Profeti. Un film scabro, rigoroso, enumerativo più che descrittivo. Un’opera di registrazione piuttosto che di esplorazione, che conferma la cifra narrativa e stilistica di Alessio Cremonini, regista di Border –dove si parla di confini e linee di attraversamento- e di Sulla mia pelle, che narra la vicenda di Stefano Cucchi. Una fiction documentaria, si potrebbe dire, con immagini impressive, dialoghi stringati, sequenze che si avventurano nell’impossibile missione di ricostruire la frantumata architettura di una storia senza destino.
La giornalista italiana Sara è a Kobane, per un servizio sulla guerra dell’ISIS contro Siria e Iraq, i potentati che disegnano in Medio Oriente quei paesaggi della blasfemia che il Califfato vuole distruggere. Parla con i curdi, ne raccoglie le ragioni: rivendicazioni taglienti e fiere per i combattenti che le enunciano, mentre muoiono lottando contro i jihadisti; atti d’accusa nei confronti di un Occidente che si è servito di loro nella sua global war on terror, abbandonandoli poi a un destino di sterminio, perpetrato da ultimo anche per mano turca. Sulla via del ritorno, Sara è fatta prigioniera dai jihadisti e viene condotta in un campo di addestramento dove è affidata a Nur, una giovane siriana, emigrata a Londra e lì educata secondo i valori dell’Occidente. E tuttavia, sedotta dalle rigorose pratiche interpretative del Corano, diventa una combattente dell’ISIS e va in sposa al mujaheddin Abdullah, da cui attende un bambino.
Nel suo rapporto con Nur, Sara entra gradualmente nella vertigine della “regola islamica” declinata dal Califfato. Una regola che se da un lato le fa scoprire la potenza delle certezze a petto dei suoi dubbi di donna senza Dio, senza marito e senza figli, dall’altro lato la mette di fronte alla sua doppia fragilità: intrinseca oltre che oggettiva e contingente, di prigioniera priva di autonomia. Proprio questo progressivo sprofondamento nella sua debolezza, la porta infine ad accettare la sottile e tenace suggestione di Nur, incaricata dallo shaykh, il capo, esattamente di questa missione: la conversione di Sara all’Islam.
La shahada, la professione di fede, è un atto tanto solenne per i mujaheddin, quanto drammatico per Sara, che lo compie attraverso un intimo, sconvolgente travaglio di accettazione di una religione che consente indicibili atti di orrore, come il rogo di Faisal, il suo cameramen musulmano fatto prigioniero con lei. E diventa, la conversione, atto di orrore essa stessa quando Sara scopre che il suo gesto non conduce a una liberazione, bensì ad una prosecuzione della propria “sottomissione” ad Allah (questo è il significato della parola Islam), diventando a sua volta la sposa di un mujaheddin. Sara intuisce così che la sua vita si profila ormai come una “normalità” non già configurata dalla libera scelta, ma dall’imposizione gerarchizzata, nel segno di una legge che gli uomini (i maschi, intendo) fanno valere in nome e per conto del Dio che essi ricavano dalle loro interpretazioni più o meno letteralistiche del Libro sacro. La vicenda si chiude in modo rapido e brutale, con l’arrivo dell’esercito regolare siriano. E mentre Nur muore sotto le bombe, Sara viene liberata e proiettata in una storia che tocca a ciascuno di noi immaginare.
Jasmine Trinca e Isabella Nfar, Sara e Nur, interpretano con empatia e profonda convinzione il ruolo di due donne che esprimono mondi irriducibili l’uno all’altro. Una fotografia essenziale, un accompagnamento musicale mimetico. Ardito e seducente il tentativo del regista di restare neutro di fronte a questo “scontro di civiltà”, suggerendoci forse che non di “civiltà” si tratta davvero, ma di “circostanze” che sopravvengono nei territori oscuri di una ragione smarrita.