Ed il mondo si fermò.
All’improvviso si fermò. Così da consentire agli uomini di guardarsi dentro un po’.
E l’uomo scoprì di avere molti più difetti di quanti immaginasse.
Se ne potrebbe scrivere un trattato di numerosi tomi, ma il difetto, della cui gravità personalmente avevo trascurato gli effetti, è l’approssimazione.
Non il concetto tecnico matematico che, in realtà, rappresenta qualcosa di positivo, e cioè una rappresentazione di una qualche grandezza che, pur essendo fatta in modo inesatto, è tuttavia abbastanza precisa per poter essere di una qualche utilità pratica. No, non quello ma il significato comunemente acquisito, per estensione direi, e cioè l’essere approssimativo, l’imprecisione, la superficialità, l’inesattezza o, addirittura, la negligenza.
Tutte caratteristiche che sostanzialmente prescindono dalla preparazione tecnica e dalla capacità di intervenire tempestivamente. O peggio ancora proprie di chi dà per scontato di averle, senza che intervenga nessun elemento oggettivo di riscontro, nè base scientifica a sostegno. Ecco, per non menarla a lungo, ve lo spiego con una espressione molto in uso dalle nostre parti: i ciucci e presuntuosi.
Quando ho iniziato la mia battaglia contro la criminalità organizzata della provincia di Caserta, contro il clan dei casalesi, allora considerata una mafia potentissima e pericolosissima, ero giovane, inesperto ed avevo tanta paura. Ma i miei maestri, che si chiamavano Franco Roberti e poi Cafiero De Raho, mi hanno subito fatto capire il metodo da utilizzare.
L’ho dovuto imparare velocemente per non rischiare di essere travolto dagli eventi, che all’epoca avevano le facce minacciose dei Setola, degli Zagaria, degli Schiavone. E, nel tempo libero (ça va sans dire, si fa per dire) dei Mazzarella, dei Sarno o dei La Torre di Mondragone.
Gente dal pedigree criminale ragguardevole, protagonisti di centinaia di omicidi e tanto spietati da essere capaci di avvelenare la propria terra e i loro concittadini.
Un metodo sì, in altri termini una strategia, quella che lo Stato dovrebbe sempre avere nella lotta al crimine organizzato, ma in assoluto ad ogni male che minaccia le comunità.
La mia, la nostra, strategia è stata l’equilibrio. Quel sottile equilibrio che si crea attraverso un mix di competenza, passione e rapidità di intervento. Praticamente il contrario della approssimazione.
Devi intervenire prima di tutto con cognizione di causa, devi conoscere il tuo nemico, lo devi studiare, senza delegare. Il che significa che ti devi mettere tu a faticare, a sgobbare sui libri, a cercare di capire, non ti puoi, nè ti devi fidare di quel che ti dicono, o almeno lo devi sempre sottoporre a vaglio critico. Anche quando a riferirtelo sono i cosiddetti tecnici.
Peraltro, soprattutto sui fenomeni nuovi, improvvisi ed altamente aggressivi, i veri tecnici sono pochi, poiché le basi scientifiche sono ancora traballanti. E per essere un bravo tecnico non basta una laurea o una medaglia qualunque appiccicata da qualcuno sul petto. In ogni settore ci sono tecnici e tecnici.
La capacità, la bravura sta proprio nel selezionare ed assoldare il tecnico giusto.
Ma anche per fare questo ci vuole competenza!
A volte ci vuole anche intuito e coraggio. Tutti ingredienti necessari per guardare aldilà del titolo e delle apparenze. Per essere avveduti e lungimiranti.
Poi ci vuole la passione. È un elemento imprescindibile. È quello che ti fa superare gli ostacoli che ti sembrano insormontabili. Devi metterci il cuore come si dice comunemente. È quell’amore per il prossimo che ti fa andare avanti sempre, fino allo stremo delle forze, anche quando tutto e tutti ti suggeriscono di mollare.
Ed, infine, la rapidità che non sembra, ma rappresenta il problema forse più serio.
Mia mamma mi diceva fin da piccolo che “a pittare sono bravi tutti”, riprendendo credo un detto popolare.
Ho capito con la maturità cosa intendesse.
È come quel cecchino che è infallibile in allenamento, ma che non riesce a mantenere la freddezza e la concentrazione necessaria nella concitazione della battaglia.
Ecco, noi siamo stati in battaglia e lì abbiamo imparato a combattere.
L’esperienza che si fa sul campo ti dà quella sicurezza e quella capacità operativa che serve nei momenti drammatici.
Quando quasi non c’è neanche il tempo di pensare, devi agire e basta e non c’è margine di errore.
Devi prendere le decisioni giuste e farlo rapidamente. Non c’è spazio né per tentennamenti, né tantomeno per ripensamenti.
Non c’è bisogno di scomodare i Classici, ma talvolta si farebbe bene almeno a conoscerli, per cogliere le doti di un buon condottiero e la sua capacità di essere leone, volpe e centauro.
Dove il leone simboleggia la forza, la volpe l’astuzia, il centauro la capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l’uomo.
Abbiamo dovuto imparare la virtù del condottiero che è l’insieme di competenze che servono per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni indipendenti dalla sua volontà.
Il compito di rendere giustizia in momenti drammatici ha molto di politico, inteso come servizio per la collettività.
La virtù è un insieme di energia e intelligenza: il “principe” deve essere acuto, ma anche efficace ed energico.
La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l’occasione adatta per affermarle, e viceversa l’occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne.
Questa tragedia che stiamo vivendo, purtroppo mi fa pensare proprio al peso che si deve sopportare quando si devono prendere decisioni senza essere leoni, né centauri. E pensare ai poveri soldati. È come sentirsi senza comandante, smarriti sul campo di battaglia. Sai che dovresti combattere, ma ti senti mancare le forze.
Ti dicono che ti devi fidare, ma purtroppo la tua mente è diffidente. Ed il tuo cuore ancor di più.
Vorresti fare gruppo, ma ti senti solo coi tuoi pochi compagni, vi guardate negli occhi e leggete solo lo smarrimento reciproco.
Ecco, ci si sente così. Ma poi cerchi di farti forza e di fare forza, lo fai per i figli, per i cari, per gli amici.
Sai che ti viene chiesto uno sforzo inumano, ma lo devi fare, non perché te lo chiede il comandante, ma perché è così.
Non sarebbe dovuto accadere. Non sai neanche con chi te la dovresti prendere.
Non è giusto, ma è così.
È così e basta!
Per farti coraggio, per convincerti, per andare avanti, però, ti dici che non succederà mai più, che mai e poi mai seguirai un comandante senza esperienza che, nella migliore delle ipotesi, non sa scegliere i tecnici giusti e che rischia di distruggere tutto, di portare tutti al massacro.
Ma, poi, in un modo o nell’altro l’emergenza passerà, lo racconterai con un residuo di rancore ancora per un po’, ne parlerai con gli amici sopravvissuti al bar, col tempo ti resterà solo un brutto ricordo.
Poi sarai preso dalla quotidianità, gli esperti, quelli veri, torneranno ad essere messi da parte e tutto tornerà come prima, in attesa della prossima calamità.
“Siamo diventati una civiltà di gente che vuol vedere, non sente più, sente male, per mancanza di conoscenza, per ignoranza”. Polemico, anche se “felice di essere qui con i miei giovani musicisti dell’Orchestra Cherubini”, Riccardo Muti ieri sera al Teatro Pergolesi di Jesi, in provincia di Ancona, ha inaugurato le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita (avvenuta nella vicina Maiolati) di Gaspare Spontini, con un concerto al termine del quale ha attaccato l’oblio in cui è caduta tanta parte del patrimonio musicale italiano. Un discorso molto politico, “anche se la politica dal podio non si fa”, diretto soprattutto “a chi ha in mano le sorti del nostro Paese” per chiedere più attenzione per la musica, lungo oltre 20 minuti, punteggiato dagli applausi del pubblico.
La musica italiana “ha dominato il mondo con Spontini a Berlino, Mercadante a Madrid, Cherubini a Parigi, Salieri e, ancora prima, Porpora e a Vienna, Cimarosa e Paisiello a San Pietroburgo. I nostri compositori hanno fatto l’Europa, prima dei nostri politici ed economisti”. Muti ha elogiato le Marche, una regione che “ha dato i natali a tantissimi artisti, non solo nel campo dell’architettura e della pittura, ma anche della musica. Voi avete a distanza di pochi chilometri Giovan Battista Pergolesi (nato proprio a Jesi, ndr) e Spontini”. E ha elogiato le due città che “si stanno prodigando per sottolineare l’importanza di questi due giganti della musica”, ma “molte persone non sanno chi sono e questa è una vergogna per noi”. Perché “la musica italiana non è semplicemente l’espressione sguaiata di note acute tenute all’infinito, ma la nostra storia è una storia di nobili e grandi compositori”. Compositori che “hanno fatto l’Europa prima dei nostri politici ed economisti”.
“Pensate che Spontini era un re prima a Parigi e poi a Berlino – ha detto ancora Muti -, e nelle memorie di Wagner si legge che quando Spontini arrivò a Dresda per dirigere La Vestale scese da una carrozza principesca venendo da un’umile casa di Maiolati. Wagner s’inginocchia addirittura davanti a lui”. Due colossi della musica “dimenticati”: “Pergolesi era ammiratissimo da Bach, all’età di 26 anni muore lasciandoci dei capolavori incredibili”. Capolavori raramente eseguiti e lo stesso accade per La Vestale o l’Agnese di Hohenstaufen di Spontini o altre opere. “Va bene il ‘Vincerò’ che dura mezz’ora ed è anche piacevole – ha ironizzato il maestro – ma non rappresenta tutta la nostra musica”. E “se andate a vedere la partitura di Puccini, non esprime ‘ad libitum’ fino a quando tutti quanti, presi da frenetici orgasmi, urlano uau”. “Cosa è successo al nostro Paese? – si è chiesto Muti -. E’ successo che nelle grandi occasioni ci si veste bene, si compare nei palchi e poi si scompare? O dobbiamo metterci in testa che la musica e la storia della musica insegnata bene e portata alle nuove generazioni possa migliorare il futuro del nostro Paese?”.
Tutto queste però “non succede” e per questo il pubblico non sa più ascoltare. “Noi abbiamo in debito verso il nostro passato – si è accalorato -, abbiamo una storia infinita di bellezza e arte che molti ragazzi oggi non conoscono e che sta diventando solamente un’occasione di ascolto per alcuni privilegiati. Non sono un politico, ma con grande malinconia mi avvicino alla fine della vita perché noi non siamo più degni delle radici su cui abbiamo fatto spuntare fiori, o alberi o foglie”. “Verdi rimane il Michelangelo del musica e ha coperto tutto l’Ottocento”. E anche Puccini è rappresentativo di un certo periodo. Ma “quando Spontini scrive la Vestale, dentro c’è tutto quello che poi Wagner prenderà. Questo siamo e questo dovrebbero sapere quelli che guidano l’Italia e questo dovrebbero insegnare a scuola”.
La parola d’ordine è trasparenza. Quella chiesta a gran voce dall’industria culturale e creativa davanti allo sviluppo vertiginoso dell’intelligenza artificiale generativa (IA). L’appello è stato raccolto dall’Ue, che con l’AI Act, appena vidimato dal Parlamento europeo, sta provando a creare uno scudo a tutela di giornalisti, scrittori, musicisti, registi, chi vive insomma della propria creatività. Si parla di professioni che rischiano di essere travolte dalla nuova tecnologia alimentata dal petrolio dell’economia digitale: i dati. Le loro opere – canzoni, libri, reportage, film – sono impiegate sia per addestrare i cosiddetti modelli linguistici di grandi dimensioni, su cui si basano sistemi come ChatGPT, sia per creare opere derivate. Si può ritenere questo processo come una violazione del diritto d’autore? Secondo il New York Times la risposta è affermativa.
In un caso destinato a fare scuola, la Vecchia Signora in Grigio ha portato in tribunale Microsoft e OpenAI, la società nota per aver creato ChatGPT, accusandole di aver copiato e utilizzato illegalmente i suoi articoli per addestrare i modelli di IA. I due colossi tech non hanno rivelato pubblicamente la composizione dei dataset su cui viene istruita la nuova tecnologia. Ed è su questo che interviene l’AI Act. I sistemi come ChatGPT e i modelli su cui si basano dovranno, infatti, soddisfare determinati requisiti di trasparenza e rispettare le norme europee sul diritto d’autore durante le fasi di addestramento dei vari modelli.
“Un passaggio importante” per Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) e di Confindustria Cultura Italia (Cci), secondo cui le richieste del mondo delle industrie culturali e creative “hanno trovato orecchie attente nel governo italiano e in modo trasversale tra gli europarlamentari che hanno votato a favore dell’AI Act”. “La trasparenza – ha evidenziato – è il requisito per poter analizzare criticamente gli output dell’IA e, per chi detiene i diritti, sapere quali opere sono utilizzate nello sviluppo di questi strumenti, se provengono da fonti legali e se l’uso è stato autorizzato”.
Ma la strada è ancora lunga. La legge europea è solo “un primo passo per far valere i propri diritti”, ha commentato un’ampia coalizione di organizzazioni dei settori creativi e culturali europei, esortando a mettere in pratica “queste importanti norme in modo significativo ed efficace”. A fare la differenza sarà l’attuazione della normativa, la definizione degli standard, ma anche la previsione di una policy a tutela del diritto d’autore che affronti ad esempio la questione della remunerazione dei detentori dei diritti per l’uso di opere coperte da copyright.
Dopo Pesaro per il 2024 e Agrigento per il 2025 è l’Aquila la città scelta come capitale italiana della cultura 2026. A proclamarla è stato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano nel corso della cerimonia che si è svolta a Roma, nella Sala Spadolini del ministero, alla presenza della giuria presieduta da Davide Maria Desario e composta da Virginia Lozito, Luisa Piacentini, Andrea Prencipe, Andrea Rebaglio, Daniela Tisi, Isabella Valente, e dei rappresentanti di tutte e dieci le città finaliste: oltre all’Aquila, Agnone (Isernia), Alba (Cuneo), Gaeta (Latina), Latina, Lucera (Foggia), Maratea (Potenza), Rimini, Treviso, Unione dei Comuni Valdichiana Senese (Siena). “L’Aquila è una città ricca di storia e di identità e merita certamente di essere capitale della cultura” dice parlando con i giornalisti Sangiuliano, che ricorda anche come la commissione sia “assolutamente autonoma e indipendente dalla mia persona”. Il ministro avrebbe voluto dare “questo riconoscimento a tutte le città che erano candidate, questo purtroppo non era possibile. Adesso studieremo un modo per coinvolgerle in questo momento”.
L’Aquila “si avvia a celebrare i 15 anni del terremoto – commenta il sindaco della città Pierluigi Biondi -. Essere capitale italiana della cultura non è un risarcimento, ma rappresenta un elemento attorno a cui ricostruire il tessuto sociale della nostra comunità”. La cultura “è un elemento fondante, è recupero dell’identità e proiezione nel futuro – aggiunge – . Le altre città finaliste saranno parte di questo percorso. Vi garantiamo che saremo all’altezza del compito che ci assegnate… viva l’Italia”. Il progetto presentato dal capoluogo abruzzese è intitolato ‘L’Aquila Città multiverso’ ed è “un ambizioso programma di sperimentazione artistica per la creazione di un modello di rilancio socio-economico territoriale a base culturale, capace di proiettarla verso il futuro seguendo i quattro assi della Nuova Agenda Europea della Cultura: coesione sociale, salute pubblica benessere. creatività e innovazione, sostenibilità socio-ambientale”, si legge nelle linee guida. “Siamo molto felici, è un altro segno di rinascita dell’Abruzzo – commenta Marco Marsilio, appena confermato alla presidenza della Regione -. Sapevamo di essere molto competitivi e che il dossier presentato era eccellente. La giuria lo ha riconosciuto”. Il progetto dell’Aquila “ci ha convinto per la sua qualità, ma anche per aspetti come il budget, la capacità di includere per tutto l’anno i territori e per il coinvolgimento dei giovani” spiega Davide Maria Desario, presidente della giuria. Ognuno dei progetti delle città finaliste “rappresenta l’emblema dell’Italia come vorremmo che fosse, l’Italia del fare”. Per questo Desario torna a lanciare la proposta (poi accolta dal ministro, ndr) “che oltre oltre al premio alla città vincitrice si integri il bando con un riconoscimento anche alle altre finaliste”. Fra le reazioni alla vittoria, prevalgono le congratulazioni da parte delle altre città finaliste ma si solleva anche qualche polemica.
“A pensar male si fa peccato ma, come dice l’adagio, spesso si indovina. O forse è solo un caso che, a pochi giorni, dalle elezioni regionali in Abruzzo il titolo sia stato conferito proprio a La città de L’Aquila?” si chiede in una nota il deputato del Pd Andrea Gnassi, ex sindaco di Rimini. Critico anche l’attuale sindaco della città romagnola Jamil Sadegholvaad che fa i complimenti a L’Aquila ma parla di “invasioni di campo preventive scomposte anche da parte di chi dovrebbe essere super partes” nella competizione. Il nostro auspicio “è che Rimini e la Romagna alluvionata possano essere Capitale italiana della cultura l’anno successivo – commenta il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini -, a partire proprio dall’alluvione senza precedenti del maggio 2023 da cui hanno saputo subito risollevarsi e ripartire”. Invece il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle del Molise Andrea Greco oltre a esprimere il rammarico per la sconfitta di Agnone (Isernia) che era tra le dieci finaliste, critica Bruno Vespa, che avrebbe dimostrato “una meno che sufficiente caratura giornalistica” per l’endorsement a L’Aquila che avrebbe fatto sulla tv pubblica alla vigilia della designazione: “E’ stato per lo meno spiacevole per non utilizzare altri termini”.