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Provocazione choc di Borrelli: a Napoli i giovani non combattono la camorra ma imitano Gomorra

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I giovani non combattono più la camorra, ma la imitano. Giancarlo Siani quando è morto, nel 1985, aveva 26 anni. Oggi, più di allora, sarebbe considerato un giovane. Ed è ai giovani che bisogna pensare quando si ricorda il suo sacrificio se davvero lo si vuole ricordare per come merita.

Anche perché lo stesso Siani amava incontrare gli studenti e i ragazzi in genere, così come si occupava spesso di giovani e giovanissimi nei suoi articoli per denunciare il loro ‘uso’ nelle attività criminali. Anche il suo ultimo articolo raccontava di una nonna che mandava il nipote, di 12 anni, a spacciare. E, da quella notizia di cronaca, come era solito fare, prese spunto per andare oltre e raccontare di come gli spacciatori si servissero dei ragazzi, addirittura dei bambini, per il loro indegno mercato di morte.

I giovani, da sempre, sono il motore del cambiamento e della ribellione e anche nella lotta alla camorra. I giovani sono stati sempre protagonisti. Chi può dimenticare, per esempio, quell’enorme movimento che si mise in piedi, proprio negli anni ’80, con gli Studenti napoletani contro la camorra. Un movimento importante che scosse le coscienze e creò quel clima che poi portò a tanti risultati importanti che, nella lotta alla camorra, non possono arrivare se non c’è una mobilitazione sociale a sostenere il lavoro di forze dell’ordine e Magistratura.
Purtroppo, negli ultimi anni, si assiste a una progressiva diminuzione dell’impegno dei giovani sui temi della legalità e anche i ragazzi che ancora portano avanti l’Associazione degli studenti napoletani contro la camorra, al di là della meritoria iniziativa del Compleanno di Giancarlo, non promuovono altre iniziative importanti, a differenza di quello che veniva organizzato in passato. Ho partecipato anche alla manifestazione di quest’anno perché sono rimasto legato a questa associazione che ho avuto l’onore di presiedere qualche anno fa e sono pronto a sostenere i ragazzi, se lo vorranno, per aiutarli a rilanciare l’associazione.
Di pari passo con la diminuzione dell’impegno sui temi della legalità, invece, si assiste, purtroppo, a un continuo aumento del numero di giovani protagonisti di comportamenti ai limiti della legalità o di veri e propri reati piuttosto. È triste ammetterlo, ma è giusto considerare che, anche mediaticamente e socialmente, sembra sempre più affascinante per un giovane napoletano fare azioni illegali e vandaliche piuttosto che essere impegnato contro la camorra e rispettare le leggi e il crescente fenomeno delle baby gang ne è una triste conferma.

È sempre più facile vedere giovani, anche tra coloro che non hanno nulla a che fare con gli ambienti criminali, che assumono comportamenti da camorristi, magari per ‘imitare’ i nuovi idoli di Gomorra la serie. È un segnale preoccupante perché non si può far passare l’idea che i camorristi siano modelli da seguire, mentre bisogna ribadire che i camorristi vanno combattuti con tutte le forze perché condizionano le nostre vite, peggiorandole.

Bisogna mettere in campo tutti gli sforzi possibili per riaccendere l’entusiasmo verso i temi della legalità nei giovani e serve l’impegno di tutti, nessuno escluso, coinvolgendo magari anche dei testimonial scegliendoli tra coloro che, più di altri, sono vicini ai gusti dei più giovani.

*L’autore di questo commento è Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale dei Verdi da sempre impegnato civilmente e politicamente sui temi della legalità

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Qatargate, Panzeri libero ma non può lasciare il Belgio

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Il memorandum da pentito firmato a gennaio parlava chiaro: un solo anno di reclusione in cambio delle sue confessioni. Nove mesi più tardi – quasi dieci dallo scoppio del presunto scandalo di corruzione -, Pier Antonio Panzeri, ritenuto il deus ex machina del Qatargate, è tornato libero prima del previsto grazie alla sua “buona condotta” e alla valutazione della giustizia belga che “non considera più necessaria la sua detenzione”. E, a prescindere dalla piega che prenderanno le indagini preliminari ancora in corso e l’eventuale processo, la sua pena si è così esaurita. Alle sole condizioni di continuare a collaborare con la giustizia, non lasciare – almeno per ora – il Belgio, e non entrare in contatto con gli altri indagati.

La loro sorte resta al contrario incerta, legata a doppio filo alle parole rese agli inquirenti dallo stesso ex eurodeputato e agli esiti del maxi-riesame dell’inchiesta, chiesto dall’ex vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, e destinato a chiudersi solo nel giugno 2024, oltre la data delle elezioni europee. Decretando i rinvii a giudizio dei sospettati o l’archiviazione dell’intera inchiesta. Era il 17 gennaio quando il politico di Pd prima e Articolo 1 poi, finito in carcere il 9 dicembre scorso, strinse un inatteso accordo con l’allora giudice istruttore Michel Claise, costretto a giugno altrettanto a sorpresa a lasciare la guida del caso alla nuova giudice Aurélie Dejaiffe per un potenziale conflitto d’interessi tra suo figlio e quello dell’eurodeputata Maria Arena – molto vicina a Panzeri e più volte accostata al caso senza mai essere stata indagata – co-azionisti di una società di cannabis legale.

Sotto il peso di 600mila euro in contanti ritrovati nella sua abitazione e delle accuse di corruzione attiva e passiva, riciclaggio e partecipazione a organizzazione criminale in qualità di capogruppo, nella sua nuova veste di gola profonda l’ex eurodeputato si è impegnato a “rendere dichiarazioni sostanziali, rivelatrici, veritiere e complete” alla magistratura sulle operazioni architettate, gli accordi stretti con Qatar, Marocco e Mauritania e il coinvolgimento di altre persone. Un’intesa che ha trascinato nella rete della magistratura belga i due eurodeputati in carica Andrea Cozzolino e Marc Tarabella, entrambi arrestati il 10 febbraio e rilasciati tra aprile e giugno. E che, in cambio delle sue confessioni, ha permesso all’ex sindacalista di ottenere la pena mite di un anno di reclusione, una multa da 80mila euro e la confisca dei beni acquisiti nel corso dell’indagine, stimati in un milione di euro. A nove mesi da quel giorno – quattro dei quali trascorsi nel malandato carcere di Saint-Gilles e cinque ai domiciliari – ora Panzeri è tornato libero su disposizione della Camera di consiglio del tribunale di Bruxelles. Una decisione accolta senza obiezioni dalla procura federale, secondo la quale “nel sistema penale belga la liberazione anticipata è una pratica frequente, resa possibile per esempio da motivi di buona condotta”.

E che, nella visione del suo legale, Laurent Kennes, “è del tutto normale, dal momento che tutti gli indagati coinvolti nel caso sono da tempo liberi e che lui è un collaboratore di giustizia”. Una collaborazione da mesi contestata con forza da Marc Tarabella ed Eva Kaili, secondo i quali le parole del pentito Panzeri sono “inattendibili” e lo stesso memorandum è “privo di validità” perché firmato dopo le pressioni esercitate, è la loro accusa, dall’ex giudice Claise per ottenere in cambio la liberazione della moglie, Maria Colleoni, e della figlia, Silvia, fermate in Italia. Gli indagati, è la replica della difesa di Panzeri, hanno “interesse” ad attaccare l’ex eurodeputato ma “il memorandum è ancora valido” e il politico “continuerà a collaborare con la giustizia”. Chiamata, dal canto suo, a fare luce nella cornice del riesame delle indagini anche sul secondo accordo da pentito della storia del Paese.

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Meloni sfida Berlino, controproposta italiana sulle Ong

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Una “controproposta italiana”, se la Germania insisterà col voler fare “passi indietro” sulla regolamentazione delle Ong. Giorgia Meloni lancia il suo guanto di sfida a Berlino. E a Malta incassa le “convergenze” dei Med9, con l’esplicito sostegno di Emmanuel Macron al piano in 10 punti di Ursula von der Leyen: per affrontare l’emergenza migranti che rischia di “travolgere tutti”, avverte la premier, se non si troveranno “soluzioni strutturali”. Bisogna essere “seri”, ripete, sui migranti come sulla gestione dei conti pubblici. Nessun timore, né dello spread né dei mercati, risponde ai cronisti Meloni, dopo che il differenziale tra Bund e Btp ha toccato i 200 punti all’indomani della presentazione della Nadef. “Avete già fatto la lista dei ministri..” la battuta con cui, da sola, introduce anche il tema del governo “tecnico”.

Le preoccupazioni per lo spread, che è stato ben più alto gli anni scorsi, “la vedo soprattutto nei desideri di chi come sempre immagina che un governo democraticamente eletto debba andare a casa”. La speranza, dice sferzante, “è dei soliti noti”. Ma “la sinistra continui a fare la lista dei ministri del governo tecnico che noi intanto governiamo”. E’ “in paranoia”, a stretto giro, la risposta del Pd. Meloni si presenta ai giornalisti in una pausa dei lavori del vertice dei Paesi Ue del Mediterraneo, dopo essersi confrontata per mezz’ora con Macron e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sul piano di azione lanciato a Lampedusa. “Lo sosteniamo e proponiamo ai colleghi di implementarlo al più presto”, dice il presidente francese, ricordando che l’ondata che ha toccato l’isola italiana è “eccezionale” e “tutti dobbiamo dare solidarietà all’Italia e ai porti di primo approdo”. Una linea che si ritrova anche nel documento finale dei Med, che ricalca in buona parte, al capitolo migranti, le posizioni italiane sulla necessità di una risposta europea coordinata, sul faro sui confini esterni e sull’Africa, citando esplicitamente, il “processo di Roma”. E l’accordo sulla Tunisia, da “implementare rapidamente”.

Macron però, per ammissione della stessa premier, non è entrato nella questione delle Ong. Non un dettaglio nei giorni in cui a Bruxelles e sull’asse Roma-Berlino sta andando in scena uno scontro durissimo. L’Italia, è il messaggio che manda Meloni al cancelliere Olaf Scholz, con cui pure ci sono stati “contatti” nelle ultime ore, non ha intenzione di arretrare sulla battaglia per limitare al massimo l’attività delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo. Sull’emendamento che chiede di escludere i salvataggi delle Ong dai potenziali casi di “strumentalizzazione dei migranti” Roma, spiega la premier, “ha chiesto tempo”. Ma al momento non sembrano esserci le condizioni per un compromesso. Per l’Italia si tratta di “un passo indietro”. Se resta sul tavolo, dice il capo del governo, “allora noi proponiamo un altro emendamento in forza del quale il Paese responsabile dell’accoglienza dei migranti che vengono trasportati sulla nave di una Ong è quello della bandiera della nave”.

ùLe Ong che “raccolgono i migranti”, le fa eco il ministro degli esteri Antonio Tajani, “li portino nei loro Paesi”. C’è ancora una settimana che separa dal Consiglio Ue informale di Granada, “rimaniamo cooperativi”, assicura la premier, “però ciascuno si assuma le responsabilità delle scelte politiche che porta avanti. Noi abbiamo una linea, altri ne hanno un’altra. Il problema è non scaricare la linea di uno sugli interessi dell’altro”. Non si può, insomma, “fare solidarietà con i confini degli altri”.

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Esteri

Svolta nel cold case del rapper Tupac Shakur, un arresto

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C’è una svolta nel cold case più celebre della storia dell’hip hop: 27 anni dopo l’omicidio del rapper Tupac Shakur la polizia di Las Vegas ha arrestato un uomo con l’accusa di aver ucciso il cantante il 6 settembre 1996. Tupac è morto sei giorni dopo all’ospedale, in seguito ai colpi ricevuti. Aveva 25 anni ed era al culmine del successo. Duane “Keffe D” Davis, di 60 anni, è stato arrestato mentre passeggiava vicino a casa. Uno dei pubblici ministeri che lavorano sul caso, Marc DiGiacomo, ha dichiarato che la procura aspettava “da diversi mesi” che il giudice spiccasse il mandato d’arresto.

Secondo DiGiacomo, Davis è stato il “basista” presente sul posto della sparatoria e anche colui che “ha ordinato la morte” di Shakur. Il 6 settembre del 1996 Tupac era a las Vegas per assistere a un incontro di pugilato tra Mike Tyson e Bruce Seldon. Attorno alle 23, il gruppo che lo accompagnava salì su una decina di macchine con l’intenzione di raggiungere una discoteca. Il cantante era a bordo di una Bmw nera guidata da Marion ‘Suge’ Knight, proprietario della Death Row Records, l’etichetta discografica di Los Angeles punto di riferimento per l’hip hop della West Coast nella faida di quegli anni con la East Coast. Mentre erano fermi a un semaforo, una Cadillac bianca si accostò all’auto su cui viaggiava Tupac e qualcuno dall’interno cominciò a sparare, colpendolo con quattro proiettili.

Davis è l’unico testimone dei fatti ancora vivo. Lui stesso ha ammesso che era a bordo della Cadillac nel suo libro di memorie del 2019, “Compton Street Legend”, che di fatto ha riaperto il caso. Davis ha detto che era seduto davanti e di aver fatto scivolare una pistola sul sedile posteriore, da dove partirono i colpi. Lì era seduto suo nipote Orlando Anderson, noto rivale di Shakur, con cui si era azzuffato poco prima a un casinò. Anderson è poi stato ucciso nel 1998 e nessuno è mai arrestato per l’omicidio di Tupac fino ad oggi. Secondo DiGiacomo è stato Davis ad avere l’idea di vendicarsi dopo la rissa. Il giudice ha negato la cauzione all’arrestato. “Si dice spesso che la giustizia ritardata è giustizia negata – ha detto all’Associated Press il pm Steve Wolfson -. In questo caso, la giustizia è stata ritardata, ma non verrà negata”.

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