Il dottor Giovanni Falcone fu ucciso assieme alla moglie e agli uomini della sua scorta con modalità brutali ventotto anni fa. La strage di Capaci. Un pezzo di autostrada fatto saltare in aria per eliminare il giudice che combatteva seriamente la mafia. Era il 23 maggio 1992. Dopo meno di due mesi, con le stesse modalità brutali, un’auto bomba, la mafia uccise l’amico e collega magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta in via D’Amelio a Palermo. Oggi le loro idee continuano a camminare sulle nostre gambe: sono davvero in tanti a portare avanti il pensiero e l’azione dei due pm antimafia.
Fra questi c’è Catello Maresca, 12 anni alla Procura distrettuale antimafia, oggi sostituto procuratore generale di Napoli. “Quando ci furono le stragi avevo vent’anni. Rafforzarono ancora di più la mia convinzione di fare il magistrato e di dare un contributo al mio Paese nella lotta alle mafie”. E il dottor Maresca ha dato un contributo importante. Portano la sua firma centinaia di arresti di boss e picciotti del clan mafioso dei Casalesi, uno dei gruppi criminali più efferati del nostro Paese. È stato lui il regista delle catture di tutti i capi di questa cosca mafiosa, da Giuseppe Setola a Michele Zagaria, ultimo caso dei capi del clan ristretto al 41 bis. L’anniversario di oggi è l’occasione per ricordare l’eredità del messaggio di Falcone e fare il punto sullo stato dell’arte del contrasto alle mafie in Italia, in un momento storico in cui la parola mafia pare essere sparita dall’agenda politica dei Governi e dal dibattito quotidiano di stampa e televisioni.
Dottor Maresca, qual è l’eredità più importante di Falcone? Che cosa resta oggi del suo messaggio?
L’eredità più importante è il modello di magistrato che ha rappresentato, un magistrato non solo appassionato ed efficace nelle investigazioni contro il crimine organizzato, ma anche illuminato e in anticipo sui tempi. Comprese con lungimiranza la poliedricità della criminalità organizzata e intuì la necessità di una lotta senza quartiere anche al di fuori delle aule dei tribunali. Falcone era convinto che la vittoria dello Stato passasse per la cultura delle persone; per questo andava sempre nelle scuole e nelle università. Si concedeva molto a giornali e televisioni, era un personaggio mediatico per gli standard dell’epoca, e lo faceva non perché fosse egocentrico, ma perché aveva capito che chi combatte la mafia deve mostrare alla gente cosa significa combattere la mafia. Con Falcone la lotta antimafia è diventata un messaggio universale.
Quanto ha inciso la figura di Falcone nella sua formazione come pm?
Ha inciso tanto, dall’inizio alla fine; è stato uno stimolo in più. Nel 1992 avevo vent’anni, frequentavo l’Università. Ricordo nitidamente i momenti in cui si diffusero le notizie delle due stragi del 1992. Rafforzarono ulteriormente la mia già solida volontà di diventare un magistrato, con la prospettiva di poter dare un contributo anche nella lotta alla mafia. La fortuna mi ha consentito di farlo proprio come sognavo. Quando morirono Falcone e Borsellino ho capito che avrei dato tutto me stesso per portare avanti le loro battaglie.
Che cosa manca per arrivare alla verità processuale sulle stragi? Che cosa hanno significato le stragi del ’92 per la storia dell’Italia?
Non so che cosa manchi per giungere alla verità, lo scopriremo. Certo, sappiamo che è mancata chiarezza, ci sono stati depistaggi; purtroppo c’è ancora tanto da scrivere su questa pagina oscura del nostro Paese. Le stragi sono state un evento drammatico della nostra storia, ma al tempo stesso hanno rappresentato un momento di riscatto, il momento in cui Falcone e Borsellino sono diventati immortali. L’immortalità è quando le tue idee continuano a camminare sulle gambe di altri ed è esattamente quello che è successo con Falcone e Borsellino. La vera rivoluzione antimafia in Italia è nata nel ’92, a Palermo, città di sangue ma anche di speranze.
Eppure la mafia è ormai poco più di un rumore di fondo, qualcosa di cui si parla malvolentieri. Come si è arrivati a questo punto?
Di mafia si parla poco e male. Poco, perché se ne parla solo quando ci sono situazioni eclatanti: stragi, omicidi eccellenti, scarcerazioni. Appena si ritorna all’ordinario se ne parla poco o niente. Ci si ricorda degli anniversari delle stragi, della giornata della legalità e di poco altro. Secondo me il problema è che si sottovaluta la pericolosità delle mafie. Pensiamo che siano pericolose quando sparano, in realtà è l’esatto contrario, le mafie sono molto più pericolose quando non sparano. Eppure quando non sparano, guarda caso, noi ce ne dimentichiamo. Dovremmo invertire la tendenza, seguendo l’esempio di Falcone e Borsellino: portare il dibattito nelle scuole, spiegando ai bambini prima ancora che ai ragazzi quanto subdola e pericolosa possa essere la mafia nel nostro Paese.
La tensione morale che aveva contraddistinto il Paese dopo la stagione stragista pare ormai essersi quasi del tutto esaurita. Come si esce dall’inerzia in cui siamo caduti?
Ci vorrebbero una grande operazione culturale ed una grande operazione politica. La prima consiste nel fare informazione, portando l’antimafia nelle scuole. Noi ci siamo battuti perché si insegnasse l’educazione civica nelle scuole, ma servirebbe anche l’educazione antimafia. E poi una grande operazione politica. Aspetto ancora un Governo che mi spieghi la strategia antimafia che ha intenzione di adottare nel corso del suo mandato.
Se dovesse evidenziare un solo aspetto, quale crede sia il cambiamento più significativo che ha riguardato la mafia in questi trent’anni?
La mafia si è fatta impresa, infiltrandosi nell’economia legale. Questa era stata un’intuizione di Falcone, che sosteneva che si dovevano seguire i patrimoni per scoprire dove la mafia investiva i suoi proventi, un’operazione che dobbiamo fare per la camorra, per la ‘ndrangheta e per tutte le mafie presenti a Roma, a Milano, in Veneto, in Valle d’Aosta, ovunque in Italia. Tutti le risorse che le mafie guadagnano con l’economia del vizio (spaccio di droga, prostituzione, scommesse clandestine) vengono reinvestite nel circuito legale, condizionando profondamente il tessuto economico. Se noi non siamo capaci di individuare una strategia preventiva, non ne verremo mai a capo. La magistratura, con il suo straordinario lavoro, riesce a scoprire non più del 10% del fatturato delle mafie. È un problema non da poco, un problema che qualsiasi Stato avveduto considererebbe come prioritario.
Il pool antimafia di Palermo. Il capo, Antonino Caponnetto, i pm Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Come andrebbero aggiornati gli strumenti normativi di contrasto alle mafie?
In Italia disponiamo di un significativo armamentario antimafia. Bisognerebbe piuttosto mettere in campo una strategia europea di contrasto alla criminalità organizzata. Molti dei capitali mafiosi vanno a finire all’estero e sono reinvestiti in altri Paesi. Poi dobbiamo difendere strenuamente gli istituti che abbiamo costruito e che hanno dimostrato la loro efficacia nella lotta alle mafie. Il 41bis, in particolare, sta subendo una lenta ma inesorabile aggressione da parte della Cedu e delle istituzioni europee, che tentano in ogni modo di ridimensionarlo.
L’istituto del 41bis non è quello delle origini?
Non solo non lo è, è stato svuotato della funzione originarioa. Io credo che la prossima battaglia che dovremo affrontare sarà quella per difendere l’istituto del carcere duro previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. A parte l’ultima sentenza della Corte Costituzionale che ne circoscrive gli effetti in relazione allo scambio di beni tra detenuti, è in corso da tempo un processo di lenta erosione dell’istituto. Sarebbe un grave errore di valutazione quello di non comprendere tempestivamente il pericolo che si nasconde dietro questa tendenza negazionista. È una constatazione che rende oggi più amara questa giornata di commemorazione di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Speriamo che la politica sappia comprendere per tempo il pericolo ed intervenga con determinazione ed efficacia. La lotta alle mafie non e’ facile e si fa con convinzione e competenza. Buon 23 maggio a tutti.
Come spiega la longevità delle mafie in Italia?
La spiego con l’incapacità dello Stato di comprendere che ci vuole un sistema di aggressione anche extragiudiziario, che passa attraverso la cultura e la consapevolezza della presenza dello Stato. Le mafie si sviluppano dove lo Stato non arriva; se lo Stato è presente offrendo servizi e presidiando concretamente il territorio, le mafie non trovano spazio.
E’ soddisfatto di come il ministro Bonafede ha chiuso la vicenda della scarcerazione dei quasi 500 mafiosi?
Io sarò soddisfatto quando l’ultimo dei quasi 500 mafiosi scarcerati ritornerà in cella, ad espiare la giusta pena irrogata da un tribunale di un Paese democratico qual è l’Italia. Le regole devono valere per tutti: anche per i mafiosi. Hanno diritto al giusto processo, devo scontare la giusta pena. Solo in quel momento potrò ritenermi soddisfatto, ma solo parzialmente, perché difficilmente si potrà riparare ai danni arrecati alla lotta antimafia dalle scarcerazioni di questi mesi.
Il dottor Bernardo Petralia, nuovo capo del Dap, ha dichiarato di voler dirigere il Dipartimento lavorando in sinergia con associazioni come Antigone e con il garante dei detenuti. Che cosa ne pensa di questa affermazione che ha fatto sbottare i sindacati della polizia penitenziaria?
È un’uscita che mi ha sorpreso. Mi sarei aspettato prima di tutto una sinergia con la polizia penitenziaria e poi con le associazioni che operano per tutelare i diritti dei detenuti. I diritti dei detenuti si tutelano prima di tutto in carcere attraverso l’organizzazione del penitenziario, poi ascoltando le rivendicazioni delle associazioni sulla cui importanza non ho dubbi. Sono certo che il dottor Petralia ascolterà con attenzione le rivendicazioni del corpo della Polizia penitenziaria che tra mille difficoltà assicura ancora un minimo di decenza alla Istituzione.
Il Csm ha votato l’incompatibilità del dottor Sirignano, allontanandolo dalla Direzione nazionale antimafia. Come commenta questa decisione?
Conosco la correttezza morale e la statura professionale ed umana del collega Sirignano. Non posso che prendere questa notizia con grandissimo dispiacere. Credo che sia una grossa ingiustizia e spero che Sirignano riesca a dimostrare nelle sedi opportune tutte le sue ragioni.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.