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Economia

Referendum sul lavoro, Cgil deposita 4 milioni di firme

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Tre furgoni, 1.036 scatoloni per quattro milioni di firme: la Cgil ha depositato le firme per i quattro referendum sul lavoro e la sicurezza per i quali si punta a votare nella primavera del 2025. A guidare la delegazione del sindacato in Cassazione é stato il segretario generale, Maurizio Landini, che ha ribadito la necessità di cambiare “leggi sbagliate” che hanno reso “meno liberi i lavoratori”. Ora l’obiettivo sarà il raggiungimento del quorum e la spinta al voto di “25 milioni di cittadini”, risultato complicato da raggiungere soprattutto vista la bassa partecipazione al voto che si è avuta nelle ultime elezioni europee. Nessuno scorda infatti come nel 2003 la Cgil sostenne il referendum per estendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (quello che prevede la reintegra per il lavoratore illegittimamente licenziato) alle imprese fino a 15 dipendenti ma il quorum non fu raggiunto.

Gli attuali referendum riguardano l’abrogazione delle norme che impediscono il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti illegittimi, l’abrogazione delle norme sul tetto massimo di indennizzo in caso di i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese (fino a 15 dipendenti), l’abrogazione delle norme sulla liberalizzazione dei contratti a termine e l’abrogazione delle norme che impediscono negli appalti di estendere la responsabilità all’azienda appaltante.

“Quattro milioni di firme di cittadini – sottolinea Landini – che chiedono di votare per cambiare leggi sbagliate e che vogliono affermare la libertà nel lavoro e nella vita. Per la libertà di non essere precari, di non essere sfruttati, di non morire sul lavoro, di avere una sanità che funziona”. Per Landini si tratta di “una domanda molto forte. In un Paese dove la metà dei cittadini non va a votare, dice, i cittadini firmano perché vogliono che il loro voto conti e il loro giudizio possa cambiare la situazione. La Cgil si è messa a loro disposizione e oggi inizia una fase nuova che è quella di portare a votare 25 milioni di persone per cambiare questo Paese e per rimettere al centro il lavoro, i diritti e la libertà delle persone”.

Ma nel nostro Paese il tema non è solo quello del lavoro, della precarietà e della sicurezza ma anche quello di fare investimenti “andando a prendere i soldi dove sono”, tassando rendite e profitti e facendo una battaglia contro l’evasione fiscale. E mentre si è conclusa la raccolta delle firme per i referendum sul lavoro inizia quella contro la legge sull’autonomia differenziata, battaglia intrapresa con la Uil e diverse altre associazioni, forze sociali, politiche e della società civile. Landini sarà al banchetto allestito all’ospedale romano San Filippo Neri, scelta simbolica “per dire no ad uno dei nodi più critici dell’Autonomia differenziata, l’attacco al Servizio Sanitario Nazionale, con la possibilità delle Regioni di accelerare il processo di privatizzazione in atto, e al diritto alla salute, che sarà riservato a chi potrà permetterselo”.

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Mediaset sale ancora in Prosieben con un’Opa ‘al minimo’

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Mfe-Mediaset in Germania rompe gli indugi: ha lanciato un’Opa al prezzo minimo di legge sulla tedesca Prosieben, per salire oltre la soglia attuale della partecipazione di quasi il 30% e avere quindi le mani libere per crescere ancora. Al momento ha un accordo con altro azionista che aderirà all’Offerta, che difficilmente sarà seguito da altri soci consistenti del gruppo televisivo con sede in Baviera, visto che il prezzo al momento riconosciuto è inferiore all’attuale valore in Borsa del titolo Prosieben. Insomma una prima mossa, anche perché un’Opa ‘vera’, quindi con un prezzo a premio sugli attuali valori di Borsa, comporterebbe per la totalità di Prosieben un esborso superiore al miliardo. Il Biscione dispone ampiamente di queste risorse, soprattutto dopo aver completato in inverno un finanziamento da 3,4 miliardi con capofila Unicredit che fornisce le ‘munizioni’ per le prossime operazioni all’estero. Ma non serve investire così tanto: il gruppo tedesco è una public company con un’azionariato diffuso e si può realisticamente gestirne l’assemblea anche con una quota inferiore al 51% dei diritti di voto.

“Serve un cambio di passo, rafforziamo il nostro ruolo di socio industriale per sostenere e supportare la società”, commenta l’amministratore delegato di Mfe-Mediaset, Pier Silvio Berlusconi. L’Opa “è indispensabile per poter concretamente affiancare Prosieben con un approccio costruttivo e creare valore per tutti gli azionisti, prima che sia troppo tardi”, aggiunge Pier Silvio Berlusconi. Da tempo il principale azionista di Prosieben è molto insoddisfatto del management del gruppo tedesco, che ha ritardato la vendita degli asset non core mentre Mfe-Mediaset vorrebbe che la società si concentrasse sul settore televisivo. L’operazione, con Mediobanca financial advisor del Biscione, nel dettaglio prevede di offrire un corrispettivo pari alla media ponderata degli ultimi tre mesi del titolo Prosieben, cioè il corrispettivo d’offerta minimo per legge, un valore che potrebbe essere attorno ai 5,7 euro, contro una chiusura odierna del titolo a quota 6,5. Mfe-Mediaset ha però già un accordo vincolante “con un attuale azionista” che si è impegnato ad aderire irrevocabilmente con parte dei suoi titoli all’offerta e quindi il Biscione “deterrà in ogni caso più del 30% del capitale sociale di Prosieben all’esito” dell’operazione.

L’azionista in questione non sarebbe il gruppo Ppf, che detiene una quota superiore al 10% della società tedesca, ma al Biscione comunque basta una frazione per superare l’obbligo di Opa, che quindi è stata lanciata ufficialmente. “Per decenni molte grandi aziende italiane sono state conquistate da multinazionali straniere: quello di Mfe è uno dei pochi casi in cui è un’azienda italiana a investire con coraggio all’estero, oltretutto in un mercato rilevante come quello tedesco”, conclude Pier Silvio Berlusconi, che da anni punta sulla creazione di un gruppo paneuropeo, anche per reggere la concorrenza dei big della raccolta della pubblicità.

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Economia

Crediti fiscali a 1.300 miliardi. Dubbi su rottamazione

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Quasi 1.300 miliardi di crediti fiscali non riscossi. Di cui poco meno della metà considerati ormai persi perché inesigibili. E’ la situazione in cui versa il magazzino della Riscossione, che dà la misura della difficoltà del fisco di incassare un arretrato più che ventennale. Ad alimentare la tendenza dei contribuenti a non pagare poi sono anche le ripetute misure di rottamazione – l’ultima nel disegno di legge della Lega all’esame del Senato – che, lanciano l’allarme i tecnici del Mef, l’Upb e la Corte dei Conti, rischiano non solo di alimentare l’attesa di nuovi condoni ma anche di avere un impatto sui conti pubblici.

Il ciclo di audizioni avviato dalla commissione Finanze del Senato sulla gestione del magazzino e sulla nuova rateizzazione sono l’occasione per fare il punto. Al 31 gennaio, spiega il presidente della commissione di analisi sul magazzino Roberto Benedetti, il valore residuo dei carichi affidati dal 2000 al 2024 all’Agenzia delle entrate Riscossione ammonta a circa 1.272,90 miliardi: ovvero quel rimane sottraendo dai 1.874,62 miliardi di carichi affidati i 421,39 miliardi di sgravi e carichi annullati e i 180,32 miliardi di crediti riscossi.

Si tratta di oltre 290 milioni di singoli crediti ancora da riscuotere, contenuti in circa 173 milioni di cartelle, avvisi di addebito e avvisi di accertamento esecutivo, che interessano circa 21,8 milioni di contribuenti. Una mole abnorme di crediti non sempre facilmente riscuotibili. Ci sono i tantissimi crediti di modesto valore (1 su 4 è di importo inferiore a 100 euro), la cui riscossione non è economicamente conveniente. Ci sono poi i crediti di fatto inesigibili, perché si tratta di soggetti interessati da procedure concorsuali, persone decedute o imprese cessate, nullatenenti o contribuenti già sottoposti ad azione cautelare: sono 537,75 miliardi i crediti con “profilo di non riscuotibilità”, praticamente carta straccia.

La mole aggredibile, invece, è costituita dai 567,85 miliardi di crediti riscuotibili, cui si potrebbero aggiungere altri 167,31 miliardi di crediti incerti, “con profilo di riscuotibilità non determinabile”. Ma l’Agenzia delle entrate Riscossione “stima il magazzino residuo lordo (ovvero le cartelle con un più elevato grado di esigibilità) in soli 100,8 miliardi, il 55,4% del carico totale affidato e l’8% di quello residuo contabile”, osserva l’Ufficio parlamentare dei bilancio, facendo notare che l’Italia è in fondo alle classifiche Ocse per lo stock dei debiti non riscossi sul totale delle entrate (181%) e ultima per i debiti non riscossi esigibili sul totale di quelli non riscossi (circa il 5%). Alla base delle problematiche che hanno determinato l’accumularsi del magazzino crediti c’è “l’accrescersi dei fenomeni di inadempimento, potenzialmente alimentati dalle ripetute rottamazioni, annullamenti, stralci e dilazioni”, che “rafforzano le aspettative di futuri abbattimenti o cancellazioni o rateazioni”, avverte la Corte dei Conti. Che nello specifico della nuova rottamazione ricorda le “ricadute negative” delle precedenti, ma anche il rischio di una “sottostima dei livelli di adesione”, con effetti negativi in termini di perdita di gettito.

L’ennesima proposta di rottamazione finisce anche nel mirino del Mef: la rateazione in dieci anni e il fatto che si applichi anche ai carichi dal 2000 al 2022 (quelli della rottamazione quater tuttora in corso) “comportano inevitabili riflessi sui conti pubblici”, avverte il direttore delle Finanze del Mef Giovanni Spalletta che suggerisce di “omogeneizzare le regole del gioco”. Inoltre le “ripetute e stratificate misure di definizione agevolata e annullamento dei debiti pregressi” contribuiscono ad alimentare nei contribuenti “aspettative di future agevolazioni e condoni”, avverte l’Authority dei conti pubblici. Questo, è il monito dell’Upb, potrebbe avere “ripercussioni negative sui versamenti per adeguamento spontaneo, sulla riscossione ordinaria e su quella coattiva ordinaria e, in generale, sul livello di tax compliance”.

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Economia

Salari in Italia, crescita troppo lenta: persi oltre 17 anni di potere d’acquisto

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Nel 2024 gli stipendi italiani hanno finalmente registrato un incremento superiore all’inflazione. Ma si tratta solo di un +2,3%: un dato troppo esiguo per compensare la perdita di potere d’acquisto accumulata dal 2008 a oggi, che supera l’8,7%. A pesare è anche un fenomeno dimenticato, ma ancora attuale: il fiscal drag.

Perché i salari continuano a perdere valore

Nonostante i tagli del cuneo fiscale dal 2020 in poi, l’aumento delle tasse causato dalla crescita nominale dei redditi spinta dall’inflazione ha generato un impoverimento netto dei salari reali. A questo si aggiunge la scarsa capacità dei rinnovi contrattuali di tenere il passo con l’aumento dei prezzi: mentre le retribuzioni nominali sono cresciute del 15%, l’inflazione ne ha mangiato oltre 5 punti.

Le retribuzioni effettive: il peso del tempo lavorato

Secondo i dati più aggiornati, nel 2023 un dipendente full time ha percepito in media 39.176 euro lordi. Ma chi ha lavorato part-time per tutto l’anno si è fermato a 17.966 euro. La situazione è ancora più critica per chi ha lavorato solo parte dell’anno: 18.129 euro lordi per il tempo pieno, appena 8.490 euro per il part-time.

Chi guadagna di più e chi perde terreno

Nel periodo 2019-2023, i lavoratori a tempo indeterminato del settore privato hanno avuto un incremento del 6,4% (29.417 euro lordi in media nel 2023), quelli pubblici dell’8,4% (37.898 euro). Ma per i contratti a termine le cifre cambiano: +1,4% nel privato (10.156 euro) e -3,2% nel pubblico (16.990 euro). A guadagnare di più sono stati i lavoratori dell’industria alimentare, delle costruzioni, del credito, finanza e intrattenimento. In fondo alla classifica: istruzione, acqua e rifiuti.

Divari di genere, età e cittadinanza

La forbice tra uomini e donne resta ampia: 28.766 euro per i primi, 22.162 per le seconde, con un divario di oltre 6.600 euro. I giovani sotto i 29 anni sono i meno pagati (14.271 euro lordi), seguiti dagli over 30 (27.208 euro) e dagli over 54 (31.797 euro). Forti anche le differenze per cittadinanza: 27.162 euro per i lavoratori italiani, 16.358 per quelli extraUe.

Il lavoro invisibile: domestici e agricoltori

Nel 2023 sono stati censiti 834mila lavoratori domestici regolari, con una paga media settimanale di 185 euro. In agricoltura, i lavoratori regolari erano 991mila con una retribuzione media annua di 11.100 euro lordi. Un mondo spesso dimenticato, ma fondamentale per l’economia.

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