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Cronache

“Premure per un presunto boss dei Casalesi” sospesa la direttrice del carcere di Taranto Stefania Baldassari

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È accusata di avere avuto una “singolare premura” nei confronti di un boss del clan dei casalesi detenuto nella struttura da lei diretta. Stefania Baldassari, funzionario dello Stato, è stata sospesa dall’incarico di direttrice del carcere di Taranto sulla base di un’informativa della Direzione distrettuale antimafia di Lecce. In questa informativa della Dda di Lecce si parla di “condotte irregolari nell’interesse di un detenuto presente nello stesso istituto penitenziario”. Condotte irregolari vuol dire tutto e nulla. Ma è stato abbastanza perchè il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) sospendesse òa direttrice Baldassari.  Il detenuto in questione è Michele Cicala. Fu arrestato il 12 aprile scorso per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata alla commissione di frodi in materia di accise e Iva negli oli minerali, intestazione fittizia di beni e società e autoriciclaggio, impiego di denaro di provenienza illecita. I proventi delle attività illecite erano reinvestiti da Cicala in attività commerciali diversificate. Tra queste una serie di bar. E proprio in uno di questi, il Primus Bar in pieno centro a Taranto, si sono svolti i fatti che vedono coinvolta la direttrice del carcere, riportati in una serie di intercettazioni telefoniche tra il detenuto e sua moglie. La donna racconta che la direttrice s’è trovata due volte in quel bar e, rispondendo alla domanda di una lavoratrice che l’aveva riconosciuta, l’avrebbe rassicurata sulle condizioni di vita di Cicala dentro il carcere. Alla richiesta di portare i saluti al detenuto, Baldassari rispose che “una direttrice non si occupa di questo” e suggerì che sarebbe stato meglio scrivergli “così sta meglio”. Insomma, consigliava un po’ di conforto epistolare. La Guardia di Finanza, che ha condotto l’indagine su incarico della Dda di Lecce, scrive che “sebbene il bar Primus si trovi lungo uno dei possibili percorsi che la direttrice può percorrere per raggiungere la propria abitazione, considerate le circostanze non si comprendono le ragioni per le quali dovesse necessariamente fermarsi presso il predetto locale fornendo rassicurazioni sull’umore del Cicala”.

Dino Petralia. Capo del Dap

Sulla base di queste rilevazioni è scattata la sospensione da parte del capo del Dap del ministero della Giustizia. Bernardo Petralia, il capo del Dap, scrive che “nell’assolvimento del proprio ruolo istituzionale, la dottoressa Baldassari, in qualità di direttore avrebbe dovuto astenersi da indebite frequentazioni, con evidente offesa alla dignità delle pubbliche funzioni”. Baldassari, che nel 2017 aveva perso per 958 voti il ballottaggio per diventare sindaca di Taranto, sostenuta dal centrodestra, è rimasta “sorpresa” e impugnerà il provvedimento. Ha anche scritto un messaggio sulla sua bacheca Facebook dicendosi “serena”. Contattata al telefono, ha aggiunto: “Riuscirò a provare la mia estraneità. Sono stata sospesa in via cautelativa semplicemente per aver detto che si poteva esprimere vicinanza ad un soggetto in custodia cautelare scrivendo lettere. Continuerò a servire lo Stato con lealtà e dedizione”. Insomma sospendere un funzionario dello Stato dalle sue funzioni delicate per aver detto uno sciocchezza alla moglie di un detenuto è una misura molto rigorosa. Chissà se reggerà ad un controllo di legittimità. Anche perchè sembra davvero troppo quel che è accaduto visto che nei confronti della signora Baldassarri non vi è, per quel che si sa, alcun provvedimento giudiziario. Dunque….

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Sangue infetto, la famiglia di un militare napoletano morto nel 2005 sarà risarcita con un milione di euro

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Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento per i familiari di un militare napoletano, deceduto nel 2005 a seguito di complicazioni derivanti da una trasfusione di sangue infetto. La sentenza storica condanna l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina, stabilendo un risarcimento di oltre un milione di euro ai familiari del defunto.

Il militare, trasferitosi da Napoli a Sicilia per lavoro, subì un grave incidente durante il servizio che necessitò un intervento chirurgico d’urgenza e la trasfusione di quattro sacche di sangue. Anni dopo l’intervento, si scoprì che il sangue trasfuso era infetto dall’epatite C, portando alla morte del militare per cirrosi epatica. La complicazione si manifestò vent’anni dopo la trasfusione, rendendo il caso particolarmente complesso a livello legale.

In primo e secondo grado, i tribunali di Palermo e la Corte d’Appello avevano respinto le richieste di risarcimento della famiglia, giudicando prescritto il diritto al risarcimento. Tuttavia, la decisione della Corte di Cassazione ha ribaltato questi verdetti, affermando che la prescrizione del diritto al risarcimento non decorre dal momento del fatto lesivo ma dal momento in cui si manifesta la patologia collegata al fatto illecito.

Questa sentenza non solo porta giustizia alla vittima e ai suoi cari ma stabilisce anche un importante precedente per la tutela dei diritti dei pazienti e la responsabilizzazione delle strutture sanitarie. Gli avvocati della famiglia hanno sottolineato l’importanza della decisione, che apre nuove prospettive nel campo della giustizia sanitaria e sottolinea l’obbligo delle strutture ospedaliere di rispettare protocolli medici dettagliati, anche in situazioni di urgenza.

Il caso di Antonio (nome di fantasia) sottolinea la necessità di garantire la sicurezza nelle procedure mediche e di monitorare con rigore le condizioni di sicurezza del sangue donato, indipendentemente dalle circostanze. La sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore giustizia e sicurezza nel sistema sanitario italiano, ribadendo che nessuna circostanza può esimere dal rispetto delle norme di sicurezza e prudenza necessarie per proteggere la salute dei pazienti.

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Addio a Italo Ormanni, magistrato e gentiluomo napoletano

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Italo Ormanni, magistrato, è scomparso all’età di 88 anni. Dopo una vita dedicata alla giustizia e alla lotta contro la criminalità organizzata, Ormanni ci lascia ricordi indelebili di un uomo che ha saputo coniugare serietà professionale e un vivace senso dell’umorismo. È deceduto ieri a Roma, nella clinica Quisisana, dove era ricoverato e aveva subito un’angioplastica.

La carriera di Ormanni, iniziata nella magistratura nel 1961, è stata lunga e fruttuosa, con servizio attivo fino al 2010. Tra i casi più noti che ha seguito, ci sono stati quelli che hanno toccato i vertici della camorra a Napoli, sua città natale, e importanti inchieste su eventi di cronaca nazionale, come il rapimento di Emanuela Orlandi e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Anche nel suo ruolo di procuratore aggiunto a Roma, Ormanni ha gestito casi di grande risonanza, contribuendo significativamente alla sicurezza e alla giustizia in Italia.

Oltre al suo impegno nel campo giudiziario, Ormanni ha avuto anche una breve ma memorabile carriera televisiva come giudice-arbitro nella trasmissione “Forum”, dove ha lasciato il segno con la sua capacità di gestire le controversie con saggezza e empatia.

Amante delle arti e della cultura, Ormanni ha sempre cercato di bilanciare la durezza del suo lavoro con le sue passioni personali, dimostrando che dietro la toga c’era un uomo completo e poliedrico. I suoi funerali si terranno a Roma, nel primo pomeriggio di lunedì, dove amici, familiari e colleghi avranno l’occasione di rendere omaggio a una delle figure più influenti e rispettate del panorama giudiziario italiano.

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Falso terapista accusato di stupro, vittima minorenne

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Accoglieva le sue pazienti all’interno di un finto studio allestito in una palestra di Fondi e, una volta solo con loro nelle stanze della struttura, le molestava nel corso di presunti trattamenti di fisioterapia, crioterapia e pressoterapia, facendo leva sulle loro fragilità psicologiche e fisiche affinché non raccontassero nulla. Dolori e piccoli problemi fisici che spingevano ciascuna delle vittime, tra cui anche una minorenne, a recarsi da lui per sottoporsi alle sedute, completamente all’oscuro del fatto che l’uomo non possedesse alcun titolo di studio professionale, né tanto meno la prevista abilitazione, e che non fosse neanche iscritto all’albo. È finito agli arresti domiciliari il finto fisioterapista trentenne di Fondi, per il quale è scattato anche il braccialetto elettronico, accusato di aver commesso atti di violenza sessuale su diverse donne, tra cui una ragazza di neanche 18 anni, e di aver esercitato abusivamente la professione.

Un’ordinanza, quella emessa dal giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Latina ed eseguita nella giornata di oggi dagli agenti del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, arrivata al termine di un’indagine di polizia giudiziaria svolta su delega della Procura di Latina. Durata all’incirca un anno, quest’ultima ha permesso di svelare, attraverso le indagini condotte anche con accertamenti tecnici, acquisizioni di dichiarazioni ed esami documentali, i numerosi atti di violenza da parte dell’uomo nei confronti delle pazienti del finto studio da lui gestito. Tutto accadeva all’interno di un'”Associazione sportiva dilettantistica” adibita a palestra nella città di Fondi, nel sud della provincia di Latina: quella che il trentenne spacciava per il suo studio, sequestrata in queste ore dalle fiamme gialle quale soggetto giuridico formale nella cui veste è stata esercitata l’attività professionale, in assenza dei prescritti titoli di studio, della prevista abilitazione e della necessaria iscrizione all’albo, nonché dei locali, attrezzature e impianti utilizzati. Un’altra storia di abusi a Lodi.

Vittima una ragazza siriana di 17 anni arrivata in Italia per sfuggire alla guerra e al sisma del 2023: finita nelle mani dei trafficanti è stata sottoposta a violenze e maltrattamenti e poi abbandonata. La Polizia, coordinata dalla Procura di Lodi e dalla Procura presso la Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha arrestato i due aguzzini.

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