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Niente estradizione per gli ex Br, la vergogna francese di non consegnare assassini italiani

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Nessuno di loro entrerà in un carcere italiano: la Francia resta un rifugio sicuro per gli eversivi del nostro Paese, compresi gli assassini di quarant’anni fa, con la Cassazione che ha messo la parola fine ad una vicenda lunga decenni respingendo il ricorso per l’estradizione di dieci ex terroristi degli anni di piombo, tra i quali Giorgio Pietrostefani e Marina Petrella. Una decisione che fa salire la rabbia tra i familiari delle vittime per una sentenza attesa e senza colpi di scena e che però mette un macigno sopra a quell’accordo di due anni fa tra Roma e Parigi per il superamento della dottrina di Mitterand.

Rimangono così liberi vecchi maestri e più recenti allievi dell’estremismo violento. E nella stessa giornata, a distanza di un paio d’ore, arriva anche il secondo schiaffo all’Italia: la giustizia francese non consegnerà all’Italia neppure Vincenzo Vecchi, il militante condannato ad una decina di anni nel nostro Paese per le violenze al G8 di Genova del 2001. La procura generale ha infatti rinunciato a presentare il ricorso in Cassazione dopo la decisione con la quale la corte d’Appello di Lione, venerdì scorso, ha bocciato la richiesta di estradizione.

Riguardo ai dieci ex combattenti degli anni settanta rifugiati a Parigi, dagli esponenti delle Br a quelli di Lotta Continua, dei Proletari armati per il comunismo e delle Formazioni comuniste combattenti, il tribunale francese aveva già negato il 29 giugno dello scorso anno l’estradizione chiesta dall’Italia motivando il rifiuto con il rispetto della vita privata e familiare e con il diritto a un processo equo, garanzie previste dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma dopo la contrarietà manifestata dal presidente Macron, il procuratore generale della Corte d’appello di Parigi, Rémy Heitz, in rappresentanza del governo, aveva immediatamente presentato un ricorso alla Corte di Cassazione, ritenendo necessario appurare se gli ex terroristi condannati in Italia in contumacia beneficiassero o meno di un nuovo processo una volta consegnati.

L’Italia però non si era fatta alcuna illusione. Lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio prende atto della decisione: “Il nostro Paese ha fatto tutto quanto in suo potere, perché fosse rimosso l’ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste”, dice senza smettere di invocare verità e rivolgendo il suo pensiero alle “vittime di quella sanguinosa stagione e ai loro familiari”. Ed è da loro che arriva la reazione più dura. “Vedere andare in carcere queste persone dopo decenni non ha per noi più senso. Ma – commenta il giornalista Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi assassinato nel ’72 su mandato dello stesso Pietrostefani – c’è un dettaglio fastidioso e ipocrita: la Cassazione scrive che ‘i rifugiati in Francia si sono costruiti da anni una situazione famigliare stabile (…) e quindi l’estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato al loro diritto a una vita privata e famigliare’. Ma pensate al danno sproporzionato che loro hanno fatto uccidendo dei mariti e padri di famiglia. E questo è ancora più vero perché da parte di nessuno di loro c’è mai stata una parola di ravvedimento, di solidarietà o di riparazione. Chissà…”.

La risposta di un esponente della controparte è provocatoria: “quanto mi fa godere la Cassazione francese…”, scrive sui social Enrico Galmozzi, fondatore delle Brigate combattenti di Prima Linea. Non può darsi pace neppure chi è sopravvissuto: “è una vergogna che non ha fondamento giuridico e chiedo alla Francia: se fosse successa la stessa cosa al contrario con le vittime del Bataclan?”, dice deluso Roberto Della Rocca, lavoratore di Fincantieri che nel 1980 fu ferito a Genova durante un attentato delle Br.

Della Rocca lancia un altro appello con la sua Associazione contro le vittime del terrorismo, stavolta a Nordio affinché si intervenga. Alberto Di Cataldo, figlio di Francesco, il maresciallo ucciso a Milano dalle Br il 20 aprile 1978, aggiunge: “non condivido la negazione dell’estradizione e non mi interessa la pena in sé, ma il contributo che daranno alla ricostruzione di quei fatti. C’è un debito di verità su quegli anni”. E Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio ucciso nel 1997 dai Proletari Armati, sbotta: “sono dei disgraziati”. Maurizio Campagna – fratello di Andrea, l’agente di pubblica sicurezza calabrese ucciso dai terroristi nel 1979 a Milano – nel suo commento confessa una realtà ancora amara da accettare: “speriamo di non aver perso l’ultima chance”.

Da Pietrostefani a Petrella, i dieci ex terroristi

Ecco i 10 ex terroristi rossi per i quali l’Italia chiedeva l’estradizione, negata ormai in modo definitivo dalla Francia.

GIORGIO PIETROSTEFANI Tra i fondatori di Lotta Continua, è stato condannato in via definitiva come mandante dell’omicidio del commissario di Polizia Luigi Calabresi. Fuggì in Francia alla vigilia del verdetto e si è sempre professato innocente. Da tempo malato per le conseguenze di un trapianto, è spesso in ospedale e le sue condizioni di salute non gli hanno consentito di essere presente alle udienze che lo riguardavano.

ROBERTA CAPPELLI Impegnata in Francia come insegnante di sostegno per i bambini disabili, ha 67 anni ed è un ex Br. In Italia è stata condannata all’ergastolo per gli omicidi del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi , dell’agente di polizia Michele Granato e del vice questore Sebastiano Vinci .

MARINA PETRELLA Ha anche lei un passato brigatista e una condanna per l’omicidio del generale Galvaligi, oltre che per il sequestro del giudice Giovanni D’Urso e dell’assessore regionale della Democrazia Cristiana Ciro Cirillo. Ha 68 anni e lavora in Francia per un’associazione che si occupa di problemi legati agli anziani. Ha due figlie e nel 2008 l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy fermò la sua estradizione in Italia per “ragioni umanitarie”: in quel periodo era ricoverata in gravi condizioni fisiche.

ENZO CALVITTI Psicoterapeuta in pensione, ha 68 anni. Anche lui ha militato nelle Br. In Italia è stato condannato in contumacia a 18 anni di carcere per associazione a scopi terroristici e banda armata.

NARCISO MANENTI Arredatore e gestore di una società di comunicazione, ha 65 anni. E’ sposato dal 1985 con una francese dalla quale ha avuto 3 figli ed è oggi nonno. Ex membro dei ‘Nuclei armati per il contropotere territoriale’, fu condannato nel 1983 all’ergastolo per l’omicidio dell’appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri ucciso davanti al figlio 14enne in uno studio medico doveva aveva fatto irruzione per sequestrare un medico che lavorava presso il carcere di Bergamo.

MAURIZIO DI MARZIO il suo nome è legato all’attentato al dirigente dell’ufficio provinciale del collocamento di Roma Enzo Retrosi, nel 1981. E, soprattutto, al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone il giorno dell’Epifania del 1982. Ha 61 anni ed è a Parigi da molti anni; ha gestito un noto ristorante, il ‘Baraonda’.

GIOVANNI ALIMONTI Come Di Marzio è stato condannato per il tentato sequestro di Simone e come lui faceva parte della colonna romana delle Brigate Rosse. Ha lavorato come cameriere in un ristorante di Parigi e ha fatto anche il traduttore. Padre di due figlie e nonno, ha 67 anni.

SERGIO TORNAGHI E’ stato militante della colonna milanese Walter Alasia e su di lui pesa una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Renato Briano, direttore generale della ‘Ercole Marelli’.

Ha 65 anni RAFFAELE VENTURA, ex delle Formazioni Comuniste Combattenti, è stato condannato a 20 anni di carcere per concorso morale nell’omicidio del vicebrigadiere Antonio Custra, avvenuto il 14 maggio 1977, durante una manifestazione della sinistra extraparlamentare a Milano. Ha 72 anni.

LUIGI BERGAMIN, 73 anni, ex militante dei Pac, a suo carico ha una condanna a 16 anni e 11 mesi di reclusione come ideatore dell’omicidio del maresciallo Antonio Santoro, capo degli agenti di polizia penitenziaria ucciso a Udine il 6 giugno 1978 da Cesare Battisti.

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Sindaco di Avellino Festa arrestato, indagati la vice sindaco Nargi e un consigliere comunale

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Arresto per il sindaco dimissionario di Avellino, Gianluca Festa. L’ex esponente del Pd e’ coinvolto in un’indagine per peculato e induzione indebita a dare e promettere utilita’ ed e’ ora ai domiciliari insieme a un architetto, fratello di un consigliere comunale, Fabio Guerriero e a una dirigente del Comune. I carabinieri, titolari dell’indagine della procura di Avellino, hanno anche eseguito perquisizioni a carico del vicesindaco Laura Nargi, del consigliere Diego Guerriero, capogruppo Viva la Liberta’, lista civica a sostegno di Festa, e fratello di Fabio e dei fratelli Canonico, presidente e commercialista della DelFes, squadra di basket serie B.

Al centro delle indagini c’e’ proprio la squadra di basket di serie B, riconducibile a Festa. Per gli inquirenti, ha ottenuto sponsorizzazioni da imprese che erano assegnatarie di appalti e affidamenti dal Comune di Avellino. Gli inquirenti ipotizzano per questo che esista un’associazione a delinquere.

La sua piu’ grande passione e’ il basket. Gianluca Festa, 50 anni, sindaco di Avellino dal giugno del 2019, si e’ dimesso il 25 marzo quando la procura di Avellino gli ha perquisito casa e ufficio. E proprio nel corso della comunicazione della notizia alla stampa, fece riferimento al suo amato basket, e al fatto che quanto li contestava la procura era relativo alla pallacanestro. Quando venne eletto, infatti, la squadra della citta’, lo storico club Scandone, fondato nel 1948 e per 20 anni in serie A, era fallito. Lui vi aveva giocato come titolare nel 1995. Uno smacco per Avellino e i tifosi, quel fallimento, e cosi’, pur di salvare la pallacanestro, Festa verso’ 20 mila euro dal suo conto corrente per garantire l’iscrizione di una squadra irpina al campionato di serie B. Ora Festa e’ ai domiciliari, indagato tra gli altri insieme all’amministratore delegato della squadra, la Delfes, Gennaro Canonico per presunti appalti pilotati al Comune di Avellino per i reati di corruzione, associazione a delinquere, turbativa d’sta e falso in atto pubblico. Alcune delle imprese che si sono aggiudicate gli appalti hanno anche sostenuto economicamente la societa’ di basket. “Non c’e’ niente perche’ non c’e’ mai stato niente e anche dalle perquisizioni non e’ emerso nulla. Chi pensava che questa fosse una bomba, si e’ ritrovato in mano una miccetta. E se qualcuno pensava di poter condurre con questi argomenti la campagna elettorale che si avvicina, ha sbagliato. Perche’ noi siamo persone perbene e aspetteremo l’esito delle indagini. Che non porteranno a nulla”, aveva detto Festa all’indomani delle perquisizioni.

È sempre d’uopo ricordare che le azioni dei Pm sono esercizi dell’azione penale obbligatoria ma non sono sentenze di condanna e che per gli attuali indagati c’è il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.

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Uccisero il padre violento, nuova condanna per i figli

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Sono stati condannati di nuovo i fratelli Scalamandrè per l’omicidio del padre Pasquale, indagato per maltrattamenti nei confronti della madre, avvenuto il 10 agosto del 2020 al culmine di una lite nella loro abitazione a Genova. La Corte d’Assise d’appello di Milano, davanti alla quale si è celebrato il processo di secondo grado ‘bis’, ha confermato la sentenza di primo grado: 21 anni di reclusione per Alessio e 14 per Simone. I due uomini, che oggi hanno 32 e 24 anni, sono accusati di avere ucciso il genitore 63enne colpendolo diverse volte con un mattarello dopo che lui si era presentato a casa loro per chiedere al maggiore di ritirare la denuncia nei suoi confronti. I giudici genovesi, in appello, avevano confermato i 21 anni di pena per Alessio, decidendo invece di assolvere Simone.

La Corte di Cassazione, però, lo scorso novembre aveva annullato con rinvio entrambe le sentenze, stabilendo che il nuovo processo si sarebbe svolto a Milano in quanto a Genova esiste una sola Corte d’Assise d’appello e gli imputati non possono essere giudicati due volte dagli stessi giudici. Per il caso del fratello maggiore, nell’annullare la decisione, gli Ermellini avevano tenuto conto della decisione della Corte Costituzionale che aveva decretato l’illegittimità dell’articolo del Codice Rosso che impediva di far prevalere le attenuanti generiche sull’aggravante di un delitto commesso in ambito familiare, e del ricorso dei difensori che invocavano l’attenuante della provocazione.

Nell’annullamento del verdetto nei confronti di Simone, invece, la Cassazione aveva invitato i giudici meneghini a motivare adeguatamente un’eventuale nuova sentenza di assoluzione. La Procura generale di Milano aveva chiesto 8 anni e mezzo per il fratello più giovane e una pena a 11 anni per l’altro, concordata con la difesa. Per quest’ultimo gli avvocati Nadia Calafato e Riccardo Lamonaca avevano invece chiesto l’assoluzione perché, a quanto hanno detto in aula, il ragazzo “non è l’autore materiale, assieme al fratello, dell’omicidio”.

“È un momento difficile, molto negativo”, ha osservato fuori dall’aula l’avvocato Lamonaca, sottolineando che “sicuramente” non sono state riconosciute l’attenuante della provocazione né la prevalenza di quelle generiche. “Le sentenze non si commentano, ma si impugnano. Cercheremo di cambiare ancora una volta questa sentenza. Non è ancora quella definitiva”. Entrambi i fratelli erano presenti alla lettura del dispositivo. Il giorno dell’omicidio erano stati i due fratelli a chiamare la polizia e raccontare l’accaduto, spiegando che i colpi mortali erano arrivati al culmine di una lite che si era trasformata in colluttazione. Alessio lo aveva infatti denunciato per maltrattamenti e minacce nei confronti della madre, che era stata costretta a trasferirsi in una comunità protetta.

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Test omosessualità a poliziotto della penitenziaria, ministero condannato

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Prima un procedimento disciplinare con una serie di “domande ambigue” sul suo orientamento sessuale. Poi addirittura un test psichiatrico per verificare se fosse o non fosse gay. È il calvario denunciato da un agente di polizia penitenziaria che alcuni giorni fa, dopo più di un anno di battaglie a colpi di carte bollate, ha vinto una causa dal Tar del Piemonte ottenendo un risarcimento di 10 mila euro per “danno morale”.

La somma è stata messa in carico al ministero della Giustizia. A originare il caso fu la segnalazione di due detenuti: “quel poliziotto fa le avances”. Era tutto falso. Ma nel frattempo l’agente venne spedito alla Commissione medica ospedaliera di Milano per sottoporsi a controlli psichiatrici: l’obiettivo era accertare la sua idoneità al servizio. Ed è qui il punto: l’amministrazione, che nel corso del procedimento giudiziario si è giustificata sostenendo che il dipendente manifestava “stati di ansia”, secondo i giudici “operò una sovrapposizione indebita” fra omosessualità (effettiva o meno non ha importanza) e “disturbo della personalità”. Una decisione “arbitraria e priva di fondamento tecnico-scientifico”.

Alla fine l’agente fu prosciolto in sede disciplinare e, dopo i test, dichiarato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro. Ma per l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria che gli ha fornito l’assistenza legale, resta la gravità di accuse “ingiuste, anacronistiche e degne di un clima da Santa inquisizione”. “Alle tante incongruenze e incapacità constatate negli organi dell’amministrazione – dice il segretario generale, Leo Beneduci – non credevamo di dover aggiungere l’omofobia”.

Secondo il senatore Ivan Scalfarotto (Italia viva) la vicenda “illustra meglio di mille trattati l’idea strisciante, e assai più diffusa di quel che si creda, che le persone gay e lesbiche non siano proprio come le altre, non propriamente degne come tutte le altre”. I giudici ricordano che nel ricorso (depositato il 27 dicembre 2022) l’agente lamentò di “essere stato deriso ed emarginato dai colleghi, per lo più uomini, in ragione delle proprie vicissitudini”, tanto che chiese e ottenne il trasferimento in un altro carcere, dal Piemonte alla Puglia. Ma per questo capitolo non hanno riconosciuto il diritto a un risarcimento.

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