La premessa è che davanti alla morte di un ragazzo di 15 anni occorre rispetto, a prescindere dalle responsabilità che saranno accertate dalla magistratura in questa ennesima vicenda di violenza inaudita in una città che prova a riscattarsi da un presente di violenza e spesso di degrado morale che si nasconde dietro certi episodi di criminalità e sangue. Ugo Russo aveva 15 anni e 11 mesi. Avrebbe compiuto 16 anni il 10 aprile prossimo. Che cosa ci facesse con una arma assieme ad un altro delinquente. Che cosa facesse di notte con una pistola giocattolo che gli ha procurato la morte sono cose su cui un magistrato farà luce. Ma di questo dovrebbe parlare anche il padre di questo ragazzi rimasto ucciso nella rapina. Che è stato intervistato. Lui si chiama Vincenzo Russo, ed ovviamente ha la sua versione dei fatti. Ha molte certezze su quello che non doveva accadere. Non sa rispondere però a molte domande. “Quando alle 6 di questa mattina ci hanno detto che mio figlio era morto, sono corso da lui a prendermi il suo ultimo calore. Adesso è già freddo. Aveva la benda in testa, un colpo a bruciapelo sul petto, aveva il fuoco addosso. E’ stato centrato da un primo proiettile al petto, ma l’altro era dietro alla nuca” ha detto Vincenzo Russo, ai giornalisti che volevano fargli domande sul tentativo di rapina al carabiniere . “Io non lo so se Ugo abbia puntato o meno la pistola alla tempia di quel carabiniere – continua – Conosco mio figlio per come è a casa con noi, ma quando è fuori come si fa? Non vado mica dietro a lui”.
La certezza di quel colpo alla nuca Vincenzo spiega di averla dai racconti di chi per primo lo ha soccorso: “Dopo il colpo a bruciapelo sul petto – racconta il padre del 15enne – il carabiniere ne ha esploso un secondo quando Ugo, volato in avanti di tre, quattro metri, si è rialzato e stava ormai allontanandosi. Ne sono sicuro perché ha un secondo proiettile dietro la testa, non alla fronte come dicono. Quelli che lo hanno visto soccorrerlo, mi hanno detto che in ambulanza gli tenevano la mano dietro la testa per tamponare il sangue, che davanti era pulito”. E sul 23enne militare, ora indagato per omicidio, dice: “Questo è sceso a Napoli per fare la guerra. E’ stata una esecuzione – incalza Vincenzo Russo – qualsiasi cosa abbia fatto Ugo, perché sparare così?”. Ovviamente quelle di questo padre sono supposizioni o meglio accuse senza avere un quadro preciso di quanto accaduto. Perchè questo padre non può sapere con certezza la dinamica dell’accaduto. E fino a quando non ci sarà una perizia necroscopica sul cadavere nessuno è autorizzato a dire come è morto il 15 enne. Nessuno può parlare di esecuzione. Di colpo alle spalle. Quasi di giustizia sommaria. Lo fa un padre che ha appena visto il figlio su un marmo freddo dell’ospedale, morto a 15 anni.
“So bene che anche il carabiniere è un ragazzo – continua il papà della vittima – che possa aver avuto paura. Dico però una cosa: dopo il primo proiettile sparato al colpo, giustificato dallo spavento, perché non ha approfittato per andarsene? Voleva fare l’eroe e bloccarlo per arrestarlo? Perché, allora, non sparargli a una gamba? In testa no, in testa è un’esecuzione. Secondo me è sceso già consapevole di fare questa cosa, c’è premeditazione. Sa come si vive a Napoli, è sceso armato perché voleva fare Rambo, si è portato la pistola -continua – questo ragazzo tiene la guerra in capa”.
Ugo Russo. Il ragazzo rimasto ucciso nel corso di una rapina
A Vincenzo e a sua moglie, oggi, restano “tre figli da portare avanti – dice – e il dolore nel cuore. Siamo distrutti, mia moglie non riesce nemmeno a parlare, io ho trovato la forza perché voglio giustizia. La devono smettere – prosegue Vincenzo Russo – anche se hanno la divisa devono pagare, non si devono aiutare uno con l’altro. Spero solo che la magistratura si metta una mano sulla coscienza e faccia le indagini come le deve fare, che vedano la dinamica”. Sul pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini di Napoli, devastato per la rabbia dopo la morte di suo figlio? “Ho chiesto scusa per quello che hanno fatto in ospedale, io ero vicino alla salma di mio figlio, non potevo sapere. Dico però che viviamo in un contesto difficile, in pronto soccorso ci sono medici bravi e medici arroganti, poliziotti bravi e poliziotti arroganti: uno scaldato di testa può avere questa reazione ma nemmeno gli voglio dare colpa. Voglio dire, avrei potuto farlo anche io se al posto di mio Ugo ci fosse stato un altro figlio di famiglia che conosco e magari avessi trovato una persona arrogante. Siamo distrutti, è morto bambino”. Quanto agli spari contro la caserma? Nulla. Nessuna risposta.
Celebrando la giornata del Made in Italy, l’ambasciata d’Italia a Copenaghen, in collaborazione con Assocoral, ha riportato in una manifestazione dedicata alla lavorazione artigianale del corallo e del cammeo l’eccellenza mondiale che Torre del Greco rappresenta nel mondo. Lo riferisce una nota dell’ambasciata. Scolpire, intagliare e modellare il corallo grezzo, trasformandolo in pezzi di gioielleria di raffinata bellezza, è infatti un’arte affascinante che gli artigiani di Torre del Greco eseguono da secoli, unendo tradizione e innovazione, e dedicando particolare attenzione alla sostenibilità e alla conservazione dell’ecosistema marittimo.
Attraverso i gioielli di corallo rosso ed i cammei Made in Torre del Greco è stata data ai danesi una rappresentazione vivida delle capacità, della cultura e dei valori dell’Italia. E’ sembrata la maniera più semplice, e al tempo stesso speciale, per condividere arte raffinata e meraviglie del territorio campano a Copenaghen, attraverso iniziative distinte. Nella prima, presso l’Istituto italiano di cultura, la delegazione dell’Istituto F. Degni di Torre del Greco ha eseguito un workshop di lavorazione dal vivo. Ad assisterli, studentesse danesi dell’Istituto Professionale Next e della Royal Danish Accademy (Institute of Product Design) che hanno avuto l’opportunità di conoscere le varie tecniche, mostrando curiosità ed interesse a proseguire l’esperienza.
E’ stata nel contempo allestita ed aperta al pubblico, nello stesso IIC, la mostra personale del fotografo corallino Carlo Falanga ‘L’arte della Tradizione’ che, attraverso scatti significativi, racconta e sintetizza la tradizione artigianale di Torre del Greco. Nell’edificio storico che ospita la residenza italiana, infine, ha avuto luogo l’incontro di alcune aziende aderenti ad Assocoral con oltre 50 operatori danesi. Successivamente, mostrando i propri prodotti attraverso postazioni e vetrine espositive anche ad un pubblico più ampio, il presidente di Assocoral, Vincenzo Aucella, e gli imprenditori torresi, hanno presentato e raccontato la tradizione artistica della loro città, mentre modelle indossavano i preziosi esposti.
Nel frattempo, la delegazione dell’Istituto F. Degni ha proseguito dimostrazioni di lavorazione ed incisione dal vivo davanti agli ospiti ammirati. Cocktail preparato da ristoratori italiani di Copenaghen e prosecco hanno accompagnato fino alla sua chiusura la prima giornata del Made in Italy in Danimarca: un’accoglienza calda ed entusiasta, notavano soddisfatte le imprese, che fa ben sperare per seguiti a breve e per rapporti bilaterali sempre più stretti.
“Oggi è arrivata una notizia che aspettavo da tempo. La richiesta di risarcimento danni presentata da me e da Carmelo Satta per ingiusta detenzione sarà trattata in udienza con alta probabilità di accoglimento.” Così il leader di Sud chiama Nord e federatore della lista Libertà, Cateno De Luca commenta il decreto notificato dal collegio riparazione ingiusta detenzione della Corte d’appello di Messina che ha fissato al prossimo 23 maggio l’udienza. I due erano stati reclusi ai domiciliari per 12 giorni. Cateno De Luca insieme a Carmelo Satta, presidente nazionale Fenapi, e altri, erano già stati assolti in primo e secondo grado dall’accusa di evasione fiscale.
La sentenza di assoluzione era passata in giudicato perché la Procura di Messina aveva rinunciato a ricorrere in Cassazione, dopo aver ottenuto l’arresto l’8 novembre 2017, subito dopo la rielezione al Parlamento Siciliano di Cateno De Luca e un giorno prima dell’ultima udienza del processo per il quale era stato arrestato una prima volta nel 2011.
“Dopo 16 processi e 2 arresti sono incensurato e continuo a lottare contro i poteri forti e il sistema politico mafioso a testa alta – prosegue De Luca -. Già il 20 novembre 2017, subito dopo la revoca degli arresti domiciliari avevo anticipato che avrei portato avanti un’azione per chiedere ed ottenere di ristabilire la giustizia. Oggi con questo decreto siamo sempre più vicini alla verità dei fatti, ed al trionfo della giustizia”. “E il 23 maggio sarò ancora una volta in quell’aula di tribunale per ottenere una volta per tutte la certificazione che Cateno De Luca non doveva essere arrestato” conclude.
Un panetto di hashish nascosto dentro una colomba pasquale ed altri pezzi dentro dei deodoranti stick: a fiutare e far rinvenire la droga, che qualcuno voleva introdurre nel carcere di Poggioreale, a Napoli, il cane Spike della polizia penitenziaria. “L’operazione – afferma il segretario regionale per la Campaniadel Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Tiziana Guacci – è stata eseguita dal personale di polizia penitenziaria, coordinato dal vicecomandante di Reparto, Savina D’Ambrosio, in collaborazione con le unità cinofile e il cane Spike.
Durante tale operazione, sono stati sequestrati al padiglione Livorno 125, 50 grammi di hashish, una parte già divisa in dosi ed occultata all’interno di deodoranti stick, mentre un intero panetto era stato nascosto all’interno di una colomba. Un plauso al personale di Napoli Poggioreale che, nonostante un grave sovraffollamento e la grave carenza di organico, riesce a garantire la legalità”.
Per Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, “il problema dell’ingresso della droga in carcere è questione ormai sempre più frequente, a causa dei tanti tossicodipendenti ristretti nelle strutture italiane. Dai dati in nostro possesso sappiamo che quasi il 30% delle persone, italiane e straniere, detenute in Italia, ossia uno su tre, ha problemi di droga.
La loro presenza comporta da sempre notevoli problemi sia per la gestione di queste persone all’interno di un ambiente di per sé così problematico, sia per la complessità che la cura di tale stato di malattia comporta. Non vi è dunque dubbio che chi è affetto da tale condizione patologica debba e possa trovare opportune cure al di fuori del carcere e che esistano da tempo dispositivi di legge che permettono di poter realizzare tale intervento. Questa potrebbe essere la strada da seguire per togliere dal carcere i tossicodipendenti e limitare sempre di più l’ingresso di sostanze stupefacenti”.