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Putin tra aperture e minacce: ma non mi pento di nulla

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Vladimir Putin ostenta sicurezza, a dispetto delle difficoltà delle sue truppe in Ucraina, e rivendica di “aver fatto tutto bene” finora. Eppure dalla sua analisi del conflitto, come spesso accade, emergono messaggi ambigui. Il presidente russo ha alternato minacce, come quella rivolta alla Nato a non inviare militari sul campo pena la “catastrofe globale”, a rinnovati segnali di apertura ad un dialogo con Kiev. Forse nella speranza di una tregua per far rifiatare l’Armata. Lo zar è apparso sorridente in sala stampa, al termine del vertice Cica di Astana a cui hanno partecipato 27 Paesi centroasiatici. Un blocco che Putin considera alternativo a quello occidentale. Rispondendo alle domande dei giornalisti, il presidente russo ha riconosciuto le “preoccupazioni” dei Paesi ex Urss per la guerra in corso. E ha mostrato il suo lato conciliante: “Non vogliamo distruggere l’Ucraina”, ha assicurato, comunicando che al momento non c’è più bisogno di “attacchi massicci” sulle infrastrutture ucraine. Che si traduce in uno stop al diluvio di fuoco che per tre giorni si è abbattuto su tutto il Paese, Kiev compresa, in rappresaglia all’attacco ucraino al ponte in Crimea. Inoltre, ha spiegato, non è prevista una nuova ondata di mobilitazione, perché bastano i “222mila uomini reclutati rispetto ai 300mila previsti”. E questa mobilitazione dovrebbe concludersi “in due settimane circa”. Quando poi gli è stato chiesto se si rammaricasse di qualcosa dopo questi 8 mesi, Putin ha risposto seccamente di no. Affermando di essere stato costretto a fare ciò che ha fatto: “Ciò che sta accadendo è spiacevole” ma sarebbe accaduto prima o poi, “solo a condizioni peggiori per noi”, è stato il ragionamento del presidente russo, che dal 2014 denuncia il “genocidio” contro la comunità russofona del Donbass da parte degli ucraini. Motivo sufficiente, per lo zar, per affermare che “stiamo agendo in modo corretto e tempestivo”. Ci sono stati poi segnali diretti di disgelo rivolti al nemico. Siamo “aperti alla prospettiva di colloqui con l’Ucraina”, ha assicurato Putin, ricordando che era stato Volodymyr Zelensky a far saltare i negoziati partiti in Turchia, dopo il ritiro dei russi da Kiev. E per riprendere a trattare il mediatore ideale sarebbe il leader turco Recep Tayyp Erdogan, che ha già “svolto un ruolo significativo nella risoluzione di una serie di problemi”. Fin qui le aperture, che Putin ha però bilanciato con altri toni più aspri. “Non vedo la necessità” di incontrare Joe Biden, ha risposto ad esempio a chi gli chiedeva di un possibile faccia a faccia al G20 di novembre in Indonesia, evocato proprio dal Cremlino nei giorni scorsi. Al presidente americano e a tutto l’Occidente, lo zar ha poi lanciato un nuovo monito: “L’invio di truppe della Nato in Ucraina per un confronto diretto con l’esercito russo sarebbe molto pericoloso e potrebbe causare una catastrofe globale”. Quindi un altro avvertimento: “La Russia chiuderà i corridoi del grano se sarà confermato che gli esplosivi utilizzati per colpire il ponte della Crimea sono stati inviati da Odessa”. Sulle reali intenzioni di Putin, ancora una volta, si resta nel campo dell’imperscrutabile, e si possono al massimo registrare le varie interpretazioni. Meduza, media indipendente russo che Mosca considera un agente straniero, ipotizza che il Cremlino stia valutando la ripresa dei negoziati per un cessate il fuoco temporaneo mirato a guadagnare tempo per addestrare i soldati di leva e rimpinguare rifornimenti e depositi. Con l’obiettivo di lanciare una nuova offensiva su larga scala tra febbraio e marzo dell’anno prossimo. Prendere tempo per riorganizzarsi è in effetti un’ipotesi plausibile, se si guarda all’evoluzione del conflitto sul terreno. Le truppe ucraine hanno rivendicato di aver liberato 600 insediamenti in un mese, nel nord-est e a sud, e sono sempre più vicine ad entrare nel capoluogo di Kherson, dove Mosca si prepara a far evacuare i civili. L’esercito di Kiev, tra l’altro, sull’onda di questi successi continua a spingersi oltre confine, come dimostra il secondo attacco in due giorni a Belgorod. Che stavolta avrebbe colpito una centrale elettrica.

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Mosca, 2 morti per attacco ucraino con droni a Belgorod

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E’ di due morti il bilancio di un attacco ucraino con droni nella regione russa di Belgorod. Lo annuncia il governatore Vyacheslav Gladkov. – “In seguito al rilascio di due ordigni esplosivi, un edificio residenziale privato ha preso fuoco – ha scritto su Telegram il governatore Vyacheslav Gladkov -. Due civili sono morti, una donna che si stava riprendendo da una frattura al femore e un uomo che si prendeva cura di lei”.

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La Nato verso nuovi Patriot e Samp-T all’Ucraina

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Da Capri a Bruxelles a Washington, l’Occidente imbocca la strada per concretizzare gli aiuti militari – compresa la difesa aerea – essenziali per Kiev in difficoltà nella guerra. Durante il Consiglio Nato-Ucraina con Volodymyr Zelensky, il segretario generale Jens Stoltenberg ha assicurato che “presto” ci saranno nuovi annunci sui sistemi di difesa per il Paese invaso. “L’Alleanza ha mappato le capacità degli alleati, ci sono sistemi che possono essere dati all’Ucraina”, ha riferito Stoltenberg al termine dell’incontro. “In aggiunta ai Patriot ci sono altri strumenti che possono essere forniti, come i Samp-T”, quelli a produzione franco-italiana. Un annuncio che arriva mentre prendono corpo i “segnali incoraggianti” evocati dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: dopo mesi di stallo, la Camera americana ha spianato la strada ai quattro provvedimenti per gli aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, mettendo in agenda il voto per domani.

E il Pentagono si sta preparando ad approvare rapidamente un nuovo pacchetto di aiuti militari che include artiglieria e difese aeree: secondo una fonte americana, parte del materiale potrebbe raggiungere il Paese nel giro di pochi giorni. In generale, per Kiev in ballo ci sono gli oltre 60 miliardi di dollari di forniture per le forze armate che – ha ricordato Blinken – “faranno una differenza enorme”. “Se i nuovi aiuti non verranno approvati c’è il rischio che sia troppo tardi”, ha ammonito il ministro degli Esteri Usa, mentre Zelensky ha ribadito l’allarme: i soldati “non possono più attendere” la burocrazia occidentale, la Nato deve dimostrare “se siamo davvero alleati”. La situazione sul terreno “è al limite”, ha aggiunto il leader ucraino al segretario della Nato Da parte dell’Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha “confermato quello che ha detto il presidente del Consiglio” sul fatto che il nostro Paese “farà il possibile per la protezione aerea dell’Ucraina”, mentre Kiev vuole dagli alleati ogni sistema disponibile, dai moderni Patriot – “almeno altre sette sistemi” – ai Samp-T italo-francesi. Anche il ministro della Difesa Guido Crosetto ha partecipato al Consiglio Nato-Ucraina, nel quale si è convenuto sulla necessità di uno sforzo ulteriore per sostenere Kiev. L’Italia ragiona sugli ulteriori aiuti militari da fornire quanto prima all’Ucraina e sul tavolo – si apprende – c’è la possibilità di un nuovo decreto per l’invio degli armamenti.

Anche se Crosetto ha più volte sottolineato che quasi tutto ciò che si poteva dare è stato dato. Già a Capri, dove ha partecipato al G7 Esteri, Stoltenberg aveva confermato la volontà degli alleati di accelerare sulla difesa aerea ucraina. E nel loro documento finale, i Sette ministri hanno espresso la “determinazione a rafforzare le capacità di difesa aerea” del Paese invaso, confermando l’impegno a lavorare per esaudire le richieste di Kiev, ribadite anche dal capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba, tra gli ospiti del summit in Italia. Il sostegno del G7 è pronto a tradursi anche in ulteriori sanzioni contro Teheran “se dovesse procedere con la fornitura di missili balistici o tecnologie correlate alla Russia”.

Il Gruppo ha poi puntato il dito contro la Cina, chiedendo nel suo documento finale di “interrompere” il sostegno alla macchina bellica di Mosca. Infine, i Sette hanno ribadito l’impegno ad attuare e far rispettare le sanzioni contro i russi, minacciando di “adottare nuove misure, se necessario”. In vista del vertice dei leader in programma a giugno in Puglia, il G7 lavora inoltre alle “possibili opzioni praticabili” per usare i beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina, “in linea con i rispettivi sistemi giuridici e il diritto internazionale”. Finora l’Ue ha trovato le basi legali solo per l’uso degli extraprofitti, ma bisogna ancora capire se si può fare un passo in più mettendo le mani direttamente sugli asset.

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Teheran avverte Israele, ‘non fate altri errori’

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“Un fallimento”, “fuochi d’artificio”, “la situazione è completamente normale”. La Repubblica islamica tace sulle esplosioni o minimizza l’attacco notturno, attribuito a Tel Aviv, che ha colpito una base militare a Isfahan nel giorno dell’85esimo compleanno della Guida suprema Ali Khamenei. Vari esponenti del governo e delle forze armate iraniane hanno continuato a minacciare una “risposta massima e definitiva” contro lo Stato ebraico mentre l’attacco veniva sminuito. Secondo Teheran, le esplosioni sentite nella notte sono dovute al sistema di difesa iraniano che ha preso di mira “mini droni di sorveglianza americani o israeliani”, lanciati a meno di una settimana dall’attacco dell’Iran contro Israele, in ritorsione per l’uccisione di sette membri delle Guardie della rivoluzione in un raid contro l’ambasciata iraniana di Damasco.

Dopo la chiusura, temporanea, dello spazio aereo su Teheran e altre città, i media della Repubblica islamica si sono affrettati ad assicurare che, in seguito all’abbattimento di “oggetti volanti sospetti”, la situazione era tornata alla completa normalità mentre i siti nucleari nella zona non sono stati danneggiati dall’attacco, come confermato anche dall’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), e hanno continuato ad operare “in totale sicurezza”. L’attribuzione dell’attacco a Israele è stata inizialmente bollata come “un’assurdità” dal comandante in capo dell’Esercito iraniano, Abdolrahim Mousavi, mentre il Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha negato di aver tenuto una riunione d’emergenza, smentendo indiscrezioni apparse sui “media stranieri”. Il governo di Teheran e i vertici militari hanno evitato in ogni modo di parlare direttamente dell’attacco, con l’eccezione del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian che, senza esplicitamente accusare lo Stato ebraico, ha definito l’attacco un “fallimento”, dipinto come una vittoria ed “esagerato dai media filo israeliani”, sottolineando che i droni sono stati abbattuti senza causare danni o vittime.

“La nostra prossima risposta sarà immediata e ai massimi livelli nel caso in cui il regime di Israele si imbarchi nuovamente in avventurismo e intraprenda azioni contro gli interessi dell’Iran”, ha ribadito Amirabdollahian, affermando che un eventuale risposta “decisiva e definitiva” contro Israele è già stata pianificata nel dettaglio dalle forze armate iraniane. La responsabilità di Israele è stata comunque indicata da figure politiche minori. Come il deputato Mehdi Toghyani, secondo cui “il disperato tentativo del regime sionista, con l’aiuto di agenti locali, di portare avanti un attacco con vari piccoli droni contro una base militare di Isfahan è fallito e ha portato loro ulteriore disgrazia”. Più cauto Javad Zarif, l’ex ministro degli Esteri e negoziatore per Teheran all’epoca dell’accordo sul nucleare del 2015, che ha chiesto alla comunità internazionale di fermare Israele “alla luce degli imprudenti fuochi d’artificio di Isfahan”.

Nessun commento sull’attacco da Khamenei, come anche da parte del presidente Ebrahim Raisi, che ha completamente ignorato i fatti di Isfahan durante un’apparizione pubblica a Damghan, nella provincia settentrionale di Semnan. “Questa operazione ha dimostrato l’autorità del sistema della Repubblica Islamica e la potenza delle nostre forze armate”, ha detto il presidente iraniano tornando a parlare della ritorsione di Teheran contro Tel Aviv per il raid di Damasco.

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