L’effetto della pandemia sulle attività commerciali partenopee (e non) è un tema di portata importante e al tempo stesso molto delicato da affrontare. Ne parliamo con Mauro Pantano, 55 anni, napoletano, figlio di commercianti, commercialista e consulente del lavoro e Presidente della Confederazione Imprese e professioni di Napoli.
Lunedì 8 marzo 2021 la Campania è tornata in zona Rossa. Che effetto ha questo provvedimento, a suo avviso?
È passato un anno e la situazione non è cambiata, anzi: dal punto di vista sanitario apprendiamo che gli ospedali sono saturi la situazione sanitaria è drammatica; in un’ottica economica, questo è l’ennesimo stop che registriamo dall’inizio del 2020, e che rischia di mettere in ginocchio società e professionisti a partita IVA.
Cosa ne pensa di questo provvedimento del Governo Draghi? È giusto chiudere le imprese?
È sicuramente opportuno prendere dei provvedimenti per salvaguardare la salute e la “vita” di tutti noi. In realtà la strategia del Governo Draghi somiglia molto a quella del precedente Governo Conte; poco o nulla è cambiato e in nome della pandemia sembra che l’unica risposta sia quella delle chiusure delle attività, per scongiurare il diffondersi del virus, almeno fino a quando con l’aiuto dei vaccini si arriverà all’immunità di gregge. Tuttavia le restrizioni imposte, per quanto opportune, incidono in maniera significativamente negativa sull’economia partenopea e non.
Il precedente Governo aveva però messo in campo nuove misure di sostegno ad imprese e partite IVA, i cosiddetti “ristori”.
Il Governo e la politica sembrano purtroppo assai lontani dalle piccole e piccolissime realtà economiche. I ristori sono stati suddivisi fra milioni di attività: il risultato finale è che sono arrivati alle attività economiche solo importi molto esigui, che hanno aiutato le imprese solo in minima parte. Penso al cumulo dei fitti arretrati, alle attività chiuse da un anno che non hanno incassato nulla, a quelle che hanno aperto e hanno subìto il crollo delle vendite fino ad arrivare ad una perdita dell’80% del loro giro d’affari, alle merci comprate e rimaste invendute, ai debiti con i fornitori, alle utenze che si sono sommate, e alle tasse semplicemente rimandate… Si pensi ai danni subìti dagli agenti di commercio che non sanno più a chi andare a vendere; dalle piscine, palestre e attività sportive e ricreative (e con esse dai loro impiegati tutti); dal comparto dello spettacolo; dai professionisti che non ricevono più i compensi dai loro clienti, costretti a loro volta a chiudere gli uffici… Insomma, una tragedia economica pari o anche peggiore di quella sanitaria.
A suo avviso, cosa si dovrebbe fare?
Intanto precisiamo che le partite IVA, già prima della pandemia versavano in uno stato “comatoso” per posizioni aperte nei confronti dell’ex Equitalia, ora Agenzia della Riscossione; per loro questo virus è stata una mazzata letale. Basta fare degli estratti conto per verificare la bontà di quello che dico.
Pensi che mentre parliamo, il prossimo 16 marzo 2021 sono in scadenza i pagamenti “sospesi” degli F24 relativi a IVA novembre 2020; IVA dicembre 2020; acconto IVA 2020; contributi previdenziali INPS dei dipendenti; tassa vidimazione libri alle varie CCIAA.
In questi giorni il Governo sta varando il nuovo Decreto Sostegno, ma ancora non si parla delle scadenze di cui sopra. Insomma da un lato si attende un contributo, e dall’altro ci impongono di pagare. Se si vuole salvare veramente le attività economiche, a mio avviso la macchina del fisco e dell’Inps va fermata. Personalmente, suggerirei di barattare i ‘Ristori’ o i ‘Sostegni’ con l’azzeramento dei pagamenti di tutti gli F24 relativi agli anni 2020 e 2021. È una cosa che si potrebbe fare subito.
È necessario che la nostra classe politica comprenda che i piccoli imprenditori e i liberi professionisti rappresentano la gran parte dell’economia del nostro paese, e che sono quelli che pagano più di tutti e hanno meno tutele rispetto alle grandi imprese. Piccole imprese e professionisti sono i nuovi “precari”, e in caso di difficoltà economiche nemmeno la legge fallimentare ci viene in aiuto. Si pensi alla norma da poco varata che si chiama “crisi del sovraindebitamento”: se una piccola impresa o professionista vuole estinguere il debito deve alienare ogni sua proprietà, sottoporsi ad una commissione che approvi la procedura e forse – dico solo forse – può estinguere il suo debito con lo Stato ed i privati; e ovviamente c’è un costo anche per questo.
Da ultimo, una considerazione: molti miei colleghi piccoli professionisti hanno chiuso gli uffici e si arrangiano lavorando per le consegne del cibo, pulendo i palazzi e simili; e tanti imprenditori si sono suicidati soffocati dal peso dei debiti e privati di ogni speranza di recupero.
Concludendo, mi auguro che in Governo Draghi possa mettere in campo concrete e importanti misure di sostegno e ristoro specifiche per piccole imprese e liberi professionisti, che oggi sono con l’acqua alla gola
Da lunedì i soci di Banco Bpm potranno aderire all’offerta di Unicredit ma in questo momento tutti si chiedono se conviene, gli azionisti di Piazza Meda, la Borsa e lo stesso Andrea Orcel, il ceo di Piazza Gae Aulenti. Agli azionisti converrebbe vendere sul mercato. Per ciascuna azione di Bpm consegnata, che nell’ultima seduta di Borsa valeva 9,74 euro consegnata, si ricevono 0,175 azioni UniCredit (che venerdì valevano 50,87 euro), uno sconto che va oltre l’8 per cento. Improbabile un rialzo di prezzo ora che Unicredit deve fare i conti con i paletti imposti dal governo e con l’acquisizione di Anima che senza il Danish Compromise – una normativa europea che consente alle banche di acquisire assicurazioni con un minor assorbimento di capitale – pesa sull’indice patrimoniale di Banco Bpm e la rende meno attraente. L’offerta però resterà aperta fino al 23 giugno e nel frattempo Unicredit cerca un dialogo con il governo.
Le prescrizioni, tra cui il mantenimento del rapporto prestiti/depositi in Italia, le filiali di Banco Bpm in Lombardia e l’uscita dalla Russia entro il gennaio 2026, hanno un impatto che gli analisti di Jp Morgan hanno provato a calcolare: cento milioni di minori sinergie sui ricavi derivanti dalla stabilità del rapporto prestiti/depositi; 47 punti base di impatto CET1 derivante dall’uscita dalla Russia equivalente a 1,4 miliardi di capitale; 300 milioni di minori sinergie sui costi su un totale di 0,9 miliardi di euro. E in caso di inadempimento o violazione delle prescrizioni, secondo indiscrezioni, rischierebbe una multa compresa tra 300 milioni e 20 miliardi di euro. La normativa stabilisce infatti che la sanzione amministrativa possa arrivare fino al doppio del valore dell’operazione, e non sia inferiore all’1% del fatturato cumulato dell’ultimo esercizio approvato. Mentre Orcel si interroga se ne valga la pena, le tecnicalità vengono portate avanti e dopo una lunga istruttoria il 24 aprile è stato notificato alla DG Competition l’operazione di fusione e una risposta è attesa entro il 4 giugno.
“Data la forte complementarietà, presumiamo che non vi sia alcun piano di riduzione degli sportelli di in Lombardia”, sottolineano gli analisti di Jp Morgan, ricordando che Banco Bpm ha una quota di mercato del 13% contro il 6% di Unicredit. Resta in ogni caso sotto la soglia del 25% richiesta dall’Antitrust europeo. Il gruppo combinato avrebbe quote di mercato in eccesso solo in Sicilia (27%); raggiungerebbe il 24% in Val d’Aosta e Molise, il 23% in Piemonte, il 21% in Veneto e Lazio. La via del dialogo va percorsa, anche se il ministro Giancarlo Giorgetti tiene il punto e, a margine dei lavori del Fmi, non mostra segni di ammorbidimento. “Il governo deve valutare l’interesse nazionale, che non sono le competenze della Bce o della dg competition, è l’interesse nazionale. Qui (negli Usa ndr) ho capito che l’interesse nazionale risponde ad un concetto abbastanza virile anche in materia economica. In Italia abbiamo un concetto di interesse nazionale un po’ più lasco. Io li invidio gli americani”, ha chiosato.
Con il 52,38% dei voti, l’assemblea dei soci di Generali ha scelto la lista di Mediobanca, confermando per il prossimo triennio Philippe Donnet(foto Imagoeconomica in evidenza) nel ruolo di amministratore delegato e Andrea Sironi come presidente. Una decisione che riafferma la linea della continuità e della stabilità nella governance della storica compagnia assicurativa triestina.
Affluenza e composizione del voto
L’assemblea, che ha registrato un’affluenza del 68,7%, è tornata in presenza per la prima volta dal 2019, riunendo oltre 450 azionisti presso il Generali Convention Center. A pesare sul risultato finale sono stati in particolare i voti degli istituzionali (circa il 17,5%) e un sorprendente apporto del retail (5%), mai così attivo. Anche la Cassa forense, con il suo 1,2%, ha votato a favore della lista Mediobanca.
Risultato del gruppo Caltagirone e confronto con il 2022
La lista Caltagirone ha ottenuto il 36,8% del capitale votante, confermando il ruolo di minoranza forte, ma non sufficiente a ribaltare gli equilibri. I fondi Assogestioni, con il 3,67%, non superano la soglia del 5% e quindi restano fuori dal consiglio. Il confronto con il 2022 mostra un equilibrio sostanzialmente stabile: allora Mediobanca aveva ottenuto il 56%, Caltagirone il 41%.
Il nuovo consiglio d’amministrazione
Il nuovo board sarà composto da 13 membri, con una struttura molto simile a quella uscente. Oltre a Donnet e Sironi, confermati nomi come Clemente Rebecchini, Luisa Torchia, Lorenzo Pellicioli, Antonella Mei-Pochtler, Alessia Falsarone. Tra le novità, Patricia Estany Puig e Fabrizio Palermo, ex ceo di Cdp e attuale ad di Acea.
Il ruolo di Unicredit, Delfin e gli altri azionisti
A sostenere Caltagirone si è aggiunta Unicredit, con il 6,5% su un portafoglio totale del 6,7%. Al suo fianco anche Delfin(9,9%) e probabilmente la Fondazione Crt (quasi 2%). Assente invece dai voti sulle liste Edizione della famiglia Benetton (4,83%), che ha scelto di astenersi, pur votando su altri punti all’ordine del giorno.
Donnet: «Ha vinto Generali»
«Oggi ha vinto Generali», ha dichiarato Donnet. «Il mercato si è espresso chiaramente: questa era la scelta per il futuro della compagnia come public company indipendente». Il presidente Sironi ha parlato di un consiglio «che ha lavorato con rispetto e responsabilità» e che continuerà a farlo anche nel prossimo mandato.
Alphabet archivia il primo trimestre sopra le attese degli analisti e avanza a Wall Street dove, nelle contrattazioni after hours, arriva a guadagnare oltre il 5%. L’utile netto è balzato del 46% a 34,5 miliardi di dollari rispetto ai 23,7 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno. I ricavi sono saliti del 12% a 90,23 miliardi.
A spingere le attività core di ricerca e pubblicità di Google, i cui ricavi sono saliti del 10% a 50,7 miliardi, sopra le previsioni del mercato che scommetteva su un aumento più contento dell’8%. La divisione di cloud computing ha sperimentato un aumento dei ricavi del 28% a 12,3 miliardi, confermando la sostenuta domanda per i suoi data center e i servizi di network per il boom dell’IA. “La ricerca ha proseguito una crescita forte”, ha detto l’amministratore delegato Sundar Pichai, mettendo in evidenza la “rapida” crescita del cloud.
Le spese di capitale nei primi tre mesi sono balzate a 17,2 miliardi, leggermente sopra le previsioni di 17,1 miliardi. I risultati trimestrali sono stati accompagnati dall’annuncio di un piano di buyback da 70 miliardi di dollari e un aumento del dividendo trimestrale del 5% a 21 centesimi per azione. Google è il secondo colosso di Big Tech ad annunciare la trimestrale da quando è iniziata la guerra commerciale avviata da Donald Trump. Tesla nei giorni scorsi ha messo in guardia sull’impatto dei dazi sulle sue attività di batterie, che dipendono dai componenti dalla Cina.