E come in una favola mentre il buio e le ombre incombono e un virus sconosciuto stravolge le nostre vite, a Napoli, nel Sud dell’Italia si fa spazio un’iniziativa popolare, che fa il giro del mondo: “ i panieri solidali” e la storia si tinge di rosa, la speranza ritorna a far sorridere le persone, il lockdown durissimo imposto da un’emergenza sanitaria inaspettata produce un fenomeno che davvero colpisce l’immaginario per la sua straordinaria umanità e per la sua incredibile semplicità. Ma cosa è un “ paniere” o come si dice in dialetto napoletano “ o’ panaro” , non è altro che un cesto di vimini solitamente capiente e rotondo a cui è legata una corda o dello spago. Nella tradizione partenopea era usato per fare la spesa, veniva “ calato” in dialetto, in italiano “ fatto scendere” da balconi, terrazzi e finestre. Un uso frequente in ogni quartiere di Napoli, da quelli più popolari a quelli più borghesi, nei palazzi nobiliari veniva adoperato nei cortili, un oggetto che tutte le case possedevano e ancora possiedono in un angolo tra la cucina e la dispensa. Nella primavera del 2019 , la città famosa per la sua bellezza, per il buon cibo, per essere una cartolina internazionale con il suo Golfo unico, celebre per la sue canzoni e le sue melodie e non ultimo per la sua indiscutibile teatralità, ridà vita ai “ panieri”. Nei vicoli e nella strade del centro storico, rispuntano cesti sospesi con delle scritte che toccano i cuori e commuovono “chi puo’ metta, chi non puo’ prenda”. Da Napoli , parte l’esempio e così tutte le città italiane, da Nord a Sud adottano cesti, buste, panieri, ovunque la solidarietà si appropria delle strade. I panieri della solidarietà conquistano la prima pagina del “TheNew York Times”, del “TheGuardian”, la pop star italo americana Madonna pubblica su Instagram le immagini, l’Italia riesce ad essere nel momento del dolore e della paura, una voce di speranza e di generosità, l’Italia che non lascia indietro nessuno, che regala senza farsi pubblicità, quando tutto sembra perso.
Roberta Basile
Salvatore Laporta
Roberta Basile e Salvatore Laporta, ci hanno raccontato la vita nelle strade deserte, hanno fotografato con la loro sensibilità la vita delle persone, i loro scatti sono pagine di una storia che non è stata scritta ancora dai manuali ma che ci ha coinvolto tutti. Da queste foto nasce la mostra virtuale I “ Panieri della Solidarietà” ( “Baskets of Solidarity”) una mostra fotografica, con le foto dei due autori dell’agenzia Kontrolab, creata e realizzata su iniziativa dell’Ambasciata italiana in Kuwait, in collaborazione con l’Istituto Garuzzo per le Arti Visive, lanciata sul canale YouTube dell’Ambasciata
Semplici cesti sospesi tra le strade ed i vicoli del centro storico partenopeo, uno dei più grandi centri storici del mondo, una scritta semplice e diretta:” chi può metta, chi non può prenda”! Nelle fotografie di Basile e Laporta, c’è emozione, ci sono spaccati di vita , i vicoli di Napoli sempre affollati e sempre vocianti e colorati sono irriconoscibili, l’obiettivo riesce a catturare una dimensione inusuale e al contempo la voglia di poter tornare in strada, di riconquistare la normalità. Fotogrammi che indagano una nuova dimensione di vita, un ritorno al passato, gli scatti dei “ panieri solidali” sono uno dei simboli di questa epidemia. L’Ambasciatore Baldocci ha raccontato nell’introduzione del video uno spaccato che ha conquistato durante la scorsa primavera le prime pagine della stampa nazionale e internazionale, colpendo l’opinione pubblica sino a far diventare Napoli un esempio da emulare in molti angoli del mondo:“Si tratta di una importante e commovente testimonianza di come Napoli, nelle durissime settimane del lockdown, abbia saputo trasformare un’antica tradizione in una forma di autentica condivisione solidale”. “L’Istituto Garuzzo è onorato e felice di poter collaborare a questo progetto con l’Ambasciata d’Italia Al Kuwait – dichiara il presidente Rosalba Garuzzo- le immagini di Roberta Basile e Salvatore Laporta raccontano Napoli e l’Italia, la speranza e la generosità di chi regala, di chi combatte per non lasciare indietro nessuno sconfiggendo così il dolore e la paura”. Scatti che commuovono e che entreranno a far parte dei manuali di storia. ” Queste foto sono spesso dure, crude, ma tutte emozionanti – conclude l’Amb. Baldocci – reportage e arte si innestano l’uno nell’altra. Da esse emerge un messaggio positivo e di forte speranza. Oltre alla certezza che è solo insieme che ce la faremo”.
Dall’esplosione del Vesuvio in tutto il suo realismo alla materia lavica nelle opere di Burri e Mancini, è un Ottocento che inizia dal Settecento con un muro di Thomas Jones (A well in Naples) del 1782 e finisce nel Novecento perché “un secolo non inizia e finisce in modo matematico”, spiega Sylvain Bellenger, curatore della mostra che racconta Napoli alle Scuderie del Quirinale fino al 16 giugno. ‘Napoli Ottocento. Degas, Fortuny, Gemito, Mancini, Morelli, Palizzi, Sargent, Turner’, sublime e materia, nel lungo titolo di questa mostra che racconta non un città, ma un vero e proprio universo in un secolo totalmente da riscoprire. “Questa è una mostra coraggiosa – spiega ancora Bellenger – prima di tutto perché trattare dell’Ottocento è coraggioso. È il secolo più lungo e più importante per la modernità, ma scandaloso nella testa degli storici dell’arte.
Il più vivo in Italia è poi l’Ottocento napoletano nella sua totalità, anche politica. Sublime è il ritorno al Vesuvio, un concetto che all’inizio di quel secolo significa terrore e meraviglia della natura. Il concetto di materia del resto – aggiunge – si coniuga così con quello di spiritualità e definisce l’arte napoletana della scuola di Posillipo fino all’informale”. Si parte infatti con le varie eruzioni del vulcano che segnano il Settecento, per passare poi all’attrazione per Pompei che mette Napoli al centro della formazione intellettuale degli artisti europei e poi arrivando nel golfo scoprono il mare, la luce incredibilmente intensa, e nasce la scuola del plein air. Ed ecco allora, stanza dopo stanza, colori, luoghi, e personalità che si susseguono con alcuni focus tematici e alcuni su singoli artisti.
C’è la stravolgente Arca di Filippo Palizzi, dove gli animali non fuggono dalle acque ma evidentemente da un’eruzione, quella del Vesuvio, che riduce la terra in polvere. Ci sono i meravigliosi paesaggi bruciati dalla luce di Giuseppe De Nittis, due piccoli William Turner che valgono la mostra nel blu metafisico del loro splendore, le due vedute di Gioacchino Toma, realizzate a quattro anni di distanza nello stesso luogo. Un discorso a parte poi vale il riflettore puntato su Edgar Degas nel suo strettissimo rapporto con Napoli. Di origine napoletana, aveva vissuto l’infanzia nella città e parlava correntemente napoletano: per il curatore, infatti, che qui propone una serie di intensi ritratti dell’artista, è proprio l’influenza napoletana che segna la differenza e l’originalità dell’artista rispetto alla scuola francese.
La Napoli del XIX secolo è anche riconosciuta come un’importante capitale scientifica e qui una videoistallazione di Stefano Gargiulo accompagna il visitatore nella peculiarità della Stazione Zoologica voluta da Anton Dohrn, primo centro di studio oceanografico in Italia. Napoli è stata, terza città d’Europa, dopo Londra e Parigi, sede di una delle più antiche università italiane, della prima scuola di lingue orientali in Europa ad esempio e anche l’orientalismo è oggetto di una delle spettacolari dieci sezioni della mostra. “Una mostra – sintetizza Mario De Simoni, direttore generale delle Scuderie del Quirinale – concepita alla fine della pandemia e dedicata non a caso a una delle città più vitali e più amate, che racconta Napoli nella sua vocazione di grande capitale e che segna una volta di più la fecondità della presenza delle Scuderie nel sistema del ministero della Cultura, questa volta attraverso l’organizzazione congiunta con il Museo e Real Bosco di Capodimonte e la collaborazione con la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea e con la Direzione Regionale Musei della Campania”.
Pompei continua a riservare nuove sorprese, dagli scavi in corso al Parco Archeologico emergono nuovi dati sull’edilizia romana. Negli ambienti di antiche domus che lo scavo archeologico sta portando alla luce nella Regio IX, insula 10, sono riemerse importanti testimonianze di un cantiere in piena attività: strumenti di lavoro, tegole e mattoni di tufo accatastati e cumuli di calce.
Secondo gli studiosi il cantiere era attivo fino al giorno dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., che iniziò intorno all’ora di pranzo e durò fino alla mattina del giorno successivo. Lo scavo nell’area in questione, finalizzato alla regimentazione dell’assetto idrogeologico lungo il confine tra la parte scavata e quella non scavata della città romana, sta attestando la presenza di un cantiere antico che interessava tutto l’isolato. Particolarmente numerose sono le evidenze dei lavori in corso nella casa con il panificio di Rustio Vero, dove è stata già documentata negli scorsi mesi una natura morta con la raffigurazione di una focaccia e un calice di vino.
L’atrio era parzialmente scoperto, a terra si trovavano accatastati materiali per la ristrutturazione e su un’anta del tablino (ambiente di ricevimento), decorato in IV stile pompeiano con un quadro mitologico con “Achille a Sciro”, si leggono ancora oggi quelli che probabilmente erano i conteggi del cantiere, ovvero numeri romani scritti a carboncino, facilmente cancellabili a differenza dei graffiti incisi nell’intonaco.
Tracce delle attività in corso si trovano anche nell’ambiente che ospitava il larario, dove sono state trovate anfore riutilizzate per “spegnere” la calce impiegata nella stesura degli intonaci. In diversi ambienti della casa sono stati scoperti strumenti di cantiere, dal peso di piombo per tirare su un muro perfettamente verticale (“a piombo”) alle zappe di ferro usate per la preparazione della malta e per la lavorazione della calce. Anche nella casa vicina, raggiungibile da una porta interna, e in una grande dimora alle spalle delle due abitazioni, per ora solo parzialmente indagata, sono state riscontrate numerose testimonianze di un grande cantiere, attestato anche dagli enormi cumuli di pietre da impiegare nella ricostruzione dei muri e dalle anfore, ceramiche e tegole raccolte per essere trasformate in cocciopesto.
Si tratta di un’“occasione straordinaria per sperimentare le potenzialità di una stretta collaborazione tra archeologi e scienziati dei materiali”, scrivono gli autori di un articolo pubblicato sull’E-Journal degli Scavi di Pompei. Nell’analisi dei materiali e delle tecniche costruttive, il Parco Archeologico di Pompei si è avvalso del supporto di un gruppo di esperti del Massachusetts Institute of Technology, USA. “L’ipotesi portata avanti dal team è quella dello hot mixing, ovvero la miscelazione a temperature elevate, dove la calce viva (e non la calce spenta) è premiscelata con pozzolana a secco e successivamente idratata e applicata nella costruzione dell’opus caementicium”, si legge nel testo.
Normalmente, la calce viva viene immersa nell’acqua, cioè “spenta”, molto tempo prima dell’uso in cantiere, formando il cosiddetto grassello di calce, un materiale di consistenza plastica. Lo “spegnimento”, ovvero la reazione tra calce viva e acqua, produce calore. Solo al momento della messa in opera, la calce viene poi mescolata con sabbia e inerti per produrre la malta o il cementizio.
Nel caso del cantiere di Pompei, invece, risulta che la calce viva, ovvero non ancora portata a contatto con l’acqua, venisse in un primo momento mescolata solo con la sabbia pozzolanica. Mentre il contatto con l’acqua avveniva poco prima della posa in opera del muro. Ciò significa che, durante la costruzione della parete, la miscela di calce, sabbia pozzolanica e pietre era ancora calda per via della reazione termica in corso e di conseguenza si asciugava più rapidamente, abbreviando i tempi di realizzazione dell’intera costruzione.
Diversamente quando si trattava di intonacare le pareti, sembra che la calce venisse prima spenta e successivamente mescolata con gli inerti per essere poi stesa, come si fa ancora oggi.
“Pompei è uno scrigno di tesori e non tutto si è svelato nella sua piena bellezza. Tanto materiale deve ancora poter emergere. Nell’ultima Legge di Bilancio abbiamo finanziato nuovi scavi in tutta l’Italia e una parte importante di questo stanziamento è destinata proprio a Pompei – dichiara il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano – Mi ha fatto molto piacere quando il direttore del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel, ha ricordato che, mai come in questo momento, sono attivi così tanti scavi nel sito: possiamo dire che è un record degli ultimi decenni. Allo stesso tempo stiamo lavorando anche su altri fronti. Nei mesi scorsi il Ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha ceduto al Ministero della Cultura l’ex Spolettificio di Torre Annunziata, dove nascerà un grande museo per raccogliere tutti questi reperti”.
Massimo Osanna
“Lo scavo nella Regio IX, insula 10, progettato negli anni del Grande Progetto Pompei sta dando, come era prevedibile, importanti risultati per la conoscenza della città antica. Un cantiere di ricerca interdisciplinare, nato come il precedente scavo della Regio V, dalla necessità di mettere in sicurezza i fronti di scavo, ossia le pareti di materiale eruttivo lasciate dagli scavi del XIX e XX secolo che incombono pericolosamente sulle aree scavate. Pompei continua a essere un cantiere permanente dove ricerca, messa in sicurezza, manutenzione e fruizione sono attività connesse e prassi quotidiana”, afferma il Direttore generale Musei, Massimo Osanna.
Gabriel Zuchtriegel
“È un ulteriore esempio di come la piccola città di Pompei ci fa capire tante cose del grande Impero romano, non ultimo l’uso dell’opera cementizia. Senza il cementizio non avremmo né il Colosseo, né il Pantheon, né le Terme di Caracalla. Gli scavi in corso a Pompei offrono la possibilità di osservare quasi in diretta come funzionava un cantiere antico – sottolinea il Direttore del Parco, Gabriel Zuchtriegel – I dati che emergono sembrano puntare sull’utilizzo della calce viva nella fase di costruzione dei muri, una prassi già ipotizzata in passato e atta ad accelerare notevolmente i tempi di una nuova costruzione, ma anche di una ristrutturazione di edifici danneggiati, per esempio da un terremoto. Questa sembra essere stata una situazione molto diffusa a Pompei, dove erano in corso lavori un po’ ovunque, per cui è probabile che dopo il grande terremoto del 62 d.C., diciassette anni prima dell’eruzione, ci fossero state altre scosse sismiche che colpirono la città prima del cataclisma del 79 d.C. Ora facciamo rete tra enti di ricerca per studiare il saper fare costruttivo degli antichi romani: forse possiamo imparare da loro, pensiamo alla sostenibilità e al riuso dei materiali”.
‘Carmen Rap’ alle Officine San Carlo contro il femminicidio tra lirica, prosa e musica: la riporta in scena il Massimo, in occasione della Giornata Mondiale del teatro, con i giovani del laboratorio di Vigliena il 27 e il 28 marzo (ore 20.30). Musiche (eseguite dai professori d’orchestra del San Carlo) e testi sono di Luca Caiazzo, in arte Lucariello, la drammaturgia è di Federico Vacalebre, la regia di Michele Sorrentino Mangini. All’iniziativa saranno presenti il sindaco e presidente della Fondazione Gaetano Manfredi, il prefetto di Napoli Michele di Bari, la Commissione Straordinaria per il risanamento e la riqualificazione funzionali al territorio del Comune di Caivano con il Commissario Fabio Ciciliano.
Il messaggio di quest’anno è ‘L’arte è Pace’, scritto dal norvegese Jon Fosse. “Lo spunto lirico è l’opera di Bizet, magari con la trama ricondotta a Mérimée e poi trasportata ai giorni nostri, nelle terre nostre – spiega Vacalebre – I contrabbandieri, naturalmente, si occupano di droga, stanno senza penziere. E Carmen, Carmencita, anzi Carme’ fa la stessa tragica fine di sempre, perché il femminicidio non è mai stato così di attualità, anche se muore a ritmo trap”. “La mia opera su Carmen – prosegue Luca Caiazzo – è stata sviluppata con l’unico approccio possibile per me: quello di un rapper beatmaker, al di fuori degli schemi del mondo classico. Non ho utilizzato campionamenti degli strumenti elettronici. Grazie alla tecnologia ho potuto adattare direttamente la partitura di Bizet, preservando intatte le arie più suggestive”.
Xana Vazquez de Prada sarà Carme’, non più gitana, ma portoricana a Castel Volturno. Legge le carte, ma soprattutto fa la ballerina, la cubista, in una discoteca-lido. Don Josè è ora Giuseppe, interpretato da Alessio Sica, Zuniga è diventato Zurzolo, interpretato da Vincenzo Bove. Escamillo, il trapper ‘O Torero’, è Oyoshe Waza. Le scene di Fabio Marroncelli sono state realizzate gli studenti dell’Officina di Scenografia diretta da Anna Nasone. Giusi Giustino, che firma i costumi, ha lavorato con l’Officina di Sartoria Teatrale Circolare. Al progetto collaborano la Fondazione Una Nessuna Centomila, presidente Giulia Minoli, la cooperativa sociale EVA e Donne del Vino.