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Stoltenberg: valutiamo l’invio di caccia a Kiev

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A Ramstein la lega per l’Ucraina – copyright del capo del Pentagono Lloyd Austin – fa il punto, come sempre, sulle esigenze pratiche di Kiev per vincere la guerra, specie in vista della controffensiva, che qualche alleato nota stia “tardando a manifestarsi”. Eppure molti tabù sono caduti. Il segretario generale della Nato ha dichiarato apertamente che “è in corso una discussione” sull’ulteriore consegna di “altri tipi di jet” dopo che la Polonia e la Slovacchia hanno fornito i loro Mig-29 di epoca sovietica. Il focus, ad ogni modo, è stato su “difesa aerea e munizioni”. E qui si tocca un tasto dolente, perché l’Unione Europea rischia d’incartarsi sulla messa a terra del suo piano per dare all’Ucraina un milione di proiettili da 155mm entro un anno, così come deciso poco più di un mese fa. Il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba – che si collegherà in videoconferenza con il consiglio Affari Esteri di lunedì prossimo – ha lanciato accuse precise.

“L’incapacità dell’Ue di attuare la propria decisione sull’approvvigionamento congiunto di munizioni per l’Ucraina è frustrante”, ha scritto su Twitter. Il ritardo è dovuto in gran parte alla Francia, che sta insistendo perché l’accordo politico di sostenere l’industria europea della difesa, con sovvenzioni all’aumento della capacità produttiva per produrre quel milione di munizioni, sia “tradotto fedelmente” nei testi legali. Il problema è che per Parigi l’intera filiera dovrebbe essere europea, il che escluderebbe dai giochi alcune grandi aziende. Un’interpretazione troppo stretta (e troppo favorevole alla Francia) per la quasi totalità dei 27. “Spiegano agli altri qual è l’interesse di tutti, ma di norma l’interesse comune viene deciso insieme, non da un Paese solo”, osserva una fonte diplomatica. Ma l’intesa, a quanto pare, è ormai vicina. E l’accezione ortodossa sulle catene di valore verrà accantonata. L’importante ora è che le beghe europee non rubino la scena a ciò che davvero conta, ovvero dare all’Ucraina quel che le serve perché la controffensiva di primavera “non si trasformi in quella estiva, o peggio, autunnale”. I summit di Ramstein – a trazione Usa – hanno proprio tale scopo: non perdere di vista la visione d’insieme. Jens Stoltenberg, fresco della sua visita a sorpresa a Kiev, ha portato agli alleati una novità: il presidente Volodymyr Zelensky verrà al vertice dei leader Nato di Vilnius, a luglio. Non era scontato, dato che aveva legato la sua presenza “a risultati concreti” per l’Ucraina. Ovvero, in quel contesto, un impegno chiaro sull’ingresso del suo Paese nell’alleanza (il blocco orientale chiede a gran voce la concessione di un cronoprogramma chiaro, o Map, sulla falsariga di quanto fatto dall’Ue sullo status di candidato).

Il che sarebbe una mossa dirompente, vista la situazione. Stoltenberg a Kiev ha simbolicamente ribadito che “il posto dell’Ucraina è nella Nato” e ha pure ripetuto (posizione nota) come però ora non sia il momento di parlarne, perché prima bisogna assicurare la sopravvivenza dello Stato ucraino. Berlino è smaccatamente su questa linea. “La porta è un po’ aperta ma serve decidere con mente fredda e cuore caldo, non viceversa”, ha detto il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, rimandando il tutto a dopo il conflitto. Che poi è la valutazione della Vecchia Europa continentale e – sostengono fonti Nato – persino degli Stati Uniti. Insomma, adesso lo sforzo deve essere concentrato sulla logistica della guerra, assicurandosi che il materiale fornito finora (inclusi i tank e i mezzi corazzati) sia in grado di fare il suo lavoro – Stoltenberg, se tutto ciò sarà assicurato, si dice fiducioso che le forze di Kiev possano “riconquistare altro terreno”. Non è un aspetto secondario. Perché molti a Bruxelles notano come si stiano formando “alcune crepe” alla granitica unità mostrata sinora. In sintesi: Zelensky ora ha bisogno di qualcosa in più dell’eroica difesa di Bakhmut.

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Parigi, arrestato l’uomo che minacciava di farsi saltare nel consolato dell’Iran: era disarmato

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È stato arrestato l’uomo che si era asserragliato nel consolato dell’Iran a Parigi: aveva minacciato di farsi saltare per aria ma quando è uscito dallo stabile, perquisito, non aveva nessun esplosivo addosso: l’uomo però era già stato indagato per un incendio nei locali del consolato nel 2023.  L’uomo,  61 anni, aveva giustificato il gesto spiegando che voleva sostenere il movimento di protesta in Iran nato  dopo la morte di una ragazza arrestata dalla polizia perché non portava bene il velo. Per quell’episodio venne condannato a otto mesi con la condizionale, oltre ad essere colpito da un divieto di recarsi nel 16esimo arrondissement di Parigi, proprio dove si trova il consolato iraniano.

Sul posto la polizia ha inviato unità di intervento rapido ed ha istituito un perimetro di sicurezza in diverse strade intorno a Place du Trocadero, dove si trova il consolato iraniano, un luogo affollato che è proprio di fronte alla Torre Eiffel. Il consolato iraniano a Parigi non è mai molto affollato e vengono rilasciati pochi visti, a causa della freddezza tra i due paesi.

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L’Australia esorta i suoi cittadini a lasciare Israele

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Il governo australiano ha esortato i suoi cittadini in Israele a “andarsene, se è sicuro farlo”. “C’è una forte minaccia di rappresaglie militari e attacchi terroristici contro Israele e gli interessi israeliani in tutta la regione. La situazione della sicurezza potrebbe deteriorarsi rapidamente. Esortiamo gli australiani in Israele o nei Territori palestinesi occupati a partire, se è sicuro farlo”, secondo un post su X che pubblica gli avvisi del dipartimento degli affari esteri e del commercio del governo australiano.

Il dipartimento ha avvertito che “gli attacchi militari potrebbero comportare chiusure dello spazio aereo, cancellazioni e deviazioni di voli e altre interruzioni del viaggio”. In particolare è preoccupato che l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv “possa sospendere le operazioni a causa di accresciute preoccupazioni per la sicurezza in qualsiasi momento e con breve preavviso”.

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Ian Bremmer: l’attacco di Israele è una sorta di de-escalation

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C’è chi legge una escalation e chi invece pensa che sia una de escalation questo attacco israeliano contro l’Iran. “È un allentamento dell’escalation. Dovevano fare qualcosa ma l’azione è limitata rispetto all’attacco su Damasco che ha fatto precipitare la crisi”. Lo scrive su X Ian Bremmer, analista fondatore di Eurasia Group, società di consulenza sui rischi geopolitici.

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