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Piera Aiello, deputata e testimone di giustizia: la mafia ha cambiato pelle, le attività di contrasto sono ferme al palo

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Piera Aiello, cognata di Rita Atria. Testimone di giustizia tra le più combattive. Per anni non ha potuto mostrare la sua faccia. Oggi è una parlamentare del M5S ed è anche componente della Commissione Bicamerale d’inchiesta antimafia.

Piera Aiello. Nella foto con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede

Piera ti faccio subito una domanda su Rita Adria, come la ricordi?

Rita era una guerriera, sapeva che stava intraprendendo una strada non facile, ma fino a quando avrebbe camminato al fianco di Paolo Borsellino si sentiva sicura. La morte di zio Paolo, così lo chiamavamo, ci ha devastate, lei non ha retto, ma ci lascia tanti scritti, lei piccola ma grande donna, un esempio da seguire che è entrata nei cuori di tanti giovani.

Per il tuo impegno da combattente contro la mafia, che rapporto hai con la paura?

Se dico di non avere paura mentirei, ma la cosa che mi devasta e mi fa paura, sono la cattiveria, l’invidia, i rancori che trovo nel mio pellegrinaggio che ormai dura da circa trent’anni. La paura è un sentimento che si nutre di incertezze, chi decide come me di intraprendere un cammino tortuoso, lo deve fare con decisione e tenacia in barba agli ostacoli, superandoli senza timori, così la paura non si può impadronire del nostro essere.

Antimafia. Piera Aiello assieme al giornalista di Tv200 sotto scorta Paolo Borrometi

Mi dai una definizione di mascariamento, termine usato in Sicilia ma non solo?

Caro Salvatore se mi chiedevi di spiegartelo un paio di anni fa, ti avrei detto che è un’usanza che non mi apparteneva, ma da quando ho deciso di candidarmi e sono stata eletta, ti dico che in tanti, giornalisti, presidenti di fantomatiche associazioni Antiracket delle quali non avevo mai sentito parlare, testimoni che magari ho aiutato e hanno volontariamente dimenticato, perché hanno trovato lidi più proficui, alcuni collaboratori che a mio dire non avrebbero neanche motivo di parlare, me ne stanno dicendo di ogni! Questo è mascariameto, queste persone fanno parte di quel sistema che nulla deve cambiare, quel sistema che schiaccia chi si batte per i diritti di testimoni, collaboratori, imprenditori, continuano a parlare, insultare, denigrare. Ma sai una cosa?

Che cosa?

Fino a quando continuano a puntare il dito, fino a quando continueranno ad insultarmi, saprò di stare sulla strada giusta, non mi fermeranno. Ch’io sia o meno una deputata andrò avanti, lo facevo prima lo farò in futuro. Tra poco si discuterà il commissione Giustizia la legge sui testimoni e collaboratori, ho depositato un’altra legge per aiutare gli imprenditori che hanno subito prima il racket poi l’usura bancaria. Quello che conta è quello che si fa, non quello che si dice di voler fare riempendosi spesso la bocca di sciocchezze. Nella vita si chiedono i fatti e ben poche persone mi hanno affiancata in questa lotta. La domanda che mi pongo è “queste persone fino ad oggi dove erano?”.

Hai conosciuto Antonino Caponnetto con il quale, se ricordo bene, avevi anche un ottimo rapporto. Come lo ricordi?

Nonno Nino, così lo chiamavo, come tanti del resto, mi ha insegnato tanto. Quando ci incontravamo era una festa. Ricordo il giorno del suo cinquantesimo anniversario di nozze, si trovava a casa mia a Partanna, il pomeriggio ha voluto riposare nel mio lettino, quello da scapola, poi mi ha chiamata e mi ha detto “ lo sai che in quel letto si dorme proprio bene? Ritornerò presto”. Molti lo ricordano per il suo ruolo, io perché era il nonno di tutti!

E per concludere una domandona da 100 milioni: che strategie oggi bisogna attuare contro la mafia?

La principale strategia è sempre la stessa, non abbassare la guardia, mai. Ho sentito dire in un’intervista da Mentana, che in Sicilia ormai la mafia ha perso terreno, che non ha la stessa forza di una volta. Ebbene nulla di più sbagliato: la mafia ha cambiato volto, va al passo con i tempi, invece il contrasto è rimasto fermo al palo. Quando parli di mafia l’impressione che ho è di dare quasi fastidio, specialmente alle persone della mia età. I giovani invece sono presenti, attivi, ti chiedono cosa possono fare, ma ricordiamoci che la scuola può fare tanto. Ricordiamoci che le famiglie devono fare di più, non sottovalutare il problema. Questo è avvenuto anni fa nel nord Italia e adesso sono pieni di Ndrangheta, Camorra e Mafia. Alcuni imprenditori con le aziende in crisi hanno aperto le porte pensando di salvarle e invece hanno perso tutto rendendosi complici, pensavano che era un problema del sud, ma così non era e non è. Molti si trovano nella morsa della malavita, per aver ignorato il problema, per averlo sottovalutato. Le mafie oggi sono subdole, hanno lasciato coppola e lupara e hanno giacca, cravatta, pantaloni di vigogna e imbracciano il portatile.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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