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Ragazzino di 13 anni uccide la sorella con una pistola costruita in casa

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Un ragazzino di 13 anni ha ucciso la sorella di 14, sparando con una pistola che aveva costruito in casa, nel tentativo di fermare due persone, fuggite dopo avergli portato via una pistola, senza pagarla. Si allunga la lista delle vittime delle “ghost guns”, le pistole fantasma, fabbricate assemblando pezzi comprati separatamente online, poi vendute illegalmente e irrintracciabili. L’ultima dell’elenco e’ Kyra Scott, 14 anni, uccisa dal fratello di 13 a Douglasville, sobborgo a una trentina di chilometri da Atlanta, Georgia. Secondo la ricostruzione dello sceriffo della contea, il 27 novembre due persone si sono presentate a casa degli Scott, dove il fratello di Kyra fabbricava e vendeva pistole fantasma. Qualcosa pero’ e’ andato storto: anziche’ comprare l’arma, i due l’hanno rubata e sono scappati. Il ragazzino ha sparato con una delle pistole montate in casa, ma ha colpito la sorella uccidendola. I familiari hanno tentato di soccorrere Kyra. Ma arrivata al pronto soccorso, la ragazzina e’ morta. Oltre al fratello della vittima, la polizia ha arrestato un ragazzo di 19 anni, Yusef McArthur El: sarebbe stato uno dei due che si erano presentati a casa Scott. Il primo e’ accusato di omicidio, l’altro di rapina e omicidio.

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Hezbollah lanciano missili e droni su Israele ma dicono “non vogliamo la guerra ma ci difenderemo”

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Mentre si addensano fosche le nubi all’orizzonte del sud del Libano minacciato dalla risposta israeliana all’attacco missilistico iraniano, il potente movimento armato libanese Hezbollah, alleato della Repubblica islamica e di Hamas, ribadisce di non volere una guerra aperta con lo Stato ebraico, ma assicura di avere “tutti i mezzi necessari” per difendersi e difendere il Paese mediterraneo.

Da più di sei mesi si verificano giornalieri scambi di fuoco tra Hezbollah e Israele. Finora il gruppo armato libanese ha puntato razzi e droni contro obiettivi militari per lo più a ridosso della linea di demarcazione con l’Alta Galilea. Nelle ultime ore il Partito di Dio ha rivendicato un’azione difensiva contro militari israeliani che si erano infiltrati in territorio libanese. Dal canto suo, l’aviazione israeliana ha da più di un mese cominciato a bombardare con regolarità anche la profondità territoriale libanese, in particolare nella valle della Bekaa al confine con la Siria, considerata la retrovia logistica del Partito di Dio. E nelle ultime ore ha condotto almeno due raid mirati contro dirigenti militari di Hezbollah nella regione di Tiro. Da ottobre a oggi sono stati uccisi più di 60 civili libanesi e 8 civili israeliani.

Sul lato israeliano della linea di demarcazione circa 80mila persone sono state sfollate, un dato senza precedenti. Mentre il sud del Libano, periodicamente segnato da invasioni e operazioni militari israeliane, ha finora visto lo sfollamento di 100mila civili. In questo contesto di crescente tensione, fonti interne a Hezbollah che preferiscono rimanere anonime perché non autorizzate a parlare con i media affermano che il partito “è pronto a difendersi con tutti i mezzi necessari” in caso Israele decidesse di aprire un secondo fronte di guerra aperta col Libano.

Le fonti di Hezbollah sostengono che finora i suoi combattenti hanno “usato solo una minima parte dell’arsenale” a disposizione e che i missili a media e lunga gittata, stoccati da anni in località segrete tra Siria e Libano, possono colpire tutte le città israeliane, incluse Ashkelon nel sud e il porto di Eilat sul Mar Rosso. “Possiamo eludere l’Iron Dome” israeliana, affermano le fonti, sottolineando come l’attacco iraniano del 13 aprile scorso sia servito, tra l’altro, a studiare la “capacità di reazione del nemico”.

“Il nostro arsenale serve come deterrente”, affermano le fonti di Hezbollah, confermando quanto ripetuto più volte dal leader del movimento, Hasan Nasrallah: l’azione militare dal sud del Libano – ha detto anche di recente il sayyid – serve in sostegno alla resistenza dei fratelli palestinesi e come elemento di dissuasione nei confronti di Israele. Per questo motivo, assicurano le fonti libanesi vicine a Teheran, “non vogliamo esporre il Libano a una guerra aperta con il nemico sionista. E, come già detto, siamo pronti a cessare ogni ostilità non appena Israele mette fine all’offensiva militare sulla Striscia di Gaza, decretando la vittoria della resistenza”. In questo senso, in caso di raggiungimento di un accordo quadro tra Hamas e Israele, le fonti di Hezbollah affermano di esser pronte a “tornare alla situazione precedente all’8 ottobre scorso”, data di inizio dei botta e risposta tra il Partito di Dio e lo Stato ebraico.

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La mappa delle basi Usa (e occidentali) nell’area

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Basi militari note e altre segrete, installazioni logistiche e soldati sul campo per addestrare forze locali: è molto articolata la presenza delle truppe statunitensi e occidentali in Medio Oriente che potrebbero finire nel mirino di Teheran e delle milizie alleate. A cominciare dalle basi in Iraq e Siria, che già hanno dovuto fare i conti con la reazione all’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza scatenata all’indomani delle stragi del 7 ottobre compiute da Hamas. In Iraq in particolare, dove il premier Muhammad Sudani ha chiesto il ritiro delle truppe americane e l’esercito di Baghdad giudica la loro presenza “fonte di instabilità”, già si contano diverse decine di attacchi.

La gran parte sono rivendicati dal gruppo “Resistenza islamica in Iraq”, che secondo Washington è sostenuto da Teheran. Nel Paese i soldati americani sono quasi 2.500, inquadrati nella Coalizione anti-Isis creata nel 2014. La situazione è talmente tesa che le forze Usa hanno colpito a Baghdad nel gennaio scorso il comandante di una fazione filoiraniana. L’ultimo attacco nella capitale irachena risaliva al 2020: venne ucciso in un raid Qasem Soleimani, il capo delle forze al Quds iraniane. Allora, per rappresaglia, Teheran lanciò diversi missili balistici sulla base di Al-Asad. Tra le altre strutture, l’aeroporto militare di Erbil, nel Kurdistan iracheno, finisce spesso nel mirino. Nell’area sono dislocati anche i militari italiani inquadrati nell’operazione Prima Parthica (oltre mille soldati tra Iraq e Kuwait), soprattutto per l’addestramento delle forze locali. In Siria la base militare Usa più nota è quella di al Tanf, un’ex prigione che sorge strategicamente al confine tra Iraq e Giordania, poi ci sono quelle di al Omar e al Shaddadi, nel nordest, tutte e tre già prese di mira dal 7 ottobre. I soldati schierati in Siria sarebbero almeno 900, ufficialmente per l’addestramento delle Forze democratiche siriane (Sdf) che ancora combattono contro il governo di Damasco.

Nel nord ci sarebbero poi 200 militari francesi dispiegati in una manciata di basi: le informazioni però arrivano soprattutto da Ankara, che accusa Parigi di addestrare in loco i “terroristi” del Pkk, mentre ufficialmente addestrano, anche loro, le Sdf. In Giordania, 3mila i soldati Usa schierati, il presidente Emmanuel Macron ha acceso i riflettori sulla base aerea nel nordest desertico da cui sono partiti i caccia per intercettare i droni iraniani nell’attacco a Israele. Lo aveva già fatto a dicembre, andando a visitare per Natale i 350 soldati della struttura. Ma la base giordana che desta le maggiori preoccupazioni è la ‘Torre 22’: situata al confine siriano – si staglia a una manciata di chilometri dalla base di al Tanf – è stata attaccata dai droni delle milizie filoiraniane a gennaio con un bilancio di tre soldati americani uccisi e oltre 40 feriti. La presenza militare americana in Medio Oriente si snoda poi con le molteplici basi in Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Baharein, Kuwait, Gibuti, Oman che ospitano oltre 40mila soldati, a cui vanno aggiunti i britannici. Ma si tratta di Paesi che difficilmente potrebbero finire oggi nel mirino di Teheran, a meno di non voler correre il rischio di dare il là alla Coalizione regionale anti-Iran evocata da Tel Aviv.

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Trump alla sbarra, ‘processarmi è un attacco all’America’

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Tra ingenti misure di sicurezza e centinaia di rappresentanti dei media accampati fuori dal tribunale sin dalle quattro di mattina, Donald Trump è arrivato a Manhattan per il primo processo ad un ex presidente nella storia degli Stati Uniti. Trentaquattro capi di imputazione e almeno due mesi di udienze, il procedimento per i pagamenti alla porno star Stormy Daniels è l’unico dei quattro a suo carico che arriverà a sentenza prima delle elezioni di novembre.

“Lotto per la libertà di 325 milioni di americani. Questo processo è un attacco all’America”, ha attaccato Trump poco prima di entrare in aula ribadendo di essere vittima di una “persecuzione politica”. Il tycoon è accusato di aver falsificato documenti aziendali per nascondere un pagamento di 130.000 dollari all’attrice e regista hard nel 2016 in modo che non rivelasse la loro relazione. Secondo il procuratore Alvin Braggs, l’ex faccendiere Michael Cohen, uno dei testimoni chiavi, ha materialmente staccato gli assegni e poi è stato rimborsato dalla società di Trump che ha fatto passare le rate come “spese legali”. Non solo, la procura di Manhattan imputa all’ex presidente altre due mazzette in cambio del silenzio sulle sue sregolatezze: una da 30.000 dollari ad un portiere della Trump Tower ed un’altra da 150.000 dollari alla coniglietta di Playbow Karen McDougall con la quale The Donald ha avuto una storia sempre nel 2016. Insomma, per l’accusa il tycoon aveva messo in piedi uno schema più ampio per tutelarsi dagli scandali durante la corsa alla Casa Bianca che poi ha vinto.

Anche per questo la procura chiamerà sul banco dei testimoni McDougall, l’editore del National Enquirer, il tabloid vicino all’ex presidente che si sarebbe fatto carico dei pagamenti a quest’ultima, e Hope Hicks, ex manager della campagna e poi direttrice delle comunicazioni alla Casa Bianca. Gli avvocati di Trump hanno elaborato una strategia difensiva basata, come riferiscono i media americani, sulle tre ‘d’, delay, deny and denigrate ovvero ‘ritarda, nega e denigra’. Per la parte diffamazione, il lavoro è quasi esclusivamente affidato a Trump che, nonostante l’ordine del silenzio da parte del giudice Juan Merchan, continua a pubblicare post al vetriolo contro Daniels e Cohen accusandoli di volta in volta di essere “bugiardi, opportunisti” e perfino “sacchi della spazzatura”.

Per quanto riguardi i tempi del processo i legali dell’ex presidente puntano sulla lentezza fisiologica del sistema giudiziario americano – devono ancora essere scelti i membri della giuria su oltre 200 candidati – e su una serie di espedienti piò o meno efficaci. Il giudice ha già bocciato la loro richiesta di ricusazione per un presunto conflitto di interessi (sua figlia lavora per un’azienda legata al partito democratico) sostenendo che si basava su “una serie di riferimenti, allusioni e speculazioni non supportate”. Ha invece lasciato una porta aperta su un’altra mozione della difesa, quella di non permettere a Trump di non essere presente alla seduta del 17 maggio per poter partecipare al diploma del figlio 18enne Barron.

“Vedremo a che punto del processo saremo”, ha risposto Merchan che ha anche stabilito che non ci saranno udienze il mercoledì. Sull’esito del procedimento è ancora troppo presto per esprimersi. Le accuse contro il tycoon sono tutti crimini di classe E, la categoria più bassa a New York, e ognuno comporta una pena detentiva massima di quattro anni di carcere. Merchan ha già chiarito che prende sul serio “i reati di colletti bianchi”, perché di questo Trump è accusato al di là degli affaire con le sue amanti, e potrebbe mandarlo dietro le sbarre ma potrebbe anche concedergli la libertà vigilata. In ogni caso, a meno di un passo indietro suo o del partito repubblicano, nulla impedirà a The Donald di continuare a correre per la Casa Bianca e, in caso di vittoria, a guidare gli Stati Uniti anche con la tuta arancione.

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