Nuove perquisizioni negli uffici della Regione Puglia sono in corso da parte della Guardia di Finanza su disposizione della Procura di Bari nell’ambito dell’indagine sugli appalti della Protezione civile regionale. Il procedimento e’ quello a carico dell’ex capo della Protezione civile Mario Antonio Lerario, in carcere dal 23 dicembre scorso dopo aver intascato due presunte Tangenti e indagato per falso ideologico, turbata liberta’ nella procedura di scelta del contraente, corruzione e turbativa d’asta con riferimento a dodici appalti affidati nel 2019, 2020 e 2021 ad altrettante ditte, tra i quali quello per l’ospedale Covid nella Fiera del Levante di Bari. In particolare i finanzieri dovranno acquisire “tutti gli atti e documenti esistenti presso gli uffici della Regione Puglia o degli enti eventualmente da questa incaricati, relativi all’intero procedimento per l’affidamento e l’esecuzione di appalti, dalla fase istruttoria riguardante la selezione del contraente sino all’esecuzione del contratto”. Le societa’ dei cui appalti si chiede la documentazione sono: Dmeco Engineering, Edil Sella, Illuzzi Antonio Unipersonale, Costruzioni Barozzi-Cobar, Demetrio Zema, Sigismondo Zema, G. Scavi, Agrigirardi di Girardi Francesco, GFG, Leo Impianti, La Pulisan – pulizia e sanificazione immobili, Neos Restauri, Sistemi Medicali. Di questi appalti la Procura ha disposto ora il sequestro dei documenti riguardanti “progetto tecnico, perizia, computo metrico, indagine di mercato con allegate richiesta di preventivi, preventivi ricevuti”. Viene chiesto inoltre il sequestro di “documentazione attestante l’iscrizione degli operatori selezionati alle white list delle Prefetture”, “verbale di somma urgenza e ogni altro documento attestante la verifica delle criticita’ ed il fabbisogno delle attivita’ da eseguire” e “tutte le relazioni/verbali di riunione/atti prodotti dai dirigenti/articolazioni/commissioni della Regione Puglia inerenti agli appalti gestiti dalle Sezioni Provveditorato ed Economato e Protezione Civile negli ultimi 5 anni”.
Il decreto di perquisizione negli uffici della Regione Puglia, nell’ambito dell’indagine sugli appalti della Protezione civile, si e’ reso necessario perche’ l’ordine di esibizione della documentazione relativa agli appalti, il 29 dicembre scorso e di nuovo il 10 gennaio, e’ “rimasto in parte ineseguito”. Lo scrive la Procura di Bari motivando il decreto di perquisizione degli uffici di via Gentile a Bari, con conseguente sequestro dei documenti relativi agli appalti affidati dalla Protezione civile, prevalentemente legati all’emergenza Covid, a dodici societa’. “Dall’esame dell’informativa della Gdf del 22 dicembre 2021 – si legge nel decreto di perquisizione a firma del procuratore aggiunto Alessio Coccioli – emerge che vari appalti gestiti dalla Protezione civile regionale e Provveditorato Economato della Regione Puglia presentano profili di penale rilevanza, sicche’ e’ necessario acquisire la documentazione che segue per i necessari approfondimenti in ordine alle ipotesi delittuose per cui si procede”. Agli ordini di esibizione il funzionario della Regione Nicola Lopane, subentrato a Lerario dopo l’arresto, ha risposto che “considerato che l’ingegner Mercurio (altro funzionario regionale co-indagato, ndr) ha rappresentato che l’istruttoria di verifica delle offerte e’ stata seguita da altro personale e dal dirigente della sezione protezione civile, non escludo che esista ulteriore documentazione pertinente l’ordine di esibizione in possesso dei citati soggetti, mi riservo di effettuare ulteriori approfondimenti al fine di identificare il personale citato dall’ingegner Mercurio”. “A tali dichiarazioni – rileva la Procura – non ha fatto seguito alcuna altra informazione da parte degli uffici della Regione, sicche’ e’ necessario acquisire la documentazione al fine di svolgere tutte le indagini del caso”.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.