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Politica

Riforma della giustizia, via al referendum: depositate le firme in Cassazione, urne possibili nel 2026

Depositata in Cassazione la richiesta di referendum sulla riforma della giustizia. Il voto potrebbe tenersi tra marzo e aprile 2026. Restano dubbi sulla formulazione del quesito e sul contenuto in scheda.

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Il conto alla rovescia per il referendum sulla riforma della giustizia è ufficialmente iniziato.
I capigruppo di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati hanno depositato in Cassazione le 85 firme raccolte tra i deputati di maggioranza per avviare l’iter della consultazione popolare.

Nelle prossime ore toccherà anche alle opposizioni, che hanno avviato raccolte analoghe nei due rami del Parlamento.


La procedura e le tempistiche

La Corte di Cassazione avrà un mese di tempo per verificare la legittimità della richiesta. Successivamente, la decisione passerà al Presidente della Repubblica, che su proposta del Consiglio dei ministri stabilirà la data del voto.

Secondo le stime del centrodestra, se la procedura dovesse essere rapida, le urne potrebbero aprirsi già a fine gennaio. Tuttavia, l’obiettivo politico dichiarato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio resta marzo-aprile 2026, quando la consultazione popolare potrebbe assumere il valore simbolico di un test politico nazionale.


Il nodo del quesito referendario

Il punto più controverso è la formulazione del quesito.
Il testo previsto dalla legge 352 del 1970 è ritenuto da molti “poco chiaro”, poiché si limita a indicare il titolo della legge: “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.

Il centrodestra vorrebbe invece un testo più esplicito, che richiami direttamente i contenuti della riforma Nordio — in particolare la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, la creazione della Corte disciplinare per i magistrati e il sorteggio dei membri dei Consigli superiori della magistratura.

Nella raccolta firme dei senatori di maggioranza compare infatti anche questa specificazione, interpretata come un suggerimento alla Corte di Cassazione per una formulazione più chiara e comprensibile agli elettori.


Le posizioni del governo e delle opposizioni

Il referendum sarà un banco di prova politico cruciale per il governo.
Il centrodestra punta a trasformarlo in una “investitura popolare” della riforma simbolo del ministro Nordio, mentre le opposizioni confidano in un eventuale no alle urne per indebolire l’esecutivo.

“Se il referendum dovesse bocciare la riforma, continueremo il nostro lavoro tranquillamente”, ha commentato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, ribadendo che il provvedimento è necessario per “limitare le invasioni di campo della magistratura”.

Il centrosinistra, dal canto suo, ha quasi completato la raccolta firme per proporre una consultazione parallela, confermando che anche l’opposizione intende portare la questione davanti agli elettori.


I pareri dei costituzionalisti

Secondo il giurista Stefano Ceccanti, non c’è margine per modificare la formulazione del quesito: “È l’articolo 16 della legge 352 del 1970 a stabilire il testo, che deve contenere solo il titolo della legge di revisione”.

Dello stesso avviso il costituzionalista Michele Ainis, che ha ricordato come, diversamente dal referendum abrogativo, quello confermativo “non consenta di proporre quesiti accattivanti o orientati”, ma solo di chiedere agli italiani se approvare o respingere la legge costituzionale.

Un precedente noto resta quello del referendum del 2016, promosso dall’allora premier Matteo Renzi, il cui esito negativo provocò la caduta del governo. Anche in quel caso, il quesito era chiaramente collegato al contenuto della riforma, ma con un titolo molto più esplicativo.


Un test politico decisivo

Se confermato per il 2026, il referendum sulla giustizia rappresenterà uno snodo politico e istituzionale di primaria importanza: da un lato la sfida del governo Meloni per legittimare una delle sue riforme più ambiziose, dall’altro la possibilità per le opposizioni di trasformare il voto in un giudizio sull’intera legislatura.

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Politica

Antimafia, otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia: un elenco che solleva dubbi sui diritti politici

La Commissione Antimafia indica otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia. Ma la definizione solleva perplessità: o si ha diritto a candidarsi o no, senza ambiguità sulle garanzie dei diritti.

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Sono otto i candidati definiti “impresentabili” dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo (foto Imagoeconimica) in vista delle prossime elezioni regionali in Campania e Puglia. Nessun nome, invece, risulta per le consultazioni in Veneto. Le verifiche dell’Antimafia riguardano le violazioni del codice di autoregolamentazione, documento interno che la Commissione utilizza per valutare la compatibilità morale e giudiziaria dei candidati.

Le liste coinvolte in Campania e Puglia

In Campania, tre candidati provengono da liste che sostengono la corsa del centrodestra con Edmondo Cirielli candidato governatore, mentre un altro figura tra i sostenitori di Roberto Fico, candidato del campo largo.
In Puglia, invece, tre candidati si trovano nelle liste di Forza Italia, a sostegno di Luigi Lobuono, e uno nella lista “Alleanza Civica per la Puglia”.
La Commissione ha inoltre segnalato altri candidati “impresentabili” nelle amministrative dei Comuni sciolti per mafia, tra cui Caivano, Monteforte Irpino, Acquaro e Capistrano.

Una definizione che apre un problema di principio

Il termine “impresentabile”, usato dall’Antimafia, pone una questione delicata sotto il profilo delle garanzie dei diritti politici.
O un cittadino ha diritto a candidarsi — secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto della presunzione di innocenza — oppure non lo ha.
In un ordinamento democratico fondato sul diritto, non dovrebbe esistere una zona grigia in cui un candidato, pur avendo pieno diritto legale a partecipare alle elezioni, venga pubblicamente indicato come “impresentabile” da un’istituzione parlamentare.
Per questo, in questa sede, il termine viene utilizzato esclusivamente per richiamare la definizione ufficiale adottata dalla Commissione Antimafia, senza condividerne l’impianto concettuale, che rischia di trasformarsi in un giudizio politico o morale non previsto dalle leggi.

L’altra inchiesta: il clan D’Alessandro e il “business del caffè”

Nel frattempo, un’altra vicenda giudiziaria ha riacceso l’attenzione sulla criminalità organizzata in Campania. Le indagini dei carabinieri di Torre Annunziata e della Direzione distrettuale antimafia di Napoli hanno documentato due episodi di estorsione legati al clan D’Alessandro, che avrebbe imposto la vendita di un determinato tipo di caffè ai bar di Castellammare di Stabia.
Secondo le intercettazioni, la gestione del “business del caffè” avrebbe persino causato una frattura interna al clan, con una fazione che imponeva il prodotto a bar, uffici e negozi, e un’altra che si limitava a venderlo.
Nell’agosto del 2021 l’attività estorsiva di questa fazione cessò quando il responsabile fu trasferito nel Lazio per ordine dei vertici, al fine di salvaguardare gli equilibri interni.

Un contesto complesso, quello descritto dalle indagini e dalle segnalazioni parlamentari, che impone una riflessione non solo sul contrasto alla criminalità, ma anche sulla tutela piena e imparziale dei diritti civili e politici di ogni cittadino.

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Politica

Santanchè, gli affitti brevi e la difesa della lobby degli albergatori a danno delle famiglie

La ministra Santanchè difende gli interessi degli albergatori e colpisce chi affitta la propria casa per campare, mentre il governo Meloni aumenta tasse e burocrazia sui piccoli proprietari.

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Le parole di Daniela Santanchè sugli affitti brevi pronunciate a Napoli sono l’ennesimo esempio di una politica schierata con le lobby degli albergatori, pronte a difendere i propri privilegi anche a costo di penalizzare migliaia di famiglie italiane che affittano una stanza o un appartamento per sopravvivere.

La ministra, invischiata in processi giudiziari ancora fermi al palo e con un nutrito carnet di amicizie nel settore, parla di “lotta al sommerso” e di “tutela della proprietà privata”. Ma la realtà è che il suo governo, più che tutelare la proprietà, la sta lentamente svuotando di senso per chi vive di piccoli affitti. Il Codice identificativo nazionale (CIN), la trovata burocratica inventata dalla Santanchè, è solo il primo passo per schedare e complicare la vita a chi ospita turisti.

Secondo le nuove regole, un alloggio deve avere almeno 28 metri quadrati per due persone e 20 per una. Negli alberghi, invece, bastano 9 metri quadrati per una persona e 14 per due. In alcune regioni si dorme anche in camere da 7 metri quadrati, e in certi casi in veri e propri loculi da 3 metri, ma solo se l’attività è “autorizzata”.

La Santanchè, che parla di “agevolare le famiglie”, finge di ignorare che chi affitta una casa con Booking o Airbnb è già tartassato. Su 100 euro di incasso lordo, un piccolo proprietario paga:

  • 21 euro di cedolare secca (che saliranno a 26 se l’immobile non è prima casa);

  • 21 euro di commissioni a Booking, tra percentuali, IVA e costi di transazione;

  • Spese per acqua, luce, gas, internet, climatizzazione e tasse di soggiorno;

  • Costi per pulizie, lavanderia, prodotti, manutenzione e comunicazioni obbligatorie a polizia e comune.

Alla fine, restano 15-18 euro di guadagno reale su 100 incassati. Questa è la realtà di chi affitta legalmente, paga tutto, e mantiene viva una microeconomia familiare che il governo invece sta affossando.

Aumentare la tassazione al 26 per cento non farà emergere il sommerso, ma spingerà molti ad affittare in nero o a chiudere del tutto. E allora, prima di dire “scemenze” in pubblico, la ministra Santanchè farebbe bene a ricordare che non tutti possono contare su patrimoni milionari o sulla rete di amicizie che lei vanta nel settore del lusso.

Chi oggi affitta una casa lo fa per campare, non per arricchirsi. E meriterebbe rispetto, non sospetto.

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Bufera sul Garante per la Privacy, Stanzione respinge le accuse: “Non ci dimetteremo, attacco politico”

Il presidente del Garante per la Privacy Pasquale Stanzione respinge le accuse di contiguità politica e nega le dimissioni. Pd e M5S chiedono l’azzeramento dell’Autorità dopo il caso Report.

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Il presidente del Garante per la Privacy, Pasquale Stanzione (foto Imagoeconomica), ha respinto con fermezza le richieste di dimissioni arrivate dalle opposizioni dopo il caso Report, assicurando che il collegio non si dimetterà.

“Le accuse sono totalmente infondate”, ha dichiarato Stanzione, aggiungendo che “quando la politica grida allo scioglimento o alle dimissioni dell’Autorità, non è più credibile”.


La polemica e il caso Report

La bufera è nata dopo un servizio della trasmissione Report, condotta da Sigfrido Ranucci, che ha ipotizzato contiguità politiche e conflitti d’interesse all’interno dell’Autorità. Nel mirino è finito in particolare Agostino Ghiglia, membro del collegio, accusato di vicinanza a Fratelli d’Italia e collegato da Report alla multa inflitta alla stessa trasmissione dopo la messa in onda di un audio privato tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie.

“La narrazione di un Garante subalterno alla maggioranza di governo è una mistificazione che mira a delegittimarne l’azione – ha replicato Stanzione –. Il Garante assume decisioni talvolta contrarie, talvolta favorevoli al governo. Questa è la vera autonomia”.


Le reazioni delle opposizioni

Le opposizioni – Pd, M5S e Avs – hanno chiesto l’azzeramento del collegio e le dimissioni immediate del presidente, definendo “indegna” l’intervista di Stanzione al Tg1.
I parlamentari del Movimento 5 Stelle in Commissione di Vigilanza Rai hanno annunciato un’interrogazione sull’episodio, accusando la testata di essersi “prestata a un comizio difensivo”.

“Non ha più credibilità per andare avanti”, ha detto Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, mentre Giuseppe Conte, a DiMartedì, ha parlato apertamente di “azzeramento necessario”.


Le proposte di riforma

Nel dibattito è intervenuto anche il senatore Dario Parrini (Pd), vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali, proponendo di introdurre un quorum qualificato dei tre quinti del Parlamento per eleggere i membri delle autorità indipendenti, come avviene per la Corte Costituzionale o il Csm.

“Oggi l’attuale Garante è stato eletto nel 2020 con meno del 40% dei voti degli aventi diritto”, ha ricordato Parrini.

Anche l’eurodeputato Sandro Ruotolo ha definito la situazione “paradossale”:

“Abbiamo la possibilità di far dimettere il Capo dello Stato, ma non il collegio del Garante della Privacy. Serve un passo indietro e una riforma per garantire indipendenza e qualità”.


Il limite istituzionale

Come ha ricordato il giurista ed ex presidente Rai Roberto Zaccaria, né il governo né il Parlamento possono imporre lo scioglimento del Garante.

“L’unica ipotesi è che la maggioranza dei componenti, quindi tre su quattro, si dimetta. Altre non ne vedo in questo momento”.

Per ora, Stanzione non arretra: il Garante resta al suo posto, mentre lo scontro politico intorno all’Autorità continua ad alimentarsi.

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