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Nordio, ok intercettazioni per mafia ma stop abusi

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Il giorno dopo l’arresto del boss dei boss Matteo Messina Denaro il tema delle intercettazioni torna centrale. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio invita a non illudersi che la mafia si sconfigga con l’arresto di un ricercato, per quanto importante, e assicura che la criminalità si combatte con un mix di armi, anche tecnologiche come le intercettazioni. Il Guardasigilli, che nelle settimane scorse aveva parlato di “abusi” a proposito della pubblicazione di alcuni ‘ascolti’, oggi conferma che questi sono “assolutamente indispensabili nella lotta a mafia e terrorismo”, ma “va cambiato l’abuso che se ne fa per reati minori”. E punta il dito soprattutto contro “la diffusione sulla stampa di segreti individuali che nulla hanno a che fare con le indagini”.

Nordio, a questo proposito, parla di “malafede quando si confondono i due campi”. E dopo la precisazione del Procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, sul fatto che le intercettazioni siano state “il pilastro dell’inchiesta”, anche il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto ribadisce l’utilità degli ascolti solo se si tratta di reati di mafia e terrorismo, ribadendo, come fa il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (FI), che spesso se ne è fatto un “abuso”, soprattutto per quanto riguarda le pubblicazioni sui giornali. Ma, proprio di fronte alla minaccia che si possano inasprire le sanzioni contro i cronisti per limitare il fenomeno, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli lancia un appello. Nel corso dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni che è in corso nella Commissione Giustizia del Senato presieduta da Giulia Bongiorno, Bartoli mette in guardia sul fatto che se si comprimeranno ulteriormente le libertà tutelate dalla Costituzione, si arriverà alla “censura”.

“Sarebbe paradossale inasprire le pene contro i giornalisti che pubblicano intercettazioni quando queste sono pubbliche – dichiara – sarebbe una censura in piena regola”. E mentre la politica si divide in fronti ‘pro’ e ‘contro’ gli ‘ascolti’, il professore di Procedura Penale, Giorgio Spangher – sempre nell’ambito delle audizioni per l’indagine conoscitiva – lancia una proposta che fa già discutere: rendere non intercettabili i telefoni degli avvocati difensori. Il primo a replicare è l’ex Pm ora senatore del M5S Roberto Scarpinato che ricorda come i difensori possano comunque commettere reati impropri, citando il caso di un avvocato difensore che ospitò nel suo studio un vertice di mafia che potè essere scoperto proprio grazie alle intercettazioni.

D’accordo con il prevederle sempre per reati di mafia e terrorismo è anche il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi che però chiede un limite al loro “uso sfrenato dopo anni di ‘Far West’ mediatico-giudiziario”. Dello stesso avviso il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè che parla della necessità di mettere “un cancello alla diffusione delle intercettazioni legate a procedimenti diversi”, per proteggere “la privacy del cittadino” ed “evitare che intercettazioni penalmente irrilevanti o estranee all’argomento dell’indagine, finiscano sui giornali”.

Difende a spada tratta lo strumento giudiziario l’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, ora deputato M5S, che ricorda come spesso si arrivi ad individuare i reati di mafia proprio grazie alla possibilità di intercettare quelli di corruzione o fattispecie minori. Un’altra esponente dei 5S, la capogruppo al Senato Barbara Floridia, sottolinea come Nordio abbia “smentito se stesso” dopo l’arresto del boss. “Prima diceva con sicumera che ‘i mafiosi non parlano al telefono’, per giustificare l’attacco alle intercettazioni. Oggi invece dice che le intercettazioni sono indispensabili per terrorismo e mafia”. Molto discusso, infine, l’uso del Trojan, per il quale Giulia Bongiorno, pensa che sarebbe meglio una disciplina ad hoc rispetto al sistema complessivo delle intercettazioni.

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Altolà Eurocamera all’Italia sui figli delle coppie gay

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Il Parlamento europeo censura il governo italiano per la recente circolare del ministro Piantedosi che ha bloccato le registrazioni all’anagrafe dei figli di coppie gay, effettuate da alcuni sindaci. All’ Eurocamera è stato infatti approvato un emendamento al testo della Risoluzione sullo Stato di diritto che condanna la circolare perché porterebbe “alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli”, e invita anche Roma “a revocare immediatamente la decisione”. Un invito che il governo non ha intenzione di seguire, e che è stato criticato dal centrodestra e salutato positivamente dalle opposizioni, unite questa volta sia in Italia che a Bruxelles. Si è invece spaccato il Ppe, con una serie di delegazioni dei paesi del nord Europa e del Portogallo che hanno votato a favore dell’emendamento, mentre anche la Cdu tedesca ha lasciato libertà di voto per evitare divisioni laceranti. Una spaccatura, quella dei popolari europei, che non riguarda solo il merito ma anche le prospettive delle future alleanze.

L’emendamento di censura al governo Meloni è stato presentato dai liberali di Renew Europe, ed è stato votato da Socialisti e Democratici, Verdi e dalla Sinistra. Si tratta di gruppi che da soli non avrebbero avuto la maggioranza, che è stata raggiunta grazie all’appoggio delle delegazioni dei Popolari dei Paesi nordici e del Portogallo e di una parte dei tedeschi della Cdu, il partito di Ursula von der Leyen. Sui temi dei diritti della comunità Lgbt nel Nord Europa c’è maggior apertura, anche tra i Popolari, ma il voto ha avuto un aspetto più squisitamente politico: si contrappongono infatti i Popolari favorevoli, dopo le elezioni del 2024, a continuare l’alleanza con gli Eurosocialisti, e quelli che mirano a un “ribaltone” storico che porti ad una coalizione con i Conservatori di Giorgia Meloni.

Le delegazioni di Fi, Fdi e Lega hanno votato tutte contro l’emendamento, e pur soccombenti in termini numerici, hanno mostrato unità a Roma come Bruxelles. Dalle opposizioni sono piovute critiche al governo Meloni perché “isola l’Italia” (i Dem Piero De Luca e Cecilia d’Elia), perché porta nel Mondo “la cartolina di una Italietta da Anni 50” (Debora Serracchiani). Di qui la richiesta di ritirare la circolare. Osvaldo Napoli (Azione) osserva poi sarcastico che Meloni se “mirava ad alterare le alleanze al Parlamento europeo, ha finito per spaccare il Ppe” a causa del suo “approccio ideologico”. Da parte del centrodestra ci sono i falchi come Alessia Ambrosi (Fdi) che si dice “orgogliosa di condanne così”, o come Lucio Malan (Fdi), che accusa l’Eurocamera di voler sdoganare “la maternità surrogata”.

Ma ci sono anche quanti evitano attacchi del genere benché non mostrino intenzioni di cedere. Il vicepremier Antonio Tajani e il capogruppo dei Conservatori Nicola Procaccini ricordano infatti che c’è una legge italiana che vieta le trascrizioni dei certificati di nascita esteri di coppie omogenitoriali, confermata dalla Cassazione (da ultimo il 3 novembre 2020), che nelle sue sentenze suggerisce di ricorrere all’adozione speciale. “Le leggi vanno sempre rispettate piaccia o non piaccia – ha detto Tajani -: se c’è la forza di cambiarle lo deve fare il nostro Parlamento”.

Se il Pd ci teneva, ha rincarato la dose Procaccini, “lo poteva fare quando governava”. Dalle opposizioni, arriva intanto l’esortazione a mettere in campo una nuova legge: lo fanno Chiara Appendino e Alessandra Maiorino, di M5s, che una pdl la hanno già depositata, e lo fa il Pd con Francesco Boccia, Simona Malpezzi e Valeria Valente. Quest’ultima tuttavia chiede una legge non sulle registrazioni ma sull’adozione da parte delle coppie omogenitoriali, così da “non avvallare la pratica della gestazione per altri che sfrutta il corpo femminile e cancella il materno”. Uno stop dunque alla maternità surrogata invisa a quelle associazioni di famiglie arcobaleno che vi ricorrono e che chiedono appunto la registrazione dei nati all’estero con questa tecnica.

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Appalti, Anac: rischi voto di scambio o favori… ai cugini

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Appalti, il giorno dopo. All’indomani del via libera del Consiglio dei ministri al nuovo codice, che regolerà in futuro la concessione di lavori pubblici, si accende il dibattito sulle luci e sulle ombre del provvedimento e in molti casi non si risparmiano le polemiche. Dei 229 articoli che da ora in poi regoleranno tutte le procedure per assegnare e gestire un appalto, da più parti è stato accolto con favore il ricorso alla digitalizzazione e alla semplificazione. Ma come rovescio della medaglia della volontà di rendere le procedure più semplici oltre che più rapide e meno burocratizzate, c’è chi solleva dubbi e timori sulle possibili ripercussioni negative. Prima fra tutti l’Anac, che paventa il rischio di voti di favore o appalti assegnati a familiari e amici. Il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini però rassicura garantendo che “con i tempi più veloci avremo meno corruzione”. L’Autorità che previene la corruzione in tutti gli ambiti amministrativi ritiene positivo che nel nuovo Codice degli appalti si punti sulla digitalizzazione, “che obbliga a trasparenza e partecipazione”. Ma non manca di puntare il dito su quella che ritiene la principale ‘ombra’, ovvero il fatto che sotto i 150.000 euro “si dà mano libera, si dice di non consultare il mercato e di scegliere l’impresa che si vuole”.

Il timore dell’Anac è che così “si prenderà l’impresa più vicina, quella che si conosce, non quella che si comporta meglio”. Insomma, secondo il presidente dell’autorità Giuseppe Busia “sotto i 150.000 euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri”. Secondo l’Anac, quindi, ben venga il fare in fretta, purché questo non significhi perdere di vista il fare bene. E non è nemmeno del tutto un bene sburocratizzare troppo laddove la burocrazia fa invece bene il suo lavoro, ovvero “fa controlli per far bene, per rispettare i diritti e perché i soldi vanno spesi bene”. Mentre la Cigil annuncia che l’1 aprile andrà in piazza con la Uil per protestare contro la nuova raccolta di norme e chiedere modifiche al governo, Salvini ne difende invece il valore, spiegando che “sarà uno strumento di lavoro fondamentale per l’Italia nei prossimi anni”. In vigore dal primo luglio, come anticipato dallo stesso ministro, il nuovo codice premetterà di “risparmiare almeno un anno nella fase dell’istruttoria della pratica”. E, secondo lo stesso Salvini, “chi lamenta che sia un favore a corrotti e corruttori sbaglia perché più veloce è l’iter della pratica meno è facile per il corrotto incontrare il corruttore”.

Tra le tante e più disparate reazioni alla nuova rivoluzione nel mondo degli appalti ha detto immancabilmente la sua anche l’Ance, l’associazione dei Comuni che saranno i soggetti interessati in prima linea nella gestione delle gare pubbliche. L’Ance plaude ai grandi passi avanti fatti in un tempo a disposizione assai limitato (vista la scadenza improrogabile del 31 marzo) e registra con favore le modifiche su illecito professionale e la revisione dei prezzi “anche se va ancora affinato il meccanismo di revisione per renderlo veramente automatico ed efficace”. “Restano però – osserva la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio – perplessità sulla concorrenza, in particolare nei settori speciali che di fatto potrebbero sottrarre al mercato il 36% del volume dei lavori pubblici”. Tra i sindacati, particolarmente critica appare anche la Uil, con il segretario generale Paolo Bombardieri che avverte che “il codice degli appalti ci fa tornare indietro di 40 anni. Ci saranno, così, gare al massimo ribasso e si rischia di indebolire tutto ciò che si è provato a costruire per la sicurezza sul lavoro e per l’applicazione dei contratti, soprattutto nell’edilizia”. Di parere diverso invece la Filca-Cisl che definisce il codice appalti un passo in avanti importante per il settore, ma ritiene utili correttivi e affinamenti.

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Da cure occhi a cuore, attese aumentano nelle regioni

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Dai ricoveri alle visite mediche, nel 2021 diverse regioni hanno visto peggiorare i tempi di attesa rispetto al 2020. Per gli interventi chirurgici per tumore al seno, il Lazio è passato dal 53% al 35% di prestazioni eseguite secondo i tempi previsti. Mentre per l’elettrocardiogramma la Sardegna è passata da 15 giorni di attesa a 52 giorni. Soprattutto, però, i dati disponibili sono “incompleti, disomogenei e non comparabili” e “urge un ripensamento del sistema di raccolta”. A denunciare il “fallimento del Piano per la Gestione delle liste d’Attesa” è il report Healthcare Insights – Osservatorio sull’Accesso alle Cure, presentato dalla Fondazione The Bridge. Mentre, all’indomani del pacchetto sanità approvato dal Consiglio dei Ministri, a minacciare una ripresa della mobilitazione sono le organizzazioni sindacali della dirigenza medica: “non si salva così la sanità pubblica”, spiegano. L’obiettivo del Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa è “lungi dall’essere raggiunto e siamo lontanissimi dall’informare i cittadini”, spiega il report.

All’interno del Piano è previsto, infatti, un elenco di 69 prestazioni sanitarie ambulatoriali e 17 in ricovero di cui monitorare i tempi di erogazione, ma le uniche a fornire informazioni su tutte sono state Abruzzo, Puglia e Marche. Dal frammentato quadro emerge che per una prima visita ginecologica il Molise e la Basilicata si distinguono in negativo, con il 58% di prestazioni eseguite per tempo e una media di 42 giorni di attesa. Allo stesso modo, per una visita oculistica, l’Umbria passa da 15 giorni medi di attesa nel 2020 a 33 nel 2021, la Sardegna da 23 a 56 giorni. “Nel 2021 – sottolinea Luisa Brogonzoli, coordinatrice Centro Studi The Bridge – abbiamo visto un acuirsi progressivo di difficoltà organizzative iniziate nel 2020 con l’esplosione della pandemia e dovute alle tantissime ospedalizzazioni per Covid che hanno messo sotto stress gli ospedali”. A colpire però, prosegue, è anche “l’assoluta disomogeneità dei dati forniti dalle singole Regioni, conseguenza di una normativa nazionale, che lascia a ciascuna la libertà di stabilire le modalità attraverso cui i dati sono resi accessibili”. Di fatto “il Piano Liste di Attesa, ormai è inadeguato. Urge un ripensamento”. Proprio per realizzare una nuova modalità di analisi dei dati, più rispondenti alla realtà, Fondazione The Bridge e l’Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali (Agenas) hanno dato il via a un gruppo di lavoro. Intanto, nonostante lo stanziamento di circa 1 miliardo di euro dal 2020 ad oggi per il recupero delle liste di attesa, la capacità della sanità pubblica di garantire l’accesso alle cure “è ancora inferiore al pre pandemia e con inaccettabili differenze tra le Regioni. Nel primo semestre 2022”, secondo Salutequità, “sono saltate una prima visita specialistica su 5 in Italia rispetto allo stesso periodo del 2019, con punte di oltre una prima visita su due nella PA di Bolzano (-55,2%), una su 3 in Valle d’Aosta, Sardegna, Calabria e Molise”.

L’allarme non è nuovo e ha diverse cause: l’effetto del boom di ricoveri legati al Sars-cov-2, la carenza di medici dovuta a decenni di tagli alla sanità e la cattiva programmazione rispetto al fabbisogno di specialisti da formare. Il risultato, come emerge dai dati Istat, è che la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni è passata dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, fino all’11,1% nel 2021 e chi invece può, si rivolge al privato. A fronte di quella che la Fondazione Gimbe ha definito “una Sanità in Codice Rosso”, le novità previste nel Decreto Bollette sono bocciate dall’Intersindacale medica, che annuncia la ripresa della mobilitazione in vista di una manifestazione pubblica a giugno e annuncia anche scioperi. “E’ un decreto monco – spiegano i sindacati – che, per quanto contenga risposte, come la procedibilità d’ufficio per chi aggredisce gli operatori sanitari, fallisce l’obiettivo di sollevare un Servizio Sanitario Nazionale in ginocchio e arrestare la fuga di medici”.

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