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Netanyahu apre alla mini tregua in cambio di ostaggi

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Qualcosa si muove, seppure a piccolissimi e incerti passi. Inaugurando la sessione invernale della Knesset, Benyamin Netanyahu ha annunciato che “Israele sta lavorando ad un accordo con Hamas” per il rilascio di “alcuni” ostaggi in cambio di diversi giorni di tregua a Gaza, mentre crescono le proteste dei familiari che contestano al premier l’inazione sulla sorte dei loro cari nonostante i successi militari, e le pressioni interne a fare concessioni “anche a caro prezzo”, invocate da ultimo da Benny Gantz, ex membro del governo di emergenza nazionale lasciato in disaccordo col primo ministro. Anche la fazione palestinese si è mostrata possibilista sul raggiungimento di un’intesa, pur ribadendo le sue condizioni.

Mentre dal suo seggio in Delaware il presidente americano Joe Biden cerca di esercitare il potere che gli resta a una settimana dal voto per la Casa Bianca per accelerare le trattative: “La guerra a Gaza deve finire”, ha ammonito, consapevole di quanto il tema sia cruciale nella campagna elettorale. La base negoziale su cui il capo del Mossad David Barnea, quello della Cia Bill Burns, e il premier del Qatar Mohammed bin al Thani hanno discusso a Doha negli ultimi due giorni è la cosiddetta “proposta egiziana”: il rilascio di quattro ostaggi (su un centinaio ancora prigionieri nella Striscia, di cui oltre 30 ritenuti morti) in cambio di due giorni di tregua a Gaza e la scarcerazione di alcuni prigionieri palestinesi. Si tratta di “un nuovo schema che combina le proposte precedenti e tiene anche conto dei recenti sviluppi nella regione”, ha confermato l’ufficio di Netanyahu in un comunicato, facendo riferimento alla decapitazione dei vertici di Hamas e Hezbollah e del “successo” della reazione inflitta all’Iran per l’attacco missilistico subito il primo ottobre.

“I colloqui tra i mediatori e Hamas continueranno nei prossimi giorni – ha poi prudentemente aggiunto lo staff del premier – per valutare la fattibilità dei negoziati e il proseguimento degli sforzi per raggiungere un accordo”. Fonti di Hamas hanno riferito al canale saudita Al-Sharq che il movimento è pronto ad accettare la proposta del Cairo, ribadendo tuttavia di puntare ad un accordo che preveda, in una fase successiva, il cessate il fuoco permanente e il completo ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza: condizione che potrebbe rallentare ancora una volta l’esito dei negoziati per una prima, per quanto breve, tregua e lo scambio di prigionieri. Funzionari israeliani citati dai media hanno replicato che nessuna risposta ufficiale è ancora stata fornita da Hamas né a Israele né ai mediatori, sottolineando di non sapere con certezza chi stia realmente conducendo le trattative per conto del movimento dopo la morte del capo Yahya Sinwar. In ogni caso, ha messo in chiaro un funzionario al Times of Israel, se Hamas chiederà la fine della guerra a Gaza come condizione “noi non siamo disposti a farlo”. I colloqui di Doha hanno riguardato anche la guerra in Libano, l’Iran e la sua influenza nella regione. All’indomani dell’attacco ai sistemi di difesa e alla produzione di missili di Teheran, Netanyahu ha avvertito alla Knesset che l’Iran sta ancora cercando di creare “bombe nucleari per distruggere Israele” e “minacciare il mondo intero”.

E ha promesso di voler “continuare il processo” che qualche anno fa ha portato agli Accordi di Abramo “con altri Paesi arabi” interrotto dall’attacco del 7 ottobre. Nel frattempo però la regione resta in fiamme: a Gaza i morti hanno superato quota 43.000 secondo il bilancio fornito da Hamas, mentre al confine con il Libano continua lo scambio di fuoco tra l’Idf e Hezbollah. In visita a Gerusalemme, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha ribadito al collega Yoav Gallant la necessità di “proteggere l’Unifil e la popolazione civile”. Dalla comunità internazionale si moltiplicano anche gli appelli contro la legge all’esame della Knesset che mira a limitare l’attività dell’Unrwa a Gerusalemme est e in Cisgiordania a favore della popolazione palestinese. Washington ha chiesto a Israele di non approvarla, mentre Londra la giudica “molto grave”: l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha ricordato il ministro David Lammy, “salva vite umane”.

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Siria, decine di esecuzioni sommarie di fedeli di Assad

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E’ l’ora della resa dei conti in Siria. Il regime di Assad si è dissolto ma la guerra civile continua più violenta che mai, con la furia che si è scatenata contro gli aguzzini del deposto rais. Li sono andati a prendere nelle loro case, tirati giù dai nascondigli improvvisati. Trascinati in strada, a Latakia, porto nord-occidentale siriano per decenni descritto come la roccaforte dei clan alawiti associati al potere degli Assad. Membri di quelle che fino a pochi giorni fa erano le temibili mukhabarat, i servizi di controllo e repressione governativi, sono stati giustiziati con colpi di pistola alla tempia o raffiche di mitra su tutto il corpo.

Sorte analoga ma più cruenta è toccata ad altri esponenti degli apparati di sicurezza del regime: uccisi e i loro cadaveri trascinati a lungo per le strade di Idlib, roccaforte dei jihadisti ora al governo a Damasco, mentre la folla inferocita li prendeva a calci. Sono state decine le esecuzioni sommarie condotte oggi in varie regioni della Siria, in particolare nelle zone di Idlib, Latakia, Hama, Homs e Damasco. Una violenza che viene da lontano e che sta riemergendo con tutti i suoi veleni in queste frenetiche ore di vendetta, seguite all’euforia della “liberazione” delle ultime 48 ore.

Almeno 40 cadaveri accatastati con evidenti segni di tortura e con fresche tracce di sangue sono stati rinvenuti a Damasco nell’ospedale militare di Harasta. “Ho aperto la porta dell’obitorio con le mie mani ed è stato uno spettacolo orribile: una quarantina di corpi erano ammucchiati, con segni di terribili torture”, ha raccontato uno dei primi miliziani di Hayat Tahrir ash Sham giunto nel tristemente noto ospedale-mattatoio di Harasta. E’ anche il giorno in cui continuano a riemergere testimonianze scioccanti delle sevizie compiute per decenni dagli aguzzini del regime nei confronti dei detenuti politici nella prigione di Saydnaya.

Nel carcere-inferno è stata trovata una delle sale di tortura: una serie di corde da impiccagione rosse di sangue rappreso, una pressa meccanica per “schiacciare i corpi” senza vita, che venivano poi spostati nella “sala dell’acido e del sale”, dove “venivano sciolti”. Sull’onda di una rabbia antica e incistata nelle pieghe di una società violentata da troppo tempo, il leader dei miliziani jihadisti Ahmad Sharaa (Jolani) in mattinata aveva annunciato l’intenzione di pubblicare una lista dei “nomi degli ufficiali più anziani coinvolti nella tortura del popolo siriano”.

“Offriremo ricompense a chiunque fornisca informazioni su alti ufficiali dell’esercito e della sicurezza coinvolti in crimini di guerra”, si leggeva nell’annuncio di Sharaa. Mentre il premier incaricato, Muhammad Bashir, ha promesso che il suo nuovo governo “scioglierà i servizi di sicurezza” del dissolto regime. Ma se gli ufficiali più anziani delle mukhabarat sono quelli che hanno maggiori risorse per fuggire all’estero o per nascondersi meglio, la furia si è abbattuta sui quadri medio bassi del sistema di repressione. “Lui è complice dei massacratori di Tadamon”, afferma un miliziano in uno dei video  indicando un presunto militare governativo, fermato dagli insorti. Il quartiere damasceno di Tadamon aveva visto nell’aprile 2013 l’uccisione di 41 civili da parte di soldati di Assad.

Come era emerso allora da una serie di video, confermati dagli inquirenti internazionali, le vittime erano state invitate a correre verso una fossa e in corsa venivano falcidiate da raffiche di mitra, cadendo morti nella fossa. In un altro filmato, girato nella località di Rabia, a ovest di Hama, due uomini, accusati di aver commesso crimini “contro i siriani”, sono circondati da uomini armati e in divisa. Urlano addosso ai due l’accusa di essere “maiali alawiti”. Seguono gli spari. Altre raffiche di fucili automatiche sono esplosi insistenti contro un camion aperto sul retro con a bordo miliziani filo-curdi catturati sul fronte orientale di Dayr az Zor.

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Corea Sud, arrestati capi della polizia nazionale e di Seul

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Il capo della polizia nazionale della Corea del Sud e quello di Seul sono arrestati per il loro ruolo nell’applicazione del decreto di breve durata sulla legge marziale del presidente Yoon Suk-yeol del 3 dicembre, dichiarata in serata e ritirata sei ore dopo per la bocciatura decisa dal Parlamento. E’ quanto riportano i media locali, ricordando che lo sviluppo è maturato a sole poche ore dalla presentazione della nuova mozione di impeachment contro Yoon da parte delle opposizioni guidate dal partito Democratico che dovrebbe essere votata sabato dall’Assemblea nazionale. In precedenza, l’ex ministro della Difesa e strettissimo collaboratore di Yoon, Kim Yong Hyun, è stato arrestato formalmente dopo che un tribunale di Seul ha approvato la misura cautelare nei suoi confronti per le accuse sul ruolo chiave ricoperto nell’imposizione della legge marziale e per abuso di potere. Kim è la prima figura di alto livello arrestata nella vicenda.

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Netanyahu alla sbarra, testimonianza fiume in tribunale

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Lo Stato di Israele contro Benyamin Netanyahu: per la prima volta un premier in carica si è seduto martedì al banco degli imputati per testimoniare in un processo, con numerosi capi d’imputazione, e rispondere ad accuse gravi che vanno dalla frode alla corruzione. Entrato alle dieci del mattino in una gremita e superprotetta aula del tribunale distrettuale di Tel Aviv, il primo ministro ha parlato per cinque ore difilato. Secondo round mercoledì dal primo pomeriggio fino a sera, e così via per tre giorni a settimana almeno per i prossimi 15 giorni. Come hanno stabilito i giudici respingendo tutti i ricorsi per rinviare (l’ultimo presentato da 12 ministri domenica) in cui si chiedeva di tener conto del delicato momento politico con la crisi in Siria e la guerra a Gaza in corso, che già gli è valsa una lunga dilazione.

Ad accogliere Netanyahu in aula, una folla di ministri e politici a sostegno. Presente anche Avner Netanyahu, il figlio più giovane del primo ministro, mentre la moglie Sara e il maggiore Yair sono a Miami. Fuori, davanti al tribunale, manifestanti divisi tra pro e contro: da una parte i familiari degli ostaggi con le foto dei loro cari ancora prigionieri a Gaza, dall’altra i pro-premier. Polizia a cavallo e sicurezza dappertutto.

Completo blu, spilletta degli ostaggi su un revers e bandierina israeliana sull’altro, parlando con la sua voce da oratore il primo ministro ha tentato di minimizzare le pesanti accuse ricordando a tutti che Israele sta affrontando problemi molto più grandi e ha già cambiato il volto del Medio Oriente: “Ora è la politica che conta, non la copertura mediatica positiva (per la quale è accusato di aver scambiato favori)”, ha detto perentorio.

Respingendo con veemenza l’immagine di uomo potente dedito a godersi i lussi, e descrivendosi come uno spartano servitore dello Stato, dedito alla lettura di libri di storia e biografie, uno che lavora 24 ore su 24, rinunciando al tempo con la sua famiglia: “Se ogni tanto fumo un sigaro, non ho tempo di finirlo. E per quanto riguarda lo champagne, non sopporto quella roba”, ha ironizzato riferendosi al capo d’imputazione secondo cui avrebbe ricevuto sigari e champagne dal magnate di Hollywood Arnon Milchan e dal miliardario James Packer.

Nel più grave dei tre casi a suo carico, il primo ministro è accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia perché avrebbe firmato un provvedimento favorevole al magnate dei media Shaul Elovitch, azionista di controllo di Bezeq, la più grande compagnia di telecomunicazioni israeliana, in cambio di una copertura positiva su Walla News, sito web di proprietà di Elovitch nel 2012. Secondo i pubblici ministeri, l’accordo sarebbe stato siglato durante una cena di 12 anni fa in cui Netanyahu e sua moglie Sara lo hanno ospitato. “Non c’è stato alcun accordo, niente di niente”, si è difeso Netanyahu, “con Elovitch e sua moglie Iris si è instaurato un legame, ma non la relazione stretta che è stata descritta.

All’epoca Walla si mostrò straordinariamente ostile. C’è un motivo per cui è stato chiamato ‘Walla Akbar'”, gioco di parole sulla frase in arabo Allahu akbar (Dio è il più grande). Poi ha voluto chiarire sulla moglie Sara (la quale, si racconta nei salotti di Tel Aviv, avrebbe un documento segreto che metterebbe nei guai Bibi se la tradisse): “Lei non interferisce nella politica né nei colloqui”. Lasciato il tribunale, Netanyahu ha ripreso le funzioni di capo del governo rilasciando dichiarazioni di fuoco e avvertimenti al nuovo regime siriano.

Nessuna parola invece sulle trattative in corso per liberare gli ostaggi, che i Paesi mediatori così come funzionari israeliani di alto livello danno a un buon punto, tanto da indicare una data per il rilascio: tra un mese (prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, insomma). Anche un’importante fonte egiziana ha riferito a Ynet che l’annuncio di un’intesa che porterà ad un cessate il fuoco a Gaza e al rilascio degli ostaggi è “molto vicina”.

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