Collegati con noi

Esteri

Parte la sfida del dopo Theresa May, Jeremy Hunt si candida come anti Boris Johnson

Pubblicato

del

Leader Tory e primo ministro cercasi per un Regno che inizia ad arrancare. Sono dieci i pretendenti ammessi oggi ai nastri di partenza nella corsa per la successione a Downing Street della dimissionaria Theresa May: con una lepre, il popolare quanto controverso ex ministro degli Esteri Boris Johnson, e 9 inseguitori fra i quali prova a prendere il largo il suo meno carismatico, ma assai piu’ prudente successore al Foreign Office, Jeremy Hunt (nella foto in evidenza). La lista dei partecipanti ora e’ ufficiale. Il Comitato 1922, organismo di base del gruppo conservatore alla Camera dei Comuni e arbitro delle contese per la leadership, ha validato le candidature degli aspiranti sostenuti in partenza da almeno 8 deputati. Tutti pronti ora ad affrontare le votazioni dei colleghi parlamentari a eliminazione successiva destinate a scattare giovedi’ 13 per poi proseguire dal 18 al 22 prima di arrivare all’ultimo atto: il ballottaggio fra i 2 superstiti piu’ suffragati affidato al voto postale dei 160.000 iscritti duri e puri del partito, con l’annuncio del vincitore (o vincitrice) previsto nel giro d’un mese per la settimana del 22 luglio. Johnson, che pare godere gia’ dell’appoggio di oltre una cinquantina di onorevoli a Westminster, resta l’uomo da battere; ma alle sue spalle non mollano la presa ne’ Hunt, ne’ Michael Gove, al momento gli sfidanti di maggior peso. E qualche speranza continuano a coltivarla pure Sajid Javid, il figlio d’immigrati pachistani divenuto ministro dell’Interno, i falchi brexiteer Dominic Raab e Andrea Leadsom, e Rory Stewart, il piu’ combattivo di cio’ che resta del nucleo moderato di casa Tory.

La strategia degli inseguitori e’ una sola, al di la’ delle loro differenze. Prendere di mira Boris e i suoi colpi di testa: dalla minaccia d’una Brexit no deal, alternata alla pretesa di poter imporre a Bruxelles un accordo di divorzio “migliore” pena la violazione dell’impegno sottoscritto dal governo May di pagare 39 miliardi di conto di divorzio; fino alla promessa iper liberista d’un taglio lineare delle tasse allargato ai redditi dei sudditi benestanti di Sua Maesta’ (costo, 10 miliardi). “Bluff e fanfaronate”, lo attacca Raab dalla sua stessa parrocchia dei brexiteer. Stravaganze e atti “di fede” non adatti a un Paese a cui ora serve “un leader serio”, rincarano all’unisono Gove e Hunt, i due che sperano davvero di bruciarlo. Ministri di lungo corso, questi si presentano entrambi come sostenitori pragmatici della Brexit. Il dottor sottile Gove – azzoppato peraltro dallo scandalo sull’ammissione dell’abuso di cocaina 20 anni fa – spiega d’essere pronto anche a un breve rinvio ulteriore dell’uscita dall’Ue, oltre il 31 ottobre, se un buon accordo fosse in vista. E avverte che un no deal affrettato, come quello sbandierato dal suo ex amico Boris, significherebbe con ogni probabilita’ crisi della maggioranza, elezioni anticipate e passaggio di consegne al governo al Labour di Jeremy Corbyn.  Mentre Hunt prova giocare la carta del garante della stabilita’, della tradizione e degli equilibri interni, dopo essere riuscito nelle ultime ore a incassare il sostegno trasversale di pezzi da 90 del partito: da un lato la ministra Amber Rudd, figura chiave di One Nation, corrente centrista cui aderisce un centinaio degli oltre 300 deputati Tory che Johnson aveva a lungo corteggiato; dall’altro colleghi di governo euroscettici a tutta prova quali Liam Fox o Penny Mordaunt. Il tutto sullo sfondo di un’economia che mostra scricchiolii sempre piu’ allarmanti causati dalle incertezze sulla Brexit, oltre che dagli scenari internazionali. Con un Pil che ad aprile cala dello 0,4% (e nel trimestre cresce d’appena lo 0,3). Ma soprattutto una produzione manifatturiera – trainata al ribasso addirittura dal -24% di un settore auto in preda allo stallo e al gelo degli investimenti – che lascia sul terreno 3,9 punti percentuali: il peggior arretramento da 17 anni.

Advertisement

Esteri

Londra accusa la Cina: troppe spie con gli occhi a mandorle nel Regno Unito

L’MI5 lancia un’allerta su possibili reclutamenti di talpe cinesi nel Parlamento britannico tramite profili LinkedIn falsi. Il governo Starmer denuncia interferenze ostili e annuncia nuovi investimenti per la sicurezza.

Pubblicato

del

I servizi segreti interni dell’MI5 hanno diffuso un’allerta rivolta ai presidenti della Camera dei Lord e della Camera dei Comuni, segnalando “rischi significativi” di interferenze straniere nel cuore delle istituzioni britanniche. La preoccupazione riguarda due profili LinkedIn ritenuti riconducibili al ministero della Sicurezza di Stato cinese e utilizzati per tentativi di reclutamento di informatori dentro Westminster.

I profili sospetti e il metodo di contatto

Nel mirino degli investigatori ci sono due presunti account falsi, attribuiti a “Amanda Qiu” e “Shirly Shen”. Entrambe le identità si presentano come esperte di ricerca del personale ma, secondo l’MI5, avrebbero contattato funzionari e dipendenti parlamentari con l’obiettivo di ottenere informazioni riservate. Si tratta di un metodo già noto, poiché altre operazioni analoghe sono state più volte denunciate negli ultimi anni.

La reazione immediata del governo Starmer

Il governo laburista ha reagito con estrema durezza. Davanti ai Comuni, il viceministro dell’Interno Dan Jarvis ha definito la vicenda “un tentativo segreto e calcolato di interferenza da parte di una potenza straniera”, ribadendo che simili attività “non saranno tollerate”. Londra ha annunciato un investimento da 170 milioni di sterline in tecnologie avanzate per proteggere le comunicazioni sensibili.

I rapporti con Pechino e il caso dei colloqui bilaterali

Il governo britannico ha inoltre reso noto che la ministra degli Esteri Yvette Cooper ha affrontato la questione con il suo omologo cinese il 6 novembre, sottolineando che il Regno Unito non accetterà alcuna azione volta a minacciare la propria sicurezza nazionale. La Cina ha negato ogni accusa, definendola “priva di fondamento”.

Timori nel ministero della Difesa e precedenti sospetti

Il clima è aggravato anche dai sospetti di possibili intercettazioni, che avrebbero spinto il ministero della Difesa a invitare il personale a non discutere informazioni sensibili sui veicoli di servizio. L’indicazione è arrivata a seguito del ritrovamento, nel 2023, di un dispositivo di tracciamento di provenienza cinese su un’auto governativa utilizzata dall’allora premier Rishi Sunak.

Il caso dei due ricercatori britannici e le tensioni giudiziarie

Resta viva anche la polemica sul caso dei ricercatori Christopher Cash e Christopher Berry, indagati per sospetto spionaggio a favore della Cina. L’inchiesta era stata archiviata prima del processo, ma la Procura della Corona ha poi contestato al governo di non aver classificato formalmente la Cina come minaccia nazionale, limitando così il perimetro investigativo.

La questione aperta della nuova ambasciata cinese

In questo clima cresce l’incertezza sulla decisione relativa alla nuova ambasciata cinese a Londra, destinata a diventare la più grande rappresentanza diplomatica del Dragone in Europa. Il dossier, già sensibile, diventa ora ancora più complesso alla luce dell’allerta lanciata dall’MI5 e delle tensioni politiche tra Regno Unito e Cina.

Continua a leggere

Esteri

Gaza, il Consiglio di Sicurezza approva il piano di pace di Trump: via libera alla forza internazionale di stabilizzazione

Con 13 voti a favore e l’astensione di Russia e Cina, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva la risoluzione Usa sul piano di pace di Trump e sulla forza internazionale incaricata di smilitarizzare Gaza.

Pubblicato

del

Fumata bianca al Palazzo di Vetro: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu (foto Imagoeconomica) ha approvato la risoluzione statunitense che sostiene il piano di pace di Donald Trump per Gaza e autorizza una forza internazionale di stabilizzazione incaricata anche del disarmo di Hamas. Il voto è passato con 13 sì e due astensioni, quelle di Cina e Russia.

La soddisfazione di Washington

L’ambasciatore americano Mike Waltz ha definito la risoluzione “storica”, sottolineando che sotto la presidenza Trump gli Stati Uniti intendono “continuare a portare risultati” insieme ai partner internazionali. L’approvazione del documento apre la fase due del piano: dopo tregua, scambio dei prigionieri e parziale ritiro dell’Idf dalla Striscia, parte il percorso politico e di sicurezza.

Le trattative e il nodo Mosca-Pechino

Il voto era incerto fino all’ultimo: Russia e Cina avevano criticato la bozza statunitense e presentato un testo alternativo che non prevedeva la smilitarizzazione di Gaza né il ruolo del Board of Peace, presieduto da Trump. La rinegoziazione del documento, unita al sostegno arrivato da numerosi Paesi arabo-musulmani e dall’Autorità Palestinese, ha reso difficile per Mosca e Pechino opporsi apertamente.

I contenuti della risoluzione

Il testo approvato stabilisce che gli Stati membri possono partecipare al Board of Peace fino al 31 dicembre 2027 e sostiene che potrebbero esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione palestinese, a condizione che l’Autorità Palestinese avvii riforme e che la ricostruzione di Gaza faccia progressi.
La forza internazionale, composta soprattutto da Paesi musulmani, avrà il mandato di disarmare Hamas e smantellarne le infrastrutture militari.

Le reazioni più dure: Hamas e Israele

Hamas e un gruppo di fazioni palestinesi hanno denunciato il provvedimento, definendolo un passo verso una tutela straniera sulla Striscia e respingendo ogni clausola di disarmo.
Dall’altro lato, il premier israeliano Benyamin Netanyahu, pressato dall’ala più a destra del suo governo, ha ribadito il rifiuto di uno Stato palestinese e promesso la smilitarizzazione di Gaza “con le buone o con le cattive”.

Tensioni anche in Cisgiordania

Sul terreno la situazione resta infiammata. In Cisgiordania, l’evacuazione dell’avamposto illegale di Tzur Misgavi ha scatenato violenti scontri tra coloni e polizia, con diversi agenti feriti e tentativi di resistenza da parte dei coloni. Disordini anche nel villaggio di Jaba’a, vicino Betlemme, con incendi a veicoli e abitazioni.

Continua a leggere

Esteri

Cresce la tensione tra Giappone e Cina: Tokyo avverte i connazionali in Cina sui rischi di sicurezza

Tokyo avverte i cittadini giapponesi in Cina di evitare folle e prestare massima attenzione, dopo le tensioni esplose per le parole della premier Sanae Takaichi su Taiwan.

Pubblicato

del

Il Giappone ha invitato i propri cittadini residenti in Cina a evitare grandi assembramenti e a prestare massima attenzione all’ambiente circostante. La decisione arriva nel pieno dello scontro diplomatico causato dai commenti della premier Sanae Takaichi su un possibile intervento militare giapponese in caso di attacco cinese a Taiwan.

L’avvertimento dell’ambasciata giapponese

In una nota pubblicata sul sito ufficiale, l’ambasciata giapponese in Cina ha chiesto ai connazionali di evitare i luoghi molto affollati o riconoscibili come ritrovi abituali della comunità giapponese. Le indicazioni seguono l’avviso di Pechino ai propri cittadini di non recarsi in Giappone.

La posizione del governo giapponese

Il capo di gabinetto Minoru Kihara ha spiegato che l’avvertimento è stato deciso dopo “una valutazione completa della situazione politica e della sicurezza nel Paese o nella regione interessata”, sottolineando l’esigenza di cautela in un quadro definito particolarmente delicato.

Le parole della premier Takaichi e la reazione cinese

Lo scontro è esploso dopo le dichiarazioni rilasciate da Takaichi il 7 novembre in Parlamento. La premier aveva ipotizzato la possibilità di un intervento militare giapponese basato sul principio di “autodifesa collettiva” nel caso di un attacco cinese a Taiwan.

Pechino ha giudicato “inappropriati” i commenti, reagendo con durezza e riaffermando la propria posizione: Taiwan è considerata una parte “sacra” e “inalienabile” del territorio cinese, da riunificare anche con la forza se necessario.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto