Il Conte. Ha mediato e governato per 15 mesi tra Salvini e Di Maio per poi vedersi dare il benservito dal leghista
Entro martedì prossimo le forze politiche hanno tempo per ripresentarsi al Quirinale e riferire se hanno raggiunto un accordo per formare un governo serio che si occupi dei problemi seri del Paese. Per il Presidente Sergio Mattarella non importa il colore, importano i programmi. Poi si vedrà su quali gambe farli camminare. Anche questo è uno scoglio difficile da superare. Chi farà il governo? O meglio con ci farà il governo il M5S? Nel pomeriggio di oggi cominciano i primi incontri, di natura tecnica e di programma, tra pentastellati e Pd. È l’ipotesi di governo che potrebbe trovare una maggioranza in Parlamento. Non c’è alcun inciucio come Matteo Salvini nei momenti di delirio sostiene. Anzi la strada è in salita. Vero è che con Salvini, pur essendo abituati alle giravolte della politica, si fa fatica a stare dietro alle sue astruse idee. Perchè siamo arrivati al paradosso puro. Uscendo dalla Sala alla Vetrata del Quirinale, dove a Mattarella ha chiesto il voto subito, ai microfoni dei cronisti ha sosteniuto “che Di Maio ha lavorato bene nell’interesse del Paese”. Così bene da tradirne la fiducia?
La Lega. La delegazione leghista guidata da Salvini al Quirinale chiede il voto o di rifare un bis con il M5S con Di Maio premier
E mentre dice che Di Maio è bravo, Salvini prova a mostrare la faccia di uno che ci crede in quello che dice. In sala stampa, accompagnato dai capigruppo Molinari e Romeo, dopo aver detto le solite cose su fast tax, i migranti, i cosiddetti “no” del M5S che però non elenca mai. Dopo aver usato e ripetuto con stanchezza le solite formule e cioè che “la strada maestra è quella che porta alle elezioni”, che non vuole “giochini di palazzo” o la nascita di un governo “che avrebbe un solo collante, stare contro di me”, viene al cuore della sua richiesta. “Certo, se qualcuno mi dice che i No diventano Sì, miglioriamo la squadra, il programma, ci diamo un tempo e un obiettivo Ho sempre detto che sono uomo concreto, non porto rancore, guardo avanti, mai indietro”. Per capirci, Salvini è un uomo buono e di sostanza: ha cappottato il governo a ferragosto, ha fatto dimettere il premier del governo gialloverde, ha sputato veleni sul M5S dipingendolo come il partito del No e con loro non si cambia il Paese. E alla fine che cosa fa? Va dal capo dello Stato e gli dice di essere pronto a rifare il governo gialloverde. Non solo, a Mattarella ha chiesto di verificare se non ci siano le condizioni per riprendere il discorso che lui stesso ha appena deciso di interrompere. Una roba da manicomio, da residenza sanitaria assistita. Sembra una fiction agostana di quart’ordine. Salvini è quello che il 9 agosto da capo della Lega presenta una mozione di sfiducia al premier Conte e di fatto stacca la spina al governo di cui è ministro e vicepremier. Motivo? “Dicono solo no. Meglio andare al voto. Voglio pieni poteri per cambiare l’Italia”.
Il M5S. Di Maio con la delegazione pentastellata consegna a Mattarella un elenco di priorità di problemi da affrontare
Due giorno dopo, quando finalmente qualcuno gli fa capire che non è lui a decidere se e quando andare al voto e che il Pd non chiude al M5S, anzi corteggia Di Maio. Quando Salvini caoisce dalle reazioni sui social e dai sondaggi interni che ha fatto una stupidaggine affossando il Governo, Salvini comincia a fare marcia indietro. E lo fa con numeri di cabaret, anche molto goffi. Rimarranno nella storia espressioni come “il mio telefono è sempre acceso”, “abbiamo fatto anche tante cose buone”, “voglio restare al Viminale finché il buon Dio lo vorrà”, “sono disposto a qualsiasi cosa pur di risparmiare agli italiani il ritorno di Renzi e Boschi”, “Di Maio è stato un ministro eccellente”, “Ci sono molti parlamentari del M5S che hanno fatto un lavoro eccellente”, “Rimettiamo assieme un governo del fare”.
Si arriva al 20 agosto, il giorno delle comunicazioni di Conte: il discorso del premier è un lungo, ininterrotto atto d’accusa nei suoi confronti. Conte dipinge Salvini come una sorta di avventuriero della politica proteso solo alla propaganda, senza alcuna cultura istituzionale. Salvini al suo fianco, incassa come un sacco da boxe, mentre si esibisce in espressioni comiche a favore di fotografi e telecamere. Sedersi accanto a Conte perché qualcuno gli ha consigliato che in tal modo lo avrebbe condizionato è un autogol clamoroso. L’ennesimo errore madornale della sua macchina della comunicazione. E infatti, dopo essere stato suonato amdovere, dopo aver incassato ogni colpo, quando arriva il suo momento di parlare, in maniera ancor più goffa si dice molto offeso: “Non sapevo che il presidente del Consiglio pensasse tutte queste cose di me, probabilmente aveva già un piano per accordarsi con il Pd”. Eppure, incredibilmente, poche ore dopo la Lega ritira la mozione di sfiducia, mentre Conte sta per andare al Quirinale a rassegnare le dimissioni. Con Conte che gli dà l’ultimo colpo: visto che non ha il coraggio delle sue azioni, quello glielo do io.
Il premier uscente. Conte resta in carica per gli affari correnti ed ha dimostrato di essere un eccellente uomo delle istituzioni
Ieri l’ ultimo capolavoro: dopo aver incontrato Mattarella, Salvini conferma che le porte sono aperte, spalancate, per i suoi ex alleati di governo e arriva a lodare addirittura Di Maio. Quello degli insulti, quello che diceva no, adesso è uno che “ha lavorato bene nell’interesse del Paese”. Anzi, fa sapere che sarebbe bello vederlo addirittura come premier, quello che non fu concesso a Di Maio che cedette la poltrona di Palazzo Chigi al professor Conte perchè sul suo nome c’era il veto, guarda caso proprio di Salvini.
Salvini prova a mettere trappole sul cammino di una trattativa difficile tra Cinque Stelle e Pd. Perchè Salvini sa che tra i grillini non mancano i pontieri nostalgici del governo del cambiamento. E poi formalmente Mattarella non ha chiuso nessun “forno”, nemmeno quello di un clamoroso bis pentaleghista. Con un Salvini che veleggia sulle ali di un consenso clamoroso, ogni farsa è possibile nel Belpaese. Insomma prepariamoci a quattro giorni di fuoco. Tutto è possibile. Di sicuro il M5S è centrale in questo Parlamento ed è un Movimento che anche in questo momento delicato, anche dopo un clamoroso tradimento della Lega, anche dopo aver ingoiato sconfitte elettorali per aver scelto di governare, ancora parla di programmi e cose da fare. E questo è un fatto positivo.
Antimafia, otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia: un elenco che solleva dubbi sui diritti politici
La Commissione Antimafia indica otto candidati “impresentabili” tra Campania e Puglia. Ma la definizione solleva perplessità: o si ha diritto a candidarsi o no, senza ambiguità sulle garanzie dei diritti.
Sono otto i candidati definiti “impresentabili” dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo (foto Imagoeconimica) in vista delle prossime elezioni regionali in Campania e Puglia. Nessun nome, invece, risulta per le consultazioni in Veneto. Le verifiche dell’Antimafia riguardano le violazioni del codice di autoregolamentazione, documento interno che la Commissione utilizza per valutare la compatibilità morale e giudiziaria dei candidati.
Le liste coinvolte in Campania e Puglia
In Campania, tre candidati provengono da liste che sostengono la corsa del centrodestra con Edmondo Cirielli candidato governatore, mentre un altro figura tra i sostenitori di Roberto Fico, candidato del campo largo. In Puglia, invece, tre candidati si trovano nelle liste di Forza Italia, a sostegno di Luigi Lobuono, e uno nella lista “Alleanza Civica per la Puglia”. La Commissione ha inoltre segnalato altri candidati “impresentabili” nelle amministrative dei Comuni sciolti per mafia, tra cui Caivano, Monteforte Irpino, Acquaro e Capistrano.
Una definizione che apre un problema di principio
Il termine “impresentabile”, usato dall’Antimafia, pone una questione delicata sotto il profilo delle garanzie dei diritti politici. O un cittadino ha diritto a candidarsi — secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto della presunzione di innocenza — oppure non lo ha. In un ordinamento democratico fondato sul diritto, non dovrebbe esistere una zona grigia in cui un candidato, pur avendo pieno diritto legale a partecipare alle elezioni, venga pubblicamente indicato come “impresentabile” da un’istituzione parlamentare. Per questo, in questa sede, il termine viene utilizzato esclusivamente per richiamare la definizione ufficiale adottata dalla Commissione Antimafia, senza condividerne l’impianto concettuale, che rischia di trasformarsi in un giudizio politico o morale non previsto dalle leggi.
L’altra inchiesta: il clan D’Alessandro e il “business del caffè”
Nel frattempo, un’altra vicenda giudiziaria ha riacceso l’attenzione sulla criminalità organizzata in Campania. Le indagini dei carabinieri di Torre Annunziata e della Direzione distrettuale antimafia di Napoli hanno documentato due episodi di estorsione legati al clan D’Alessandro, che avrebbe imposto la vendita di un determinato tipo di caffè ai bar di Castellammare di Stabia. Secondo le intercettazioni, la gestione del “business del caffè” avrebbe persino causato una frattura interna al clan, con una fazione che imponeva il prodotto a bar, uffici e negozi, e un’altra che si limitava a venderlo. Nell’agosto del 2021 l’attività estorsiva di questa fazione cessò quando il responsabile fu trasferito nel Lazio per ordine dei vertici, al fine di salvaguardare gli equilibri interni.
Un contesto complesso, quello descritto dalle indagini e dalle segnalazioni parlamentari, che impone una riflessione non solo sul contrasto alla criminalità, ma anche sulla tutela piena e imparziale dei diritti civili e politici di ogni cittadino.
Santanchè, gli affitti brevi e la difesa della lobby degli albergatori a danno delle famiglie
La ministra Santanchè difende gli interessi degli albergatori e colpisce chi affitta la propria casa per campare, mentre il governo Meloni aumenta tasse e burocrazia sui piccoli proprietari.
Le parole di Daniela Santanchè sugli affitti brevi pronunciate a Napoli sono l’ennesimo esempio di una politica schierata con le lobby degli albergatori, pronte a difendere i propri privilegi anche a costo di penalizzare migliaia di famiglie italiane che affittano una stanza o un appartamento per sopravvivere.
La ministra, invischiata in processi giudiziari ancora fermi al palo e con un nutrito carnet di amicizie nel settore, parla di “lotta al sommerso” e di “tutela della proprietà privata”. Ma la realtà è che il suo governo, più che tutelare la proprietà, la sta lentamente svuotando di senso per chi vive di piccoli affitti. Il Codice identificativo nazionale (CIN), la trovata burocratica inventata dalla Santanchè, è solo il primo passo per schedare e complicare la vita a chi ospita turisti.
Secondo le nuove regole, un alloggio deve avere almeno 28 metri quadrati per due persone e 20 per una. Negli alberghi, invece, bastano 9 metri quadrati per una persona e 14 per due. In alcune regioni si dorme anche in camere da 7 metri quadrati, e in certi casi in veri e propri loculi da 3 metri, ma solo se l’attività è “autorizzata”.
La Santanchè, che parla di “agevolare le famiglie”, finge di ignorare che chi affitta una casa con Booking o Airbnb è già tartassato. Su 100 euro di incasso lordo, un piccolo proprietario paga:
21 euro di cedolare secca (che saliranno a 26 se l’immobile non è prima casa);
21 euro di commissioni a Booking, tra percentuali, IVA e costi di transazione;
Spese per acqua, luce, gas, internet, climatizzazione e tasse di soggiorno;
Costi per pulizie, lavanderia, prodotti, manutenzione e comunicazioni obbligatorie a polizia e comune.
Alla fine, restano 15-18 euro di guadagno reale su 100 incassati. Questa è la realtà di chi affitta legalmente, paga tutto, e mantiene viva una microeconomia familiare che il governo invece sta affossando.
Aumentare la tassazione al 26 per cento non farà emergere il sommerso, ma spingerà molti ad affittare in nero o a chiudere del tutto. E allora, prima di dire “scemenze” in pubblico, la ministra Santanchè farebbe bene a ricordare che non tutti possono contare su patrimoni milionari o sulla rete di amicizie che lei vanta nel settore del lusso.
Chi oggi affitta una casa lo fa per campare, non per arricchirsi. E meriterebbe rispetto, non sospetto.
Bufera sul Garante per la Privacy, Stanzione respinge le accuse: “Non ci dimetteremo, attacco politico”
Il presidente del Garante per la Privacy Pasquale Stanzione respinge le accuse di contiguità politica e nega le dimissioni. Pd e M5S chiedono l’azzeramento dell’Autorità dopo il caso Report.
Il presidente del Garante per la Privacy, Pasquale Stanzione (foto Imagoeconomica), ha respinto con fermezza le richieste di dimissioni arrivate dalle opposizioni dopo il caso Report, assicurando che il collegio non si dimetterà.
“Le accuse sono totalmente infondate”, ha dichiarato Stanzione, aggiungendo che “quando la politica grida allo scioglimento o alle dimissioni dell’Autorità, non è più credibile”.
La polemica e il caso Report
La bufera è nata dopo un servizio della trasmissione Report, condotta da Sigfrido Ranucci, che ha ipotizzato contiguità politiche e conflitti d’interesse all’interno dell’Autorità. Nel mirino è finito in particolare Agostino Ghiglia, membro del collegio, accusato di vicinanza a Fratelli d’Italia e collegato da Report alla multa inflitta alla stessa trasmissione dopo la messa in onda di un audio privato tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e la moglie.
“La narrazione di un Garante subalterno alla maggioranza di governo è una mistificazione che mira a delegittimarne l’azione – ha replicato Stanzione –. Il Garante assume decisioni talvolta contrarie, talvolta favorevoli al governo. Questa è la vera autonomia”.
Le reazioni delle opposizioni
Le opposizioni – Pd, M5S e Avs – hanno chiesto l’azzeramento del collegio e le dimissioni immediate del presidente, definendo “indegna” l’intervista di Stanzione al Tg1. I parlamentari del Movimento 5 Stelle in Commissione di Vigilanza Rai hanno annunciato un’interrogazione sull’episodio, accusando la testata di essersi “prestata a un comizio difensivo”.
“Non ha più credibilità per andare avanti”, ha detto Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, mentre Giuseppe Conte, a DiMartedì, ha parlato apertamente di “azzeramento necessario”.
Le proposte di riforma
Nel dibattito è intervenuto anche il senatore Dario Parrini (Pd), vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali, proponendo di introdurre un quorum qualificato dei tre quinti del Parlamento per eleggere i membri delle autorità indipendenti, come avviene per la Corte Costituzionale o il Csm.
“Oggi l’attuale Garante è stato eletto nel 2020 con meno del 40% dei voti degli aventi diritto”, ha ricordato Parrini.
Anche l’eurodeputato Sandro Ruotolo ha definito la situazione “paradossale”:
“Abbiamo la possibilità di far dimettere il Capo dello Stato, ma non il collegio del Garante della Privacy. Serve un passo indietro e una riforma per garantire indipendenza e qualità”.
Il limite istituzionale
Come ha ricordato il giurista ed ex presidente Rai Roberto Zaccaria, né il governo né il Parlamento possono imporre lo scioglimento del Garante.
“L’unica ipotesi è che la maggioranza dei componenti, quindi tre su quattro, si dimetta. Altre non ne vedo in questo momento”.
Per ora, Stanzione non arretra: il Garante resta al suo posto, mentre lo scontro politico intorno all’Autorità continua ad alimentarsi.