Dopo le importanti manifestazioni di Berlino, in agosto, sabato 12 Settembre, gli “oppositori” alla gestione governativa della crisi sono tornati in piazza: a Monaco si parla di 10.000 persone; a Hannover, a Wiesbaden si tratterebbe di un migliaio di persone. Il movimento persiste dunque, e sembra diffondersi: ieri le manifestazioni hanno fatto capolino anche a Varsavia, in Polonia. Tra i manifestanti c’è di tutto: “liberi pensatori”, antivax, antimascherine. Ognuno di questi gruppi, e addirittura ognuno di questi manifestanti, adduce ragioni che, andando a vedere da vicino, non sono il frutto di una informazione o un ragionamento scientifico. Esse esprimono, piuttosto, una personale interpretazione di qualche opinione in libertà rilasciata da qualche medico (raramente epidemiologo), non suffragata da dati certi e tantomeno basata su studi scientifici convalidati dalla comunità medica di riferimento.
E’ questo il punto, esattamente: i ricercatori che dedicano la loro energia e la loro intelligenza, e mezzi ingenti, allo studio del Covid 19, non governano adeguatamente la comunicazione pubblica dei loro studi. Questo non vuol dire soltanto che “comunicano male”, come genericamente si dice, ma vuol dire altresì che la comunità scientifica non riesce a contrastare efficacemente i punti di vista emessi dai loro membri a titolo di “opinione” e non di risultato sperimentale ottenuto seguendo i rigorosi protocolli a cui le pubblicazioni scientifiche sottopongono gli articoli che ospitano e diffondono. Articoli a cui, normalmente, i manifestanti di Berlino o di Parigi o di Roma o di Varsavia non hanno accesso. Potrebbero leggerli, si capisce, ma non lo fanno perché il loro scopo non è quello di informarsi attraverso le evoluzioni della ricerca: oltretutto, per la più gran parte, non ne avrebbero le competenze. Il loro scopo è, semplicemente, quello di “esprimere un’opinione”, grazie alla quale poter prendere, eventualmente, una posizione politica (per solito antigovernativa, come detto). Un’attività garantita dalla Costituzione e salutare per la democrazia, quando sia svolta in forma pacifica, come ha ammesso ieri la stessa Angela Merkel.
Resta il problema della comunicazione pubblica della scienza e degli equivoci che si producono quando questa incrocia la comunicazione mediatica, specie in un’era di “fuzziness informativa”, come diciamo da qualche tempo su questo giornale. Prendiamo un esempio emblematico: nell’ultima settimana (ma seguendo un trend già in atto) si osserva un fatto apparentemente singolare: i contagi aumentano; le ospedalizzazioni pure, ma ad un ritmo assai inferiore; la letalità, infine resta bassa. Questi dati sono accessibili a tutti, anzi, sono molto mediatizzati. Come riporta Le Monde, nel mese di Agosto in Francia si sono registrati in media giornaliera 2.400 contagi, 139 ospedalizzazioni, 14 decessi.
Opportunamente e in vario modo combinati, tuttavia, tali dati consentono di esprimere “opinioni” differenti. I contagi conclamati, sappiamo tutti ormai, sono una funzione diretta dei tamponi: più ne fai, più crescono le probabilità di trovare gente infettata. Ecco perché il fatto di avere qualcosa come 10.000 contagi in un giorno, sempre in Francia, non desta particolare allarme sociale né, di conseguenza, genera particolari misure di sanità pubblica. In Italia, i 1.501 casi di ieri non fanno neppure notizia. Più interessanti gli altri due dati. La minore letalità (e, di riflesso, il crollo dei ricoveri) sembra potersi correlare al fatto che l’età media dei contagiati si è abbassata, durante questa estate vacanziera e liberatoria. Quelli che si infettano sono i giovani che hanno tendenza a non seguire le norme di sanità pubblica (mascherina, distanziamento, igienizzazione), ed hanno tuttavia basse probabilità di essere aggrediti dal Covid 19 e di sviluppare quindi patologie mortali.Dal loro canto, le persone anziane, quelle realmente a rischio, sanno bene che il 92% dei morti da coronavirus ha più di 65 anni. Sicché, hanno imparato a proteggersi e, perfettamente consapevoli dei pericoli che corrono, prendono tutte le precauzioni quando escono. Vediamo il buonsanso all’opera, in una “opinione” largamente condivisa dalla comunità scientifica. Ma c’è un’altra lettura possibile, ossia che il virus abbia subito o stia subendo una mutazione, che ne attenua l’aggressività e, quindi, la carica letale. Non c’è nessuna “evidenza scientifica” a sostegno di questa tesi, che può essere considerata, al massimo una “opinione”. Fatta propria da qualche clinico (non c’è epidemiologo disposto a scommetterci sopra), questa “opinione” acquistaautorevolezza e finisce sia sulle piazze, nel bagaglio del dissenso dei manifestanti, sia nella polemica politica, nel bagaglio delle polemiche dell’opposizione.
Gli scienziati tutte queste cose le sanno. Conoscono perfettamente anche i medici da rotocalco che innescano questi micidiali processi di autoconvincimenti. Ma fanno male, io credo, a non predisporre strategie di risposta pubblica a queste spericolate fantasie, che bucano la cappa dell’overinformation e mettono in crisi, attraverso il loro uso mediatico e politico, la credibilità stessa della ricerca scientifica.
Angelo Turco, africanista, è uno studioso di teoria ed epistemologia della Geografia, professore emerito all’Università IULM di Milano, dove è stato Preside di Facoltà, Prorettore vicario e Presidente della Fondazione IULM.
Un team di scienziati italiani ha scoperto un legame tra genetica e diffusione del Covid-19, individuando alcuni geni che avrebbero reso alcune popolazioni più vulnerabili alla malattia e altre più resistenti.
Come stabilire chi ha maggiore probabilità di sviluppare il Covid-19 in forma grave? E perché la pandemia ha colpito in modo più violento alcune zone d’Italia rispetto ad altre? A queste domande ha risposto uno studio multidisciplinareguidato dal professor Antonio Giordano, direttore dell’Istituto Sbarro di Philadelphia per la Ricerca sul Cancro e la Medicina Molecolare, in collaborazione con epidemiologi, patologi, immunologi e oncologi.
Dallo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Translational Medicine, emerge che la predisposizione genetica potrebbe aver giocato un ruolo determinante nella diffusione e nella gravità del Covid-19.
Il ruolo delle molecole Hla nella risposta immunitaria
Il metodo sviluppato dai ricercatori ha permesso di individuare le molecole Hla, ovvero quei geni responsabili del rigetto nei trapianti, come indicatori della capacità di un individuo di resistere o soccombere alla malattia.
“È dalla qualità di queste molecole che dipende la capacità del nostro sistema immunitario di fornire una risposta efficace, o al contrario di soccombere alla malattia”, ha spiegato Pierpaolo Correale, capo dell’Unità di Oncologia Medica dell’ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria.
Lo studio ha dimostrato che chi possiede molecole Hla di maggiore qualità ha più possibilità di combattere il virus e sviluppare una forma più lieve della malattia. Questo metodo, inoltre, potrebbe essere applicato anche ad altre malattie infettive, oncologiche e autoimmunitarie.
Perché il Covid ha colpito più il Nord Italia? Questione di genetica
Uno dei dati più interessanti dello studio riguarda la distribuzione geografica delle molecole Hla in Italia. I ricercatori hanno scoperto che alcuni alleli (varianti genetiche) sono più diffusi in certe zone del Paese, influenzando così l’impatto della pandemia.
Secondo lo studio, la minore incidenza del Covid-19 nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord potrebbe essere dovuta a una specifica eredità genetica.
Tra le ipotesi vi è quella di un virus antesignano del Covid-19 che si sarebbe diffuso migliaia di anni fa nell’area che oggi corrisponde alla Calabria, “immunizzando” in qualche modo i discendenti di quelle terre.”
Lo studio: 525 pazienti analizzati tra Calabria e Campania
La ricerca ha preso in esame tutti i casi di Covid registrati in Italia nella banca dati dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre a 75 malati ricoverati negli ospedali di Reggio Calabria e Napoli (Cotugno), e 450 pazienti donatori sani.
I risultati hanno evidenziato che:
Gli Hla-C01 e Hla-B44 sono stati individuati come geni associati a maggiore rischio di infezione e malattia grave.
Dopo la prima ondata pandemica, questa associazione è scomparsa.
L’allele Hla-B*49, invece, si è rivelato un fattore protettivo.
Uno studio rivoluzionario con implicazioni future
Questa scoperta non solo aiuta a comprendere la diffusione del Covid-19, ma potrebbe anche essere utilizzata in futuro per prevenire altre pandemie, individuando le popolazioni più a rischio e quelle più protette.
Un lavoro che apre nuove strade nel campo della medicina personalizzata, dimostrando che genetica e ambiente possono influenzare l’evoluzione di una malattia a livello globale.
Cinque anni fa, l’Italia si fermava. L’8 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava il primo lockdown totale della storia repubblicana. Un provvedimento drastico, nato dall’esplosione dei contagi da Covid-19, che costrinse il Paese a chiudere in casa 60 milioni di persone, con l’unica concessione delle uscite per necessità primarie.
L’Italia è stato uno dei primi paesi occidentali ad affrontare un impatto devastante del virus. Il primo caso ufficiale venne individuato nel paziente zero di Codogno, Mattia Maestri, mentre il primo decesso fu registrato il 21 febbraio 2020 con la morte di Adriano Trevisan a Vo’ Euganeo.
Nei giorni successivi, il Paese assistette a scene che rimarranno impresse nella memoria collettiva: ospedali al collasso, città deserte, striscioni con “andrà tutto bene” esposti sui balconi, mentre nelle province più colpite, come Bergamo, i camion dell’esercito trasportavano le bare delle vittime.
Con il Vaccine Day del 27 dicembre 2020, l’arrivo dei vaccini segnò l’inizio della campagna di immunizzazione di massa, accompagnata dall’introduzione del Green Pass, che portò a feroci polemiche e alla nascita di movimenti No-Vax. Il 31 marzo 2022 venne dichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia, mentre il 5 maggio 2023 l’OMS decretò la conclusione della pandemia a livello globale.
Il nuovo approccio alla gestione delle pandemie
Cinque anni dopo il lockdown, il governo Meloni ha rivisto il piano pandemico nazionale, con l’introduzione di nuove regole che limitano l’uso di misure restrittive. I DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), usati ampiamente durante il governo Conte per imporre limitazioni agli spostamenti e alle attività economiche, non saranno più utilizzati, sostituiti da una gestione più parlamentare dell’emergenza.
Inoltre, il 25 gennaio 2024 è entrato in vigore il decreto che ha abolito le multe per chi non ha rispettato l’obbligo vaccinale, un provvedimento che ha riacceso il dibattito su come è stata affrontata la pandemia e sui diritti individuali.
La commissione d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza
Uno dei segnali più evidenti della volontà di rivalutare le scelte fatte è l’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, approvata il 14 febbraio 2024. La commissione ha già tenuto 24 audizioni, ascoltando esperti, rappresentanti istituzionali e figure chiave della crisi sanitaria, come l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, assolto di recente per l’inchiesta sulle mascherine importate dalla Cina.
A cinque anni di distanza: quali lezioni?
La pandemia ha lasciato un segno profondo sulla società italiana e ha messo in discussione il modello di gestione delle emergenze. Se da un lato c’è chi sostiene che le restrizioni fossero necessarie per salvare vite umane, dall’altro si solleva il dibattito su quanto fossero proporzionate e su eventuali errori di valutazione nelle misure adottate.
Oggi, il nuovo piano pandemico riconosce la necessità di una maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento, evitando misure straordinarie come quelle imposte con i DPCM. Ma l’eredità di quei mesi resta incisa nella memoria collettiva: l’Italia che si fermava, i bollettini quotidiani, i medici in prima linea e il ritorno, lento e faticoso, alla normalità.
In Italia scendono i contagi mentre i decessi restano sostanzialmente stabili nella settimana tra Natale e Capodanno: dal 26 dicembre all’1 gennaio sono stati registrati 1.559 nuovi positivi, in calo rispetto ai 1.707 del periodo 19-25 dicembre, mentre le morti sono state 31 rispetto ai 29 casi nei 7 giorni precedenti. E’ quanto si legge nel bollettino settimanale sul sito del ministero della Salute. Lombardia e Lazio, seguite dalla Toscana, sono le regioni che hanno riportato più casi. Le Marche registrano il tasso di positività più alto (11,4%). Ancora una riduzione del numero di coloro che si sottopongono a tamponi: scendono da 44.125 a 34.532 e il tasso di positività cresce dal 3,9% al 4,5%.