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Cronache

Ruotolo corre seri, concreti e attuali pericoli, la revoca della scorta mette a rischio la sua vita. Il video delle minacce del boss Zagaria al giornalista che racconta la mafia e che dice “vorrei poter continuare a farlo”

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Dice: delle scorte non se ne occupa il ministro Matteo Salvini e dunque non gli si può addossare la responsabilità di aver fatto revocare  la scorta a Sandro Ruotolo. È vero. Chi dice il contrario esprime un concetto falso. Spetta all’Ufficio centrale interforze per la sicurezza (Ucis è l’acronimo), istituito nel 2002 presso il Viminale e guidato da un prefetto o da un dirigente generale della Polizia, gestire il servizio di tutela per i soggetti minacciati da terrorismo e criminalità organizzata. Questo ufficio gestisce, attraverso la raccolta e l’analisi coordinata delle informazioni relative alle situazioni personali di rischio, “l’assegnazione delle scorte per la tutela di soggetti istituzionali oppure minacciati dal terrorismo e/o dalla criminalità organizzata”. Stiamo parlando dunque di un organismo tecnico che non fa alcuna valutazione politica in senso lato, che assegna, revoca, sospende, concede, alza o abbassa il livello di protezione in base alla esistenza e alla intensità del rischio e delle minacce.

La prima domanda che una persona normale non avvezza a regole, codicilli, norme ed altre astruserie viminalizie si pone è  questa: perchè questi signori dell’Ucis hanno revocato la scorta a Sandro Ruotolo? E perchè l’avevano revocata (per ora gliel’ha riassegnata il Tar del Lazio) al colonnello Sergio De Caprio alias Capitano Ultimo ovvero quello che mise le manette a Totò Riina e lo trascinò in carcere dove è morto sepolto da venti ergastoli? La risposta tecnica normale è che all’Ucis, l’Ufficio Analisi (uno dei quattro uffici che compongono l’Ucis) hanno raccolto informazioni, le hanno valutate, analizzate e su segnalazione di questure e prefetture hanno deciso che la minaccia grave che prima Sandro Ruotolo correva ora è cessata. In pratica l’Ucis ti dà la scorta e l’Ucis te la revoca. Tutto chiaro? Bene, andiamo avanti. La scorta viene assegnata solo quando esiste un rischio concreto. Nel caso di Sandro Ruotolo di minacce pubbliche e private da parte di mafiosi che vorrebbero squartarlo, farlo tacere o tagliargli la testa c’è da scegliere. Per comodità vi faccio ascoltare il signor Michele Zagaria, il capo dei capi del clan dei Casalesi, oggi al 41 bis, in una intercettazioni ambientale fatta dalla polizia penitenziaria.

Per la revoca del servizio di scorta bisogna invece stabilire che questo pericolo sia cessato. Ciò qualcuno all’Ucis, lette relazioni e  documentazioni, ascoltati i magistrati della procura distrettuale antimafia di Napoli, i prefetti di Roma e Napoli, i questori sempre di Roma e Napoli, avrà avuto delle eccellenti rassicurazioni sul cessato pericolo per Ruotolo.

Provo a essere quanto più diretto possibile, a costo di sembrare anche un maleducato con chi rappresenta le istituzioni. Ed io ho sacro rispetto per le istituzioni. Dunque mi si perdonino certi toni se inidonei o ironie. Lo Stato italiano assegna una scorta a Sandro Ruotolo in ragione di un pericolo serio e costante derivato da minacce serie e concrete arrivategli da esponenti mafiosi. Poi la revoca perchè, pare, una delle ultime minacce dirette conosciute, a Ruotolo risale a due o tre anni fa. E quindi siccome da due o tre anni nessuno minaccia, per una strano automatismo, pensiamo che Ruotolo sia al sicuro.  Domanda: forse qualcuno ha saputo o è certo che Michele Zagaria non ha alcuna intenzione di fare del male a Ruotolo? O forse Zagaria si è pentito e non lo sappiamo ancora? Siamo certi che Francesco Schiavone si sia redento e sulla strada per la prossima migliore vita che pure a lui toccherà ha deciso di fottersene di Ruotolo? Abbiamo mica notizie certe che Matteo Messina Denaro, un signore che è latitante da 25 anni e considerato il capo della mafia, non abbia nulla contro questo Ruotolo che  più volte è andato a Castelvetrano a raccontarlo, ricostruendo l’albero genealogico dei Messina Denaro, i rapporti con l’imprenditoria, la politica,  l’impero messo in piedi nella Sicilia Occidentale?

Scorta a Sandro Ruotolo, il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho: soggetti a rischio vanno protetti

Ruotolo è diventato, credo anche suo malgrado, un simbolo dell’Antimafia. Da anni spende la sua vita nel racconto del Paese e nel ricordo di valori come la legalità e l’antimafiosità, andando nelle scuole, nelle fabbriche, nei teatri a riempire di significati e valori parole che spesso, in bocca a molti di noi, suonano come vuote. Ma comunque, tornando al dato tecnico, mettendo da parte passioni e sentimenti, sia che si assegni o che si revochi una scorta, in entrambi i casi la decisione finale spetta alla Commissione centrale consultiva che è composta dal direttore dell’Ucis e dai rappresentanti delle forze di polizia, di Aise e Asi. In questi organismi ci sono persone perbene capaci di valutare e rivalutare decisioni che sono sempre difficili. Persone che hanno il coraggio anche di rivedere decisioni già prese rivalutando ogni informazione in loro possesso, ascoltando anche un consiglio, quello che arriva ad esempio proprio oggi da Federico Cafiero de Raho. Il procuratore nazionale antimafia dice che, ferma restando il rispetto per chi decide le scorte, e lo fa con equilibrio e intelligenza,”i soggetti a rischio vanno sempre protetti. Di volta in volta i parametri sono quelli anche della maggiore visibilità, del tipo di inchieste, di tutto ciò che si esprime nell’ambito di un’attività lavorativa giornalistica”. Siamo certi che all’Ucis queste valutazioni le stanno facendo già. Nel frattempo a Ruotolo scaldano il cuore le migliaia di messaggi di solidarietà che arrivano da ogni parte d’Italia.

Lui non ha, com’è giusto che sia, alcuna intenzione di commentare la decisione di levargli la scorta. Chi lo conosce sa quanto rispetto Ruotolo ha per le istituzioni. E così in attesa di capire che cosa ne uscirà fuori da questa ondata di affetto, stima, incitamenti a non mollare contro la mafia,  ha scritto quattro righe sul suo profilo Fb per ringraziare tutti e dire che  “vuole stare sui territori, raccontare, intervistare, cercare la verità. Vorrei continuare a poterlo fare, difendendo sempre la mia indipendenza che non vuol dire non aver un punto di vista, la mia autonomia, l’amore per il mio Paese”.

Togliere la scorta a Sandro Ruotolo è un favore alla mafia mercatista che lo vuole ridurre al silenzio

 

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Cronache

Gianni Berengo Gardin: “La vecchiaia fa schifo, ma morirò comunista con la mia Leica”

Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin, 95 anni, racconta la sua vita in una straordinaria intervista al Corriere: Sartre, Oriana Fallaci, le grandi navi a Venezia, la fotografia come racconto.

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A ottobre compirà 95 anni, ma Gianni Berengo Gardin (foto Imagoeconomica) continua a vivere come ha sempre fatto: con l’occhio attento, l’ironia tagliente e lo spirito battagliero. In una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, il maestro della fotografia italiana racconta una vita densa di storie, incontri memorabili e scatti diventati parte della nostra memoria collettiva.

Una vita tra Roma, Venezia, Parigi e due milioni di negativi

Nato per caso a Santa Margherita Ligure nel 1930, cresciuto tra Roma e Venezia, Berengo Gardin si è poi innamorato di Parigi, dove conobbe Jean-Paul Sartre, che lo portava al cinema a vedere western. Proprio nella capitale francese nasce la sua vocazione: «Lavoravo in un hotel la mattina, il resto della giornata lo passavo per strada con la macchina fotografica».

Oggi custodisce oltre due milioni di negativi, ma confessa: «Non so fare una foto col telefonino. Fotografare è raccontare, non scattare a caso milioni di immagini digitali».

Dai manicomi all’impegno civile

Il fotografo che ha documentato i manicomi prima della riforma Basaglia, con il celebre lavoro “Morire di classe”, confessa lo shock provato di fronte all’abbandono e al degrado delle strutture. «Non volevamo ferire, ma testimoniare. Uscimmo così sconvolti da prendere il treno sbagliato».

È stato lui a far conoscere al mondo lo scandalo delle grandi navi a Venezia, con immagini potenti bloccate da un sindaco che lo definì “nobile socialista”. Replica secca: «Sono comunista da una vita».

Sartre, Fellini e Oriana Fallaci: incontri e delusioni

Di Sartre conserva il ricordo di un uomo semplice e fissato con i western. Di Federico Fellini, invece, una profonda delusione: «Mi ricevette freddamente, volle scegliere l’inquadratura e fece telefonate mentre lo fotografavo». Ancora più faticoso il ritratto di Oriana Fallaci: «Tre rifiuti, poi finalmente accettò. Che fatica».

Sulla fotografia, non ha dubbi: «Deve essere buona, non bella. Deve raccontare. Per questo ho orinato su un teleobiettivo costoso: volevo liberarmi del feticismo degli strumenti».

Toscani, Dondero e Cartier-Bresson

Ironico anche su Oliviero Toscani: «Mi chiamò “fotografo di piccioni”, ma mi alzai e dissi: “Signori, sono io”». E con affetto ricorda Dondero, Scianna, e il suo mito Henri Cartier-Bresson, conosciuto grazie a Scianna: «Diceva che tre scatti per soggetto bastavano. Condivido».

“Non voglio funerali. E ogni sera mangio una Coppa del nonno”

Berengo Gardin non ha mai smesso di lavorare su se stesso. La sua giornata è scandita da piccoli riti: «Mi svegliano alle 8, leggo i giornali, pranzo leggero e la sera, immancabile, una Coppa del nonno. Prima era peggio: mangiavo chili di cioccolato».

E quando gli chiedono se gli farebbe una foto con lo smartphone, risponde sornione:

«E come diamine si fa?».

Un uomo antico, moderno nel pensiero e fedele al suo sguardo: quello di chi ha sempre saputo che la fotografia è un atto politico e poetico insieme.

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Cronache

Egitto, arrestata la ballerina Linda Martino: “La danza non è un reato, sono italiana. Chiedo aiuto al Consolato”

Linda Martino, star dei social e danzatrice del ventre con doppia cittadinanza, è stata arrestata al Cairo per “offesa alla morale”. Rischia un anno di lavori forzati. L’Italia segue il caso.

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«La danza del ventre è un’arte, non un reato». Così si è difesa davanti al tribunale del Cairo la ballerina Sohila Tarek Hassan Haggag, in arte Linda Martino, arrestata il 22 giugno scorso mentre era in partenza dall’aeroporto egiziano per una tournée a Dubai e negli Emirati. La performer, seguita da oltre due milioni di follower su Instagram, ora rischia fino a un anno di lavori forzati per l’accusa di offesa alla morale pubblica.

“Mi sento italiana. Chiedo aiuto al mio consolato”

Linda Martino, che possiede doppia cittadinanza ma si dichiara “più italiana che egiziana”, ha chiesto al giudice l’intervento dell’ambasciata italiana:

«Sono una cittadina italiana e chiedo aiuto al mio consolato», ha detto in aula.

L’ambasciata italiana al Cairo, sotto il coordinamento della Farnesina, ha già attivato una richiesta di visita consolaree fornito assistenza, ricevendo anche la madre dell’artista. Ma la legge egiziana non riconosce la doppia cittadinanza, e dunque per le autorità locali Linda è solo egiziana, senza alcun canale protetto internazionale.

L’accusa: “Ha usato tecniche di seduzione”

Le autorità egiziane contestano alla danzatrice un videoclip realizzato nel 2024 insieme a un noto cantante locale, in cui sarebbe apparsa «con abiti indecenti, esponendo deliberatamente zone sensibili del corpo». Secondo l’accusa, Linda avrebbe «incitato al vizio» usando «danze provocanti e tecniche di seduzione».

Ma l’artista si è difesa respingendo ogni addebito:

«Quello che si vede sui social fa parte di un’attività artistica. Alcuni video sono stati manipolati. I miei spettacoli sono autorizzati e rispettano i limiti della legge».

La parabola di una star caduta in disgrazia

Linda Martino, dopo aver sposato nel 2011 l’italiano Domenico Martino, ne ha preso il cognome e ha vissuto a lungo in Italia, tra Cremona e Pistoia. Dopo il trasferimento in Egitto, la separazione e il successivo divorzio (trascritto nel 2024), la ballerina aveva continuato a esibirsi all’estero, abbandonando il palcoscenico egiziano per via delle polemiche e pressioni morali.

«È da un anno che vivo sotto attacco. Avevo anche annunciato il mio ritiro dalle scene», ha raccontato Linda in aula.

Un caso politico e culturale

Il caso Martino è solo l’ultimo di una serie di arresti di danzatrici orientali in Egitto. In due anni il governo di al Sisi ha già fermato almeno quattro ballerine con accuse simili. Il clima resta teso e l’opinione pubblica spaccata tra chi difende la tradizione e chi chiede maggiore libertà artistica e rispetto per le donne.

Intanto, l’ambasciatore italiano Michele Quaroni attende l’autorizzazione per incontrare la connazionale detenuta. E la vicenda continua ad alimentare un dibattito più ampio, che travalica la giustizia ordinaria: quello sull’identità, i diritti culturali e il confine – ancora troppo sottile – tra espressione artistica e censura morale.

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Cronache

Addio a Elio Palombi, avvocato, magistrato e professore: una vita dedicata al diritto e ai suoi studenti

È morto Elio Palombi, figura simbolo della giustizia napoletana. Magistrato, avvocato, docente universitario, autore e maestro di generazioni di studenti. “Avvocato fino all’ultimo”, scrive la figlia Manuela.

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Magistrato, pretore, penalista, docente, scrittore. Ma soprattutto avvocato, fino all’ultimo respiro. È scomparso a 89 anni Elio Palombi, figura simbolo della cultura giuridica napoletana. A darne notizia la figlia Manuela, anch’essa avvocata, che ha raccolto l’eredità professionale e morale del padre:

“Ci ha lasciato facendo l’avvocato. Un mestiere che amava profondamente e al quale non avrebbe mai rinunciato”.

Palombi si è spento nel suo studio di piazza Municipio, tra codici e appunti, immerso nella professione che aveva scelto fin da giovanissimo contro il volere del padre, Arturo Palombi, noto zoologo.

Dalla toga alla cattedra, tra rigore e passione

Entrato in magistratura a soli 25 anni, fu sostituto procuratore a Novara, poi Pretore a Castel Baronia e a Capri, quindi giudice aggregato alla Corte Costituzionale. Ma fu l’insegnamento universitario a consegnarlo alla memoria di intere generazioni: docente di Istituzioni di diritto e procedura penale alla Federico II, Palombi viveva la cattedra come una missione.

“Meno lo interroghi, un ragazzo, e meno capisci se è davvero preparato”, ripeteva ai suoi studenti, con cui instaurava un rapporto serio ma umano. Le sue lezioni erano tra le più affollate di via Mezzocannone.

Per lui Scienze Politiche era una palestra per la vita pubblica, e riteneva suo dovere formare cittadini consapevoli e giuristi preparati. Il suo approccio era pratico, calato nella realtà: il diritto penale doveva essere uno strumento di giustizia, non solo teoria astratta.

Gli anni di Tangentopoli e l’etica professionale

Negli anni ’90 fu anche difensore di politici e imprenditori coinvolti in Tangentopoli, in un’epoca di grandi tensioni sociali e mediatiche. Difese sempre nel rispetto della dignità delle persone, senza mai cedere alla logica del processo spettacolo. Per lui la giustizia era una cosa seria, mai negoziabile.

Le passioni, Capri e la scrittura

Amava la gastronomia – fu delegato dell’Accademia Italiana della Cucina – e la scrittura, che definiva “la sua forma di relax”. I suoi libri, giuridici e non, erano spesso concepiti nel suo buen retiro caprese, davanti ai Faraglioni, quasi sempre pubblicati con l’amico editore Marzio Grimaldi.

Tra i suoi titoli più noti: “Magistratura e Giustizia in Italia”, “Pinocchio e la inGiustizia”, “Eduardo e l’impegno nella ricostruzione del Teatro San Ferdinando”.

Un’eredità morale che resta

“Muore un maestro – ha scritto un suo ex allievo – e non solo per l’avvocatura. Ha saputo trasformare in realtà il comandamento più difficile: ‘Come volete che gli uomini facciano a voi, così fate a loro’”.

Elio Palombi lascia la moglie Annamaria, i figli Marco e Manuela, e una Napoli più povera di cultura, di etica e di affetto. Un uomo che ha fatto della giustizia una vocazione e del diritto uno strumento di crescita civile.

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