Valeria Pirone è la preside dell’istituto Vittorino da Feltre nel rione Villa di San Giovanni a Teduccio, nella periferia orientale della città. Una zona tormentata dalla violenza camorristica. Poco meno di un mese l’ultima stesa: un uomo incominciò a sparare colpi d’arma da fuoco a pochissimi passi dalla scuola mentre i bambini giocavano in cortile. La preside Pirone ci spiega che chi sceglie di insegnare in territori di periferia abbraccia una vera e propria missione, in un deserto culturale a cui contribuisce anche l’abbandono totale da parte delle istituzioni. Quello della preside è anche un forte atto d’accusa: “siamo soli, abbandonati al nostro destino. Proviamo a salvare il futuro di questi ragazzi ma chi amministra la città per noi non ha fatto niente”.
Preside, i ragazzi stanno frequentando la scuola dopo il Covid, come li ha ritrovati dopo un anno così difficile per loro?
È stato un anno difficilissimo, per loro vivere la scuola è uno sfogo, un rifugio, una speranza. In zone di frontiera la scuola rappresenta un presidio fondamentale. Quelli che sono rientrati – e sono tanti – sono felicissimi di essere a scuola. Le classi sono ancora piene; fino ad un paio di anni fa noi vivevamo in questo periodo il fenomeno dell’abbandono precoce nelle ultime settimane: di questi tempi c’era la voglia di uscire, di andare al mare. Invece sono tutti in classe e sono contenti di venire. Stiamo mettendo in campo qualche attività ludica per il mese di giugno, per tenerli impegnati.
Passiamo alla nota dolente, la difficoltà dell’altro Stato, quello che dovrebbe presidiare il territorio, a garantire sicurezza.
La nostra è una missione: siamo assolutamente soli. Viviamo una condizione di totale abbandono. Abbiamo una scuola che proviamo a portare avanti, però c’è solo quello, al di fuori non c’è nulla. C’è un quartiere degradato, abbandonato. Verde che non viene curato, rifiuti di ogni tipo, assenza totale delle forze dell’ordine. Il commissariato a livello locale funziona bene, ma sono pochissime unità, io li conosco tutti. È un numero insufficiente per coprire un’area così vasta come quella di Ponticelli, San Giovanni e Barra. Non c’è polizia municipale, i miei bambini una divisa della municipale non l’hanno mai vista. Non esistono centri di aggregazione. I miei alunni escono di scuola e non hanno assolutamente nulla; lo trovo vergognoso ed ingiusto.
Nelle sue parole c’è una grande forza; questa forza resta intatta anche se non cambia mai nulla o a volte vacilla?
Le mie convinzioni a volte vacillano, è inutile negarlo. Soprattutto quando accadono episodi come quello del 28 aprile. Quando si spara a mezzogiorno impunemente fuori da uno scuola è quasi una sfida alle istituzioni, vuol dire che si è passato il limite e la città è allo sbando. Nel 2019 un uomo venne addirittura ucciso fuori scuola, stiamo parlando di cose allucinanti.
Perché lo Stato non stanzia più risorse per un’area così vasta e problematica?
È quello che mi chiedo anche io. Si parla tanto di Napoli Est; c’è la volontà di risollevare questa periferia? La risposta purtroppo è negativa se negli anni non si vede una sola azione concreta. Se chiedessi a chi amministra la città che cosa è stato fatto per risollevare questa periferia, ci sarebbe il silenzio, non è stato fatto nulla.
Dopo i recenti episodi ha ricevuto un po’ di visite di vicinanza da parte delle istituzioni.
No, ormai ci si è così abituati ad azioni del genere che dopo la sparatoria non c’è stata tutta questa vicinanza. Ho ricevuto la visita di Catello Maresca ed è stata una visita molto gradita. Abbiamo avuto una chiacchierata informale che mi ha fatto molto bene, avere la possibilità di sfogarsi con chi questi fenomeni li comprende, serve a riprendersi le proprie convinzioni che a volte, come le dicevo, vacillano. Ho apprezzato molto quel gesto perché spontaneo. Io guardo ai fatti e i fatti dicono che in un momento di enorme solitudine ed abbandono, c’è stato un magistrato che è venuto, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto cose che in quel momento avevo bisogno di sentirmi dire.
Come leggono i ragazzi questi episodi?
Alcuni anni fa, proprio il giorno prima dell’omicidio fuori scuola, realizzammo un video nell’ambito di un progetto col Mibact e il Miur, a cura di Antonella Di Nocera. Erano delle interviste ai nostri alunni. L’ho rivisto di recente e sono stata molto male. Immaginavo che da parte degli alunni ci fosse rassegnazione, invece è emersa anche tanta paura. Alla domanda “che cosa c’è che non va nel quartiere?”, rispondevano “che all’improvviso si spara”. Una bambina disse che avremmo dovuto studiare gli altri pianeti, perché questo mondo non fa per noi. Sentire certe cose dalla bocca di bambini di undici anni mi ha fatto male. Noi abbiamo la responsabilità di tutto il dolore di questi ragazzini, che non sempre manifestano ma è presente. È un’infanzia negata.
Che cosa sognano questi ragazzi?
Qualcuno ancora sogna, qualcun altro purtroppo sembra già una persona adulta e ti risponde che di sogni non ce ne sono più. È una cosa gravissima. Noi ci proviamo a fargli vedere la bellezza, ma è chiaro che le nostre esortazioni poi si scontrano col degrado che è sotto gli occhi di tutti. E allora siamo molto poco credibili.
Se potesse rivolgere un appello ad una persona specifica delle istituzioni, a chi parlerebbe?
Io devo per forza rivolgermi al primo cittadino. Le racconto un episodio. Durante una trasmissione televisiva su Rai 3, è stata invitata una persona vicina all’amministrazione. Quando io lamentavo tutte le mancanze del quartiere, questa persona – plurilaureata – mi chiese: “Ma com’è possibile, chi è il sindaco di San Giovanni a Teduccio?”. Non sapeva che fosse lo stesso del resto della città. Questo per farle capire quanto siamo dimenticati, non vedo segnali di ripresa. Mi accontenterei di una sola azione, ma non c’è stata.
Nei giorni scorsi una retata delle forze dell’ordine ha condotto all’arresto di 37 persone, che impatto hanno episodi del genere sulla vita della scuola?
Hanno un grande impatto. Di quelle 37 persone una buona percentuale è costituita da genitori della mia scuola, tra il Bronx e il rione Villa. Negli ultimi quattro giorni ci sono bambini assenti e ci sono mamme ragazzine completamente distrutte. Sono stata molto divisa: se da un lato faccio un plauso all’attività investigativa che ha portato ad un risultato così sorprendente, dall’altra non posso non pensare che ci sono delle donne impreparate a gestire da sole questi bambini e che manca il sostegno delle istituzioni. Sono molto preoccupata, saranno a loro volta prede facili della malavita, perché in qualche modo devono andare avanti. Ho qualche bambino che avrà un trauma forte perché alle quattro del mattino s’è visto portare via il genitore e ha capito che cosa stava succedendo.
Queste sono le ultime immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza della Stazione Centrale di Milano in possesso della Procura della Repubblica di Lecco diffuse dai Carabinieri che ritraggono Edoardo Galli mentre cammina sul binario dove è giunto il treno proveniente da Morbegno e mentre transita in uscita dai tornelli di sicurezza lo scorso 21 marzo.
Dopo questi istanti – spiega la nota della Procura- non ci sono, al momento, ulteriori riprese che lo ritraggono dialogare o in compagnia di altre persone ovvero nei pressi di esercizi commerciali.
Le donne ‘camici bianchi’ della Sanità italiana ancora oggi sono spesso davanti ad un bivio, quello di dover scegliere tra famiglia e carriera. Accade soprattutto al Sud e la ragione sta essenzialmente nella mancanza di servizi a sostegno delle donne lavoratrici. A partire dalla disponibilità di asili aziendali: se ne contano solo 12 nel Meridione contro i 208 del Nord. E’ la realtà che emerge da un’indagine elaborata dal Gruppo Donne del sindacato della dirigenza medica e sanitaria Anaao-Assomed, coordinato dalla dottoressa Marlene Giugliano. “Al Sud le donne che lavorano nel Servizio sanitario nazionale devono scegliere tra famiglia e carriera e per le famiglie dei camici bianchi non c’è quasi nessun aiuto. Una situazione inaccettabile alla quale occorre porre rimedio”, denuncia il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Campania Bruno Zuccarelli.
Nelle strutture sanitarie italiane, afferma, “abbiamo 220 asili aziendali, di cui 208 sono al Nord (23 solo in Lombardia). In Campania gli asili nido su 16 aziende ospedaliere sono solo 2: Cardarelli e Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. Il Moscati di Avellino aveva un asilo nido che è stato chiuso con la pandemia e ad oggi il baby parking dell’Azienda Ospedaliera dei Colli è chiuso. Una condizione vergognosa e desolante”. Ma i dati raccolti dal sindacato dicono anche altro: se si guarda al personale del servizio sanitario nazionale, il 68% è costituito da donne, quasi 7 operatori su 10, con un forte sbilanciamento verso il Nord dove le donne sono il 76%, mentre al Sud solo il 50%. Un divario tra Nord e Sud, quello della sanità, che “si lega alle condizioni di difficoltà che le donne devono affrontare – aggiunge Giugliano – del resto in Campania il costo medio della retta mensile di un asilo è di 300 euro, con cifre che in alcuni casi arrivano anche a 600 euro.
E nella nostra regione c’è un posto in asili nido solo ogni 10 bambini”. Per questo le donne campane dell’Anaao chiedono di essere ascoltate dalle Istituzioni regionali, così come dalle Aziende ospedaliere e Sanitarie. Tre i punti chiave sui quali intervenire, sottolineano: “creazione di asili nido aziendali che rappresentano una forma di attenzione per le esigenze dei propri dipendenti e consentono una migliore conciliazione dei tempi casa-lavoro; sostituzione dei dirigenti in astensione obbligatoria per maternità o paternità e applicazione delle norme già esistenti, come flessibilità oraria; nomina, costituzione e funzionamento dei Comitati unici di garanzia”. Sono organismi che “prevedono compiti propositivi, consultivi e di verifica in materia di pari opportunità e di benessere organizzativo per contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, agevolando l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni e favorendo l’affezione al lavoro, garantendo un ambiente lavorativo nel quale sia contrastata qualsiasi forma di discriminazione”, spiega Giugliano. In regioni come la Campania, “questi organismi hanno solo un ruolo formale, cosa – conclude l’esponente sindacale – che non siamo più disposte ad accettare”.
È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dall’ordinamento giudiziario dei magistrati finiti in vicende penali culminate con la condanna, a loro carico, a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Consulta – esaminando il caso di un giudice coinvolto in aspetti ‘secondari’ del cosiddetto ‘sistema Saguto’ – che ha accolto una questione sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione alle quali si è rivolto l’ex giudice Fabio Licata.
L’ex magistrato è stato condannato in via definitiva alla pena non sospesa pari a due anni e quattro mesi per falso materiale per aver apposto la firma falsa della presidente del collegio, Silvana Saguto, con il consenso di quest’ultima, ed è stato rimosso dalla magistratura. Per effetto della decisione della Consulta, il Csm “potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare” a Licata, compresa ancora l’opzione della rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”. Saguto, anche lei radiata dalla magistratura, e ora reclusa a Rebibbia, è stata condannata in via definitiva a 7 anni e dieci mesi di reclusione per aver gestito in modo clientelare le nomine degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, ottenendo in cambio anche denaro.
La Corte costituzionale – con la sentenza n. 51 depositata – ha ricordato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete. La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il Csm di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, il giudice penale – rileva la Consulta – aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa, senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata”.