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Rapporto Open Doors, ‘in Nigeria record di omicidi dei cristiani’

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La Corea del Nord è il Paese più difficile per i cristiani. Lo dice il Rapporto Watch List 2025 della Ong Porte Aperte/Open Doors, diffuso oggi, che ogni anno compila la lista dei 50 Paesi con la maggiore persecuzione o discriminazione dei cristiani nel mondo. Nello specifico: al sesto posto c’è la Nigeria, che detiene il record di cristiani uccisi a causa della violenza jihadista. Sono 4.118 sui 4.998 totali nel mondo. Il secondo è la Repubblica Democratica del Congo con 261. Si tratta di uno dei pochi numeri assoluti in calo rispetto allo scorso anno, quando i cristiani uccisi furono 5.621. Secondo Porte Aperte il calo è dovuto ai mesi antecedenti alle elezioni in Nigeria, periodo in cui i massacri si sono fermati per poi ricominciare dopo il voto. Nel Paese africano c’è stato anche il numero più alto di rapimenti di cristiani, 3.300 sui 3.906 globali, ma in generale è tutta la fascia del Sahel a essere particolarmente difficile a causa dei gruppi islamisti.

Un focus riguarda anche Pakistan e Afghanistan: il Pakistan, costantemente tra le prime dieci nazioni in cui la vita dei cristiani è più difficile, si trova al settimo posto ed è il secondo per le violenze contro i cristiani. Sale all’ottavo posto dal decimo il Sudan, seguito dall’Iran. Decimo posto per l’Afghanistan, dove la violenza sui cristiani è calata dopo le persecuzioni degli anni precedenti che hanno portato molte comunità a fuggire. “La vita dei cristiani non è ora più sicura”, si legge, “ma semplicemente i talebani hanno smesso di cercarli”. L’India, undicesimo in classifica, è lo Stato con il maggior numero di cristiani arrestati : 2.332 su 4.125, seguito da Eritrea (400), Cuba (75) e Nicaragua (60). Il Paese centroamericano è salito fino alla trentesima posizione a causa del governo Ortega che limita la vita dei cristiani. Sull’India, evidenzia il Rapporto, “c’è una grossa preoccupazione in vista delle elezioni del prossimo anno, che potrebbero esacerbare il clima e il conflitto tra le confessioni religiose”. Tra i nuovi Paesi in cui la persecuzione ha raggiunto il livello “estremo” ci sono la Siria e l’Arabia Saudita. Fra gli altri dati emersi globalmente ci sono anche 14.766 attacchi alle Chiese e ai luoghi di culto mentre sono decine di migliaia le aggressioni personali e alle attività economiche.

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Morto Sam Nujoma, padre dell’indipendenza della Namibia

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E’ morto all’età di 95 anni Sam Nujoma, considerato il padre dell’indipendenza della Namibia nel 1990. Lo ha annunciato la presidenza del paese, che un tempo era controllata dal Sudafrica e che lo stesso Nujoma ha guidato fino al 2005. “Il nostro padre fondatore ha vissuto una vita lunga e illustre durante la quale ha servito eccezionalmente il popolo del suo amato paese”, ha affermato il presidente Nangolo Mbumba. A capo del Swapo, il movimento di liberazione da lui co-fondato nel 1960, Sam Nujoma ottenne l’indipendenza della Namibia dal Sudafrica nel 1990, che aveva sottratto il controllo del territorio alla Germania dopo la prima guerra mondiale.

In particolare Nujoma, giunto alla guida della nazione, si adoperò per unificare una popolazione di due milioni di abitanti, provenienti da una dozzina di gruppi etnici che l’apartheid aveva cercato di dividere. Barba in stile Fidel Castro, Nujoma lasciò il potere all’età di 75 anni nel 2005, nominando come suo successore un fedelissimo ma rimanendo sempre dietro le quinte. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, nel maggio 2022, all’età di 93 anni, si era mostrato con il pugno alzato e aveva invitato a continuare a impegnarsi “agli ideali panafricani”. Nel 2021 aveva respinto la proposta di risarcimento della Germania di oltre un miliardo di euro per il massacro di decine di migliaia di indigeni Herero e Nama, considerato il primo genocidio del XX secolo.

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Ucraina-Russia, il 2025 segnerà la fine della guerra? Tra speranze di pace e nuove minacce

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Il 2025 potrebbe essere l’anno della fine della guerra tra Russia e Ucraina, ma la situazione resta altamente incerta. Mentre emergono spiragli di dialogo, i combattimenti nelle regioni del Donbass e nella zona russa di Kursk proseguono con intensità.

Mosca ha annunciato la conquista della città mineraria di Toretsk, nel Donetsk, mentre Kiev ha rilanciato gli attacchi su Kursk e ha segnalato il ritorno delle truppe nordcoreane, precedentemente ritirate ma ora di nuovo presenti sul fronte.

Zelensky pronto al dialogo, ma prima vuole incontrare Trump

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un’intervista alla Reuters, ha dichiarato di essere pronto a negoziare direttamente con Vladimir Putin, ma ha sottolineato che prima vuole coordinarsi con Donald Trump per affrontare “il nemico comune”.

Anche Trump ha lasciato intendere la possibilità di un dialogo con Putin, dichiarando di voler “vedere la fine della guerra” e lasciando aperta la possibilità di un incontro con Zelensky già “la prossima settimana”.

Da Mosca, invece, arrivano segnali contraddittori. Dopo aver ripetutamente dichiarato che Zelensky non è un interlocutore legittimo (poiché il suo mandato sarebbe tecnicamente scaduto nel maggio scorso), ora il Cremlino sembra più incline a valutare la possibilità di negoziati.

La battaglia per ingraziarsi Trump

Al momento, sia Kiev che Mosca sembrano più interessate a guadagnarsi il favore di Trump piuttosto che impegnarsi concretamente per fermare la guerra.

Zelensky ha accolto positivamente la richiesta dell’ex presidente americano di concedere agli Stati Uniti accesso privilegiato alle terre rare ucraine, risorse fondamentali per l’industria tecnologica e militare. “Saremmo felici di intensificare la cooperazione tra le nostre industrie minerarie”, ha dichiarato il leader ucraino.

Allo stesso tempo, Putin sta evitando critiche dirette a Trump e sembra intenzionato a sfruttare la sua presidenza per rompere il fronte occidentale, che sotto Biden ha sostenuto l’Ucraina in modo compatto.

Putin prepara 100.000 nuovi soldati per il fronte

Nonostante i discorsi sulla pace, l’intelligence ucraina riporta una preoccupante escalation militare da parte russa. Zelensky ha avvertito che Putin starebbe pianificando il dispiegamento di 100.000 nuovi soldati, ben equipaggiati e pronti a combattere per un lungo periodo.

Inoltre, l’Ucraina sostiene che la cooperazione militare tra Russia e Corea del Nord verrà rafforzata con nuove tecnologie belliche avanzate.

A conferma della criticità del momento, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato Militare della NATO, ha effettuato una visita segreta a Kiev per raccogliere informazioni di prima mano sulla situazione al fronte.

L’Ucraina continua a chiedere aiuti militari

Zelensky continua a sollecitare il sostegno occidentale. Francia e Olanda hanno recentemente inviato caccia Mirage e F-16, mentre il leader ucraino ha chiesto agli alleati europei di incrementare le spese militari fino al 5% del PIL.

“La nostra guerra è la guerra dell’Europa. Se Putin dovesse vincere in Ucraina, l’intera stabilità del continente sarebbe a rischio”, ha ribadito Zelensky all’ammiraglio Dragone.

La pace è davvero vicina?

Se da una parte si intravedono spiragli diplomatici, dall’altra la realtà militare sul campo suggerisce che la guerra sia ancora lontana dalla fine.

Il 2025 potrebbe segnare una svolta decisiva, ma la vera fine del conflitto dipenderà dalle scelte politiche di Mosca, Kiev e delle potenze occidentali. Per ora, la possibilità di un cessate il fuoco sembra ancora un miraggio.

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Norvegia, il Paese che fa affari con la guerra in Ucraina: boom del gas e l’accusa di profitti per 100 mld

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Jens Stoltenberg (nella foto in evidenza), da pochi giorni ministro delle Finanze della Norvegia, si trova a dover rispondere a un’accusa pesante: il suo Paese sarebbe un “profittatore di guerra” per l’aumento delle entrate legato al conflitto in Ucraina. Un’accusa che lui respinge, ma che trova riscontro nei numeri.

Dopo la fine delle forniture russe, la Norvegia è diventata il principale fornitore di gas e petrolio per l’Europa, facendo schizzare alle stelle i propri ricavi. Solo nel 2024, il flusso di gas norvegese verso l’Italia è in calo, ma nel resto d’Europa la domanda continua a crescere. Tra il 2021 e il 2023, le esportazioni di metano norvegese sono aumentate del 5,8% in volume e, soprattutto, si sono quintuplicate in valore: da 15,9 miliardi di euro annui nel periodo 2016-2020 a 74,3 miliardi dal 2022.

I guadagni record di Oslo

La Norvegia non ha venduto molto più gas, ma lo ha fatto a prezzi elevatissimi. Il prezzo è infatti legato al mercato Ttf di Amsterdam, che con la guerra ha raggiunto valori senza precedenti. A dimostrarlo sono anche i bilanci di Equinor, il monopolio statale norvegese di gas e petrolio.

Dal 2016 al 2020, Equinor ha versato al governo di Oslo circa 7,2 miliardi di dollari l’anno in tasse e 1,9 miliardi in dividendi. Dal 2022, le cifre sono esplose: 31 miliardi l’anno di tasse e 6,1 miliardi di dividendi. Un aumento superiore al 300%, che ha portato nelle casse dello Stato norvegese oltre 100 miliardi di dollari in più rispetto alle previsioni normali.

Se i prezzi del gas fossero rimasti ai livelli pre-guerra, la Norvegia avrebbe incassato circa 86 miliardi di dollari in meno. Di fatto, ogni cittadino norvegese ha beneficiato involontariamente di un “bonus” di 20.000 dollari grazie alla crisi energetica globale.

Il contributo alla guerra in Ucraina

La Norvegia, sotto la guida di Stoltenberg alla Nato, ha chiesto più volte ai Paesi europei di aumentare il sostegno economico e militare all’Ucraina. Ma quanto ha versato Oslo? Ad oggi, ha stanziato 3,5 miliardi di euro per Kiev, una cifra esigua rispetto agli incassi extra ottenuti grazie al rialzo dei prezzi del gas.

Ora che è alla guida del ministero delle Finanze, Stoltenberg ha promesso di aumentare gli aiuti all’Ucraina, avendo ampio margine per farlo. Tuttavia, la questione morale rimane aperta: la Norvegia ha tratto enormi vantaggi economici dalla guerra e, sebbene non sia direttamente responsabile del conflitto, la sua posizione di principale esportatore di energia la pone sotto i riflettori internazionali.

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