Siccità è il nuovo film di Paolo Virzì. Un film in cui c’è una Roma,e per estensione un Paese, in cui non piove da tre anni. Le persone paiono perdute e isolate nel proprio egoismo e nella propria miseria. Non comunicano, non si parlano, la crisi energetica incombe. Di questo film insieme distopico, amaro e umanissimo, ce ne parla Alberto Raf.
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La crisi ambientale è un evento di proporzioni planetarie, ma si manifesta drammaticamente alla scala locale, come abbiamo visto questa estate in Pakistan o in Bangladesh. La siccità che colpisce Roma da più di un anno e prosciuga completamente il Tevere (di nuovo questa estate abbiamo visto il Po in secca a Torino: esattamente la stessa scena del film), trasforma “La grande bellezza” (con richiamo al film di P. Sorrentino) in uno spazio pandemico. La mancanza d’acqua, il moltiplicarsi di insetti che sanno rendersi invisibili, diffondono la tripanosomiasi, la malattia del sonno tipica degli spazi tropicali umidi: questa è una forma atipica, perché agisce in uno spazio (divenuto) tropicale asciutto.
Ho “paura delle modificazioni, non del cambiamento”, dice il professore di Padova, Del Vecchio,chiamato nella capitale come esperto e presto intrappolato nella rete seduttiva della politica, della notorietà televisiva, delle fascinose attrici di cinema. E parliamo di icone come Monica Bellucci, preoccupata dall’avvenire dell’umanità in una Jacuzzi e mentre sorseggia un aperitivo ghiacciato: chi può resistere?
In questa Roma alterata dalla polvere e dal fumo dei fuochi sparsi, tormentata dalla sete e dalla incomunicabilità, si consuma una quotidianità disagiata, fuori norma, spinta dalla crisi verso esiti scomposti. E’ bastato probabilmente solo un po’ del loro grande mestiere a Silvio Orlando, a Valerio Mastandrea, a Max Tortora, per disegnare i loro personaggi alla deriva.Più impegnative, le figure di Mila e di Sara, madri inadeguate e mogli in cerca d’amore, affidate a Claudia Pandolfi ed Elena Lietti: di una bravura smisurata.
Quanto ai giovani che rappresentano le autentiche vite sospese di questa transizione ecologica, cercano di dare un futuro al tempo in cui vivono, da una parte la sedicenne Martina (Emma Fasano), con la sua “musica barocca” e, dall’altra parte, il ventiduenne Sambène (Malich Cissé), l’immigrato Peul, che porta i tesori della sua cultura nomadica per aiutarci a vivere la penuria d’acqua senza l’angoscia di una catastrofe imminente.
Sull’onda delle splendide ed evocative musiche di Franco Piersanti, meritatamente premiate a Venezia, si dipana la narrazione immersiva di P. Virzì. Nessuno di fronte ad un evento pur cataclismatico, è disposto a credere veramente alla fine del mondo: esattamente come nel “Giudizio universale” della Napoli di V. De Sica, un’altra preziosa citazione di Virzì. Dal loro canto, le lotte civili contro il capitalismo predatore, restano blande. Sempre accogliente, invece, il rifugio nella fede. Il ricorso alla misericordia divina è la scorciatoia che ieri cancellava i nostri peccati – a Venezia, a Milano e nelle mille città delle pestilenze- mentre oggi cancella le nostre sconsiderate responsabilità tecnologiche e consumistiche. Ed è affidato ritualmente, questo recupero della fede, alla pubblica intercessione del Papa, più che alla preghiera intima e personale. Chi può essere detto, infatti, singolarmente colpevole dello stravolgimento della natura? Chi può fare qualcosa, individualmente, per restaurarne gli equilibri?
E sarà questo appello estremo a generare il segno che l’incubo (forse) è terminato: ancora una volta. Con un finale di pioggia manzoniana, che lava tutto e fa nuovamente scorrere il Tevere. Lasciando gli umani alle loro arroganze, travestite furbescamente, a volte, da precarie condiscendenze.
La buona notizia è che Io capitano di Matteo Garrone, premiato due volte a Venezia (e ieri al festival di San Sebastian come miglior film europeo per il pubblico), secondo l’autorevole sito di Variety è rientrato, in una delle prime previsioni tra i candidati favoriti alle nomination per l’Oscar al miglior film internazionale, al quinto posto e ora staziona saldamente al settimo. La cattiva notizia invece, ma non è certo una novità, è la grande qualità degli altri aspiranti che sono in ordine di classifica: The Zone of Interest (Gran Bretagna) di Jonathan Glazer, Perfect Days (Giappone) di Wim Wenders; The Teachers’ Lounge (Germania) di İlker Çatak e The Taste of Things (Francia) di Trần Anh Hùng.
Tutti pezzi da novanta e molti di loro già premiati all’ultimo Festival di Cannes. Comunque in questo poker di opere in corsa per gli Oscar e che si scontrerà con Io capitano firmato da Garrone, il più temibile è sicuramente il primo, ovvero The Zone of interest del regista inglese Jonathan Glazer, a cui è andato a Cannes il Grand Prix Speciale della Giuria, secondo premio per importanza. Si tratta di un film spiazzante che mette in scena un ossimoro: una famiglia come tante, felice nella sua villetta con piccola piscina e giardino pieno di fiori, ma con un problema non da poco: la casa confina con un muro, quello di Auschwitz, e siamo negli anni Quaranta, c’è tanto fumo e un rumore di fondo che non promette bene.
Idea geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Martin Amis recentemente scomparso, che potrebbe piacere ad una Hollywood da sempre sensibile alle tematiche della Shoah. Anche per Perfect Days di Wim Wenders che batte bandiera giapponese, un film bellissimo di pura poesia, un premio a Cannes andato all’attore protagonista (Koji Yakusho) che lavora come addetto alle pulizie dei bagni a Tokyo, ma non è affatto triste. Un uomo metodico, con una vita quotidiana identica a sé stessa, divisa tra fotografie digitali di alberi, musica (usa ancora le musicassette d’epoca) e libri. E ancora premiato sulla Croisette per la miglior regia The Taste of Things (La Passion de Dodin Bouffant) di Trần Anh Hùng, film di cucina godibilissimo ambientato nella seconda metà dell’Ottocento tra pentole, esclusivamente di rame dove vediamo consumarsi l’amore tra Dodin Bouffant (Benoit Magimel) e la sua collega dal cuore femminista (Juliette Binoche).
Infine, The Teachers’ Lounge (Germania) di İlker Çatak, passato alla Berlinale, ma per ora privo di palmares, racconta un dramma scolastico, ovvero di uno studente, sospettato di furto, e di un’insegnante che ostinatamente decide di andare a fondo della questione fino alle estreme conseguenze. In fondo alla classifica dei possibili candidati agli Academy Awards anche la poesia di Aki Kaurismäki raccontata in Fallen Leaves che a Cannes ha ottenuto il premio della giuria. Dal regista una storia semplice semplice che ha conquistato tutti. Protagonisti un allampanato metalmeccanico, dal volto triste e sempre con il bicchiere in mano, e una commessa di supermercato a contratto, altrettanto depressa, i due si innamorano ma va tutto storto. Tra le new entry nelle previsioni di Variety La sociedad de la nieve film di chiusura quest’anno a Venezia, appena premiato anche a San Sebastian. Si tratta di un’opera ispirata alla tragedia aerea sulle Ande nel 1972.
Un fatto di cronaca che sconvolse negli anni Settanta l’opinione pubblica perché ruppe un terribile tabù, quello del cannibalismo. La domanda era: è giusto nutrirsi di un essere umano per sopravvivere? Allo schianto sopravvissero solo ventinove dei quarantacinque passeggeri, che si ritrovarono in uno degli ambienti più ostili al mondo e obbligati a ricorrere a misure estreme per poter restare in vita. Grande assente, ma giustificato, alla corsa agli Oscar, Green Border della regista polacca Agnieszka Holland, nonostante il premio speciale della giuria ricevuto a Venezia. Il film racconta, come quello di Garrone, storie di migrazione. Ed esattamente la sporca frontiera tra Polonia e Bielorussia mettendo l’accento sulla violenza sui migranti da parte delle guardie di confine polacche. Una cosa, quest’ultima, che ha fatto irritare ben due ministri di Varsavia: quello dell’Interno, Mariusz Kaminski e quello della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Inevitabile così la sua esclusione: la Polonia gli ha preferito il più politicamente corretto The Peasants film d’animazione diretto da DK Welchman e Hugh Welchman, e ambientato nel mondo rurale di fine dell’Ottocento.
Alla fine era un po’ quello che ci si aspettava, a Poor Things di Yorgos Lanthimos va un Leone d’oro su cui tutti, già alla vigilia, erano d’accordo per un film originale e visionario che unisce estrema innocenza e grande sessualità (e questo anche grazie ad un Emma Stone straordinaria). Vince poi anche la migrazione e sbanca al Lido con ben tre premi: due vanno al nostro Matteo Garrone per Io capitano che si porta a casa il Leone D’Argento per la migliore regia (il terzo premio per importanza) e il Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente che va all’esordiente senegalese di 21 anni Seydou Sarr del film di Garrone.
E non finisce qui sul tema migranti, il premio speciale della giuria va infatti a The Green Border di Agnieszka Holland che racconta, a tinte forti, la sporca frontiera tra Polonia e Bielorussia mettendo l’accento sulla violenza sui migranti da parte delle guardie di frontiera polacche. Una cosa, quest’ultima, che ha fatto irritare ben due ministri di Varsavia: quello dell’Interno, Mariusz Kaminski e quello della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Scelta poi del tutto cinefila quella di dare il secondo premio, il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria, a un film poetico e anti glamour come Evil Does Not Exist a firma del premio Oscar per Drive my car, il giapponese Ryusuke Hamaguchi. Ci sta anche tutto il premio per la miglior sceneggiatura a Guillermo Calderòn e Pablo Larraín per El Conde dello stesso Larraín, un premio su cui deve aver lavorato molto il giurato argentino Santiago Mitre, mentre i problemi nascono con le Coppe Volpi.
Quella femminile andata a Cailee Spaney ovvero la Priscilla di Sofia Coppola, moglie bambina di Elvis Presley, preferita incredibilmente a Emma Stone di Poor Things e anche a una Carey Mulligan da brividi nei panni della moglie di Berstein in Maestro di Bradley Cooper. Altrettanto incomprensibile poi dare la Coppa Volpi maschile a Peter Sarsgaard per il film Memory di Michel Franco in cui, tra l’altro, la vera protagonista è Jessica Chastain. Una coppa Volpi sicuramente più meritata dallo stesso Bradley Cooper e ancor di più dal luciferino Caleb Landry Jones protagonista di Dogman di Luc Besson. E va detto che sia Maestro, Dogman e Ferrari sono tra i grandi sconfitti di questa edizione che aveva una giuria presieduta da Damien Chazelle e composta da Saleh Bakri, Jane Campion, Mia Hansen-L›ve, Gabriele Mainetti, Martin McDonagh, Santiago Mitre, Laura Poitras e Shu Qi.
Comunque Matteo Garrone con Io capitano meritatamente si porta a casa un Leone d’argento, il primo riconoscimento da Venezia dopo che con Gomorra aveva vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, cinque European Film Awards e sette David di Donatello. Una considerazione finale: peccato per Enea di Pietro Castellitto, trentenne di talento che racconta la sua generazione, cosa rara, e forse anche un po’ peccato per il cinema italiano che con ben sei film in corsa forse meritava qualcosa di piu.
Con Giuliano Montaldo scompare uno degli ultimi di quella grande generazione di registi che ha fatto grande il cinema italiano a partire dagli anni Sessanta. Si è spento con a fianco l’amatissima moglie, Vera Pescarolo, la figlia Elisabetta e i suoi due nipoti Inti e Jana Carboni nella sua casa a Roma che nel tempo era diventata casa per questo genovese navigatore e spericolato, che ha sempre schivato ritualità troppo solenni perché tra le sue moltissime doti c’era l’arte dell’autoironia dispiegata da sempre a piene mani. L’eterno ragazzo di Cinecittà nasce a Genova il 22 febbraio del 1930; fin da ragazzo ha l’occhio del navigatore come Colombo, la voce di un Gino Paoli dai toni baritonali, la passione militante del giovane Calvino partigiano, il piacere dello scherzo di Paolo Villaggio e la leggerezza poetica di Lele Luzzati, tutti liguri come lui, tutti un po’ saggi e un po’ matti come lui.
A guerra finita da un po’, come tanti provinciali col sogno del cinema, il ventenne Giuliano scende alla scoperta di Roma. È alto, bello, dotato di magnetici occhi azzurri e modi eleganti da conquistatore. Ma non è per questo che l’esordiente regista Carlo Lizzani lo chiama al suo fianco nel 1951 per Achtung, Banditi!. Il film sarà girato in Liguria, i soldi scarseggiano (sarà prodotto in cooperativa col sostegno dei partigiani) e serve un aiuto-regista pratico dei luoghi. Sul set sono praticamente tutti alle prime armi e Montaldo si fa notare anche come attore. Con Lizzani è amicizia vera e durerà tutta la vita: nel film successivo Cronache di poveri amanti del ’54 c’è ancora una particina per lui ma intanto il ragazzo genovese si impratichisce da regista rubando a tutti i segreti del mestiere: per Gillo Pontecorvo (con cui divide la casa a Roma insieme a Franco Giraldi e Callisto Cosulich) doppia perfino un cane nel documentario Cani dietro le sbarre e poi canterà in russo per doppiare un prigioniero nel lager di Kapo; Citto Maselli e Luciano Emmer gli insegnano la tecnica, Elio Petri per cui recita ne L’assassino del 1961 lo spinge a debuttare a sua volta dietro la macchina da presa.
Con Tiro al piccione dello stesso anno, il cinema italiano scopre un nuovo talento ma basta il soggetto scelto (l’amaro destino di un soldatino della Repubblica Sociale negli ultimi giorni del fascismo) per capire che Montaldo non ama le scelte facili. Infatti il film (come il successivo Una bella grinta del ’65) non gode dei favori della critica di sinistra e anche all’interno del Pci Giuliano dovrà difendersi da qualche processo sommario di troppo. Come del resto dalle accuse di oltraggio al pudore che piovono sul documentario Nudi per vivere sulla Parigi del sesso che firma nel ’63 insieme a Petri e Giulio Questi col bizzarro acronimo Elio Montesti che i tre non sveleranno per molti anni. Testardo, metodico, incoraggiato da colleghi che resteranno amici veri tutta la vita (Lizzani e Pontecorvo sopra tutti) Montaldo capisce che è attraverso un uso intelligente dei generi popolari che può fare il “suo” cinema e che il vento internazionalista degli anni ’60 può assecondare il suo gusto dell’avventura e del viaggio. Ecco allora thriller di buona fattura come Ad ogni costo con Edward G.Robinson e Gli intoccabili con John Cassavetes che gli conquistano la fiducia dei produttori.
Infatti il successivo Gott mit uns del 1970 ha ben altra ambizione: ambientato al crepuscolo della Germania nazista, il film dà l’avvio a una trilogia sulle aberrazioni del potere che dopo l’esercito prenderà di mira la giustizia (Sacco e Vanzetti, 1971) e la chiesa (Giordano Bruno, 1973). Anche grazie alla perfetta sintonia con Gian Maria Volontè che ne è memorabile eroe, i due film sono grandi successi popolari, ma non distolgono il regista dalla sua vocazione militante. Adesso vuole recuperare la storia partigiana e il copione di Franco Solinas per L’Agnese va a morire sembra perfetto per emozionare il pubblico. Invece una serie di difficoltà produttive costringono Montaldo a lavorare in economia, proprio come ai tempi di Achtung, Banditi!. E come allora è la gente comune, ieri i liguri adesso gli emiliani, a salvare le sorti del film che grazie a una intensa e inattesa Ingrid Thulin non deluderà le attese. Siamo alla fine degli anni ’70 e anche per Montaldo si aprono le porte della Rai e del cinema per la tv.
Ma dopo la bella sperimentazione di Circuito chiuso (1978) la nuova sfida è il kolossal, la biografia di un viaggiatore che molto gli assomiglia. Con sua moglie Vera, Giuliano fa le valigie e parte per la Cina con Il Milione sottobraccio. Gli otto episodi del suo Marco Polo (1982-1983) sono un fiore all’occhiello per la tv e segnano la prima vera apertura della Cina comunista alle troupes occidentali dopo i viaggi pionieristici di Carlo Lizzani (1958) e Michelangelo Antonioni (1973). Negli anni successivi sono ancora tante le avventure dell’eterno ragazzo del nostro cinema: le battaglie politiche all’interno dell’Anac (l’associazione degli autori), il cinema letterario (“Gli occhiali d’oro”, 1987 e “Tempo di uccidere”, 1989), Il documentario militante (fin da “L’addio a Berlinguer” del 1984), le incursioni da attore (memorabile l’incontro con Nanni Moretti ne “Il caimano”, 2006), perfino la presidenza del David di Donatello nel 2017. Ma per gli spettatori di oggi il volto e la voce di Giuliano sono familiari come se si trattasse di uno zio bonario. Merito di Francesco Bruni che lo ha voluto protagonista di “Tutto quello che vuoi” del 2017 con si è conquistato un David di Donatello. Con il ruolo del poeta Giorgio Gherarducci, ha svelato la calda umanità che conoscono tutti quelli che lo hanno incontrato negli anni, la passione per l’aneddoto cui personaggio e interprete attingono a piene mani, lo sguardo lontano e subito dopo lucido e ironico.