di silenzio diplomatico.
Il colloquio, definito da entrambe le parti “franco e incoraggiante”, arriva alla vigilia dell’incontro alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky, dove si discuterà del futuro del conflitto in Ucraina e delle nuove forniture di armi.

Secondo Trump, Putin ha aperto la conversazione congratulandosi per il “grande risultato della pace in Medio Oriente”, e i due leader hanno parlato anche delle prospettive commerciali tra Russia e Stati Uniti dopo la fine della guerra.
Il successo in Medio Oriente aiuterà anche nei negoziati per la pace in Ucraina”, ha detto il presidente Usa, annunciando un nuovo vertice bilaterale con Putin a Budapest, anche se la data non è stata ancora definita.

Il summit in Europa e la soddisfazione di Orban

Il prossimo incontro tra Trump e Putin si terrà nella capitale ungherese, su invito del premier Viktor Orban, che ha salutato la notizia come “una grande opportunità per la pace”.
Si tratterà del secondo summit tra i due leader, dopo quello di Ferragosto in Alaska, e del primo organizzato in territorio dell’Unione Europea, dove peraltro vige ancora il travel ban contro i vertici russi imposto dalle sanzioni europee.

Da minacce militari a dialogo diplomatico

Il cambio di tono da parte di Trump è netto. Solo poche settimane fa, il presidente americano aveva espresso “delusione per Putin”, ventilando la possibilità di inviare a Kiev missili da crociera Tomahawk con raggio d’azione di 2.500 km.
Un’ipotesi che Mosca aveva bollato come “una nuova escalation diretta tra le prime due potenze nucleari del pianeta”, ricordando che tali armi dovrebbero essere gestite da personale americano.

Zelensky a Washington per chiedere Tomahawk e Patriot

Il leader ucraino Volodymyr Zelensky incontrerà Trump alla Casa Bianca per discutere proprio della richiesta di forniture militari, in particolare missili Tomahawk e sistemi di difesa antiaerea Patriot.
Secondo un funzionario ucraino citato da Afp, il colloquio sarà “decisivo per la sopravvivenza del Paese”, alla luce degli ultimi bombardamenti russi sulle infrastrutture energetiche, che hanno provocato interruzioni di corrente in tutte le regioni per il secondo giorno consecutivo.

Kiev sotto attacco: 300 droni e 37 missili russi

In un messaggio su Telegram, Zelensky ha denunciato “attacchi al nostro popolo e al nostro sistema energetico”, precisando che la Russia ha usato oltre 300 droni e 37 missili, molti dei quali balistici.
Le regioni più colpite sono Vinnytsia, Sumy e Poltava, dove infrastrutture civili ed energetiche sono state gravemente danneggiate.

Mosca ha confermato di aver compiuto “un massiccio attacco” contro infrastrutture del gas, sostenendo che esse “sostengono il complesso militare-industriale ucraino”.
Il ministero della Difesa russo ha riferito che sono stati impiegati anche missili ipersonici Kinzhal, giustificando l’operazione come “risposta agli attacchi terroristici ucraini” contro obiettivi civili in Russia.

La guerra dell’energia e l’incognita diplomatica

Anche Kiev continua a colpire infrastrutture russe, sebbene su scala minore. Nella regione di Volgograd, un drone ucraino intercettato ha causato un incendio in una sottostazione elettrica, mentre a Belgorod un attacco di droni ha ucciso un civile e ferito altre tre persone.

Mentre il conflitto prosegue, la telefonata tra Trump e Putin apre uno spiraglio diplomatico, ma resta da capire se la promessa di “grande progresso” potrà tradursi in un reale cessate il fuoco o se sarà solo una pausa tattica in un confronto che continua a minacciare la stabilità globale.

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Esteri

Arrestato in Europa Pipo Chavarria, il boss dei Los Lobos: «Lo abbiamo cercato fino all’inferno»

Il presidente Noboa annuncia l’arresto di Pipo Chavarria, capo dei Los Lobos, catturato in Europa dopo anni di latitanza. Il boss aveva finto la morte e continuava a ordinare omicidi dall’estero.

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«Lo abbiamo cercato fino all’inferno». Con queste parole il presidente Daniel Noboa ha annunciato la cattura di Pipo Chavarria, leader dei Los Lobos, definito «il delinquente più ricercato della regione». L’arresto è avvenuto in Europa grazie a una collaborazione tra Ecuador e polizia spagnola.

La falsa morte e la rete criminale internazionale

Secondo quanto spiegato da Noboa, Chavarria aveva finto la propria morte, cambiato identità e trovato rifugio in Europa, da dove continuava a impartire ordini. Dall’estero dirigeva omicidi in Ecuador e controllava il traffico di droga insieme al cartello messicano Jalisco Nueva Generación.

Un arresto simbolico nel giorno del referendum sulla sicurezza

La cattura arriva nel giorno del referendum promosso da Noboa su temi cruciali della sicurezza nazionale, diventando un segnale politico fortissimo. «Oggi le mafie indietreggiano. Ha vinto l’Ecuador», ha dichiarato il presidente, celebrando un risultato definito come un punto di svolta nella lotta al crimine organizzato.

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Esteri

Regno Unito, stretta storica sull’asilo: fine del permesso quinquennale e revisione continua dei rifugiati

Il governo Starmer annuncia una stretta senza precedenti sull’asilo: permesso ridotto a 30 mesi, revisione continua e residenza permanente solo dopo 20 anni. Polemiche da destra e sinistra.

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Basta asilo a tempo indeterminato. Il Regno Unito del dopo Brexit cambia paradigma e annuncia una stretta senza precedenti rispetto alla sua storica tradizione di accoglienza. A farlo è il governo laburista di sir Keir Starmer, in piena crisi di consenso e sotto la pressione crescente di forze come Reform UK di Nigel Farage.

Mahmood: «Fine del golden ticket per i richiedenti asilo»

La ministra dell’Interno Shabana Mahmood, figlia di immigrati pachistani, ribadisce alla Bbc la linea dura:

  • permesso di soggiorno ridotto a 30 mesi;

  • revisione periodica obbligatoria;

  • rimpatrio possibile se il Paese d’origine torna “sicuro”;

  • residenza permanente solo dopo 20 anni, quattro volte più del regime attuale.

La normativa vigente garantisce 5 anni di permesso ai rifugiati e accesso quasi automatico alla residenza permanente alla scadenza del quinquennio.

Londra guarda alla Danimarca e punta a frenare gli arrivi via Manica

Il governo Starmer si ispira alla linea durissima di Copenaghen, che ha ridotto le richieste di asilo ai minimi da 40 anni. L’obiettivo è scoraggiare gli arrivi via Manica sulle small boat, aumentati nonostante le promesse: nel 2025 sono già 39.000 le persone sbarcate, più di tutto il 2024.

La Francia attribuisce a Londra parte del problema, sostenendo che le norme britanniche finora troppo permissive abbiano reso difficile il controllo dell’immigrazione illegale.

Critiche da destra e sinistra

Le opposizioni conservatrici e i seguaci di Farage definiscono la stretta “superficiale” e insufficiente.
Dall’altro lato, ong, sinistra del Labour e Verdi denunciano una violazione dei principi di solidarietà e diritti umani.

Mahmood respinge ogni accusa:
«È la più grande revisione della politica d’asilo dei tempi moderni. Non sto accettando gli argomenti dell’estrema destra: è una missione morale».

Starmer cerca ossigeno in un clima politico esplosivo

Il premier laburista tenta così di frenare un’emorragia di consensi data per inarrestabile dai sondaggi, mentre anche dentro il Labour monta il malcontento. La questione migratoria diventa quindi un terreno decisivo per la sopravvivenza politica del governo.

La promessa, però, resta tutta da verificare nella sua efficacia.

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Esteri

Trump elimina i dazi su carne, frutta e caffè: retromarcia per frenare il carovita negli USA

Trump rimuove i dazi su centinaia di prodotti alimentari per placare l’ira degli americani contro il carovita. Dubbi degli esperti: è una mossa politica dettata dal nervosismo della Casa Bianca.

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Donald Trump fa marcia indietro e rimuove i dazi su carne, banane, caffè, avocado, mango, pomodori e decine di altri prodotti agricoli. Una decisione che la Casa Bianca giustifica con i “progressi nelle trattative commerciali” e con il fatto che gli Stati Uniti non producono abbastanza di questi beni per soddisfare la domanda interna.

Una spiegazione che non convince molti esperti, secondo cui la mossa nasconde il timore dell’amministrazione di fronte a prezzi sempre più alti e al crescente malcontento dei consumatori.

Il nervosismo della Casa Bianca e il tema dell’“accessibilità”

Dietro questa retromarcia c’è un’evidente tensione politica. L’inflazione sul carrello della spesa pesa da mesi sui bilanci delle famiglie, mentre Trump — che in pubblico ha liquidato il tema dell’accessibilità come una “truffa dei democratici” — teme una rivolta contro la sua agenda economica.

Il presidente era arrivato alla Casa Bianca promettendo una drastica riduzione dei prezzi e una nuova “età dell’oro”. Finora, però, gli effetti della sua ricetta economica hanno premiato soprattutto i mercati e i più ricchi, senza alleggerire la pressione sui portafogli degli americani.

Il rischio gennaio: l’esplosione dei costi sanitari

La tensione è destinata a crescere. A gennaio potrebbero schizzare i prezzi delle assicurazioni sanitarie per milioni di americani, con la fine dei sussidi dell’Obamacare. Una riforma criticata per anni dai repubblicani, ma per la quale non è mai stata proposta un’alternativa credibile.

Se i sussidi non verranno prorogati, il prezzo politico da pagare alle prossime elezioni potrebbe essere altissimo.

La retromarcia sui dazi rilancia il soprannome “Taco”

La nuova ondata di cancellazioni tariffarie ha riportato in auge il soprannome “Taco” — Trump always chickens out — con cui i critici accusano il presidente di annunciare misure aggressive salvo poi ritirarle sotto pressione.

Dal 2 aprile l’amministrazione è stata costretta a correggere più volte il tiro sui dazi, elemento centrale della sua agenda economica. Trump ha sempre sostenuto che le tariffe servono a rimettere in equilibrio gli scambi e a finanziare parte del taglio delle tasse, il suo big beautiful bill.

La minaccia della Corte Suprema

Sulle politiche tariffarie del presidente incombe ora il giudizio della Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla loro legittimità. I giudici hanno mostrato scetticismo sulla tesi della Casa Bianca, che invoca un’emergenza nazionale per giustificare le tariffe.

Una bocciatura sarebbe devastante: metterebbe in discussione la credibilità dell’amministrazione e potrebbe obbligare Washington a restituire — secondo Trump — fino a 3.000 miliardi di dollari.

Una prospettiva che spiega il clima di crescente agitazione attorno a un presidente che, per la prima volta, vede indebolirsi uno dei pilastri della sua identità politica: essere il “Re delle Tariffe”.

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