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Napoli e i media, le distorsioni che alimentano lo stigma di una città di sangue senza fede e speranza

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Negli ultimi mesi, Napoli ha pianto la perdita di tre giovani, vittime di una violenza cieca, sanguinaria, drammatica. Episodi che avrebbero dovuto far riflettere e spingere a un racconto equilibrato, attento, rispettoso della realtà e del dolore. E invece no. Di fronte a ogni tragedia che colpisce questa città, i media mainstream sembrano rinnovare una perversa voglia di stigmatizzare, di alimentare lo stereotipo, di dipingere Napoli come un palcoscenico di sangue e camorra, senza speranza.

L’ultimo caso della morte di Arcangelo Correra, un ragazzo di 18 anni rimasto ucciso in circostanze tragiche e tuttora poco chiare, ha dimostrato ancora una volta la prontezza con cui certi media si lanciano a capofitto su un racconto deformato. Le prime notizie? Hanno parlato di una esecuzione della camorra, di killer a sangue freddo, di un ragazzo “condannato” da una faida che si dipana nei vicoli del centro storico di Napoli. Tutto questo, senza uno straccio di prova, senza un minimo di verifica, senza una fonte degna che suffragasse tesi idiote e banali. E quando i fatti hanno iniziato a emergere, rivelando che si trattava forse di una tragica fatalità, l’eco mediatica non ha fatto marcia indietro, lasciando che l’errore alimentasse il circuito del pregiudizio.

È una logica brutale e ingiusta. Napoli non è una metafora su cui speculare, non è una caricatura utile per suscitare scalpore, né un luogo destinato ad essere raccontato con la lente del sospetto e del disprezzo. Ogni volta che accade un fatto di cronaca, una frangia di giornalisti e commentatori si sente in dovere di pontificare su Napoli, sui suoi cittadini, sulla camorra e sul “degrado sociale”. Un’opinione fondamentalmente ignorante e pregna di giudizi affrettati, spesso emessi da chi non ha mai neppure respirato l’aria dei Quartieri Spagnoli o del Rione Sanità. Eppure, il diritto di sentenziare è dato per scontato, come se Napoli fosse una realtà a disposizione del pubblico schermo.

L’informazione dovrebbe rappresentare la verità, non amplificare l’immaginario di una Napoli a tinte fosche, non accendere i riflettori su uno stereotipo che non fa altro che alimentare il disprezzo e allontanare il resto del paese da una realtà ben più complessa. Ogni tragedia strumentalizzata è una pugnalata alla città, che deve sopportare lo stigma, subire il peso dell’ignoranza e la superficialità di chi sceglie le prime pagine senza preoccuparsi della verità.

È ora di dirlo chiaramente: Napoli non è solo la somma delle sue ferite e dei suoi dolori. E chiunque racconti questa città ha la responsabilità di farlo con rispetto, con il coraggio di ascoltare, di scavare e di restituire un’immagine che vada oltre la paura e il pregiudizio. Non è chiedere troppo; è solo chiedere dignità e rispetto per una città che, come tutte, merita di essere capita e non solo sfruttata.

Ostinarsi a spiegare Napoli con il solito ritornello della camorra e dei suoi “stracci assassini” è una narrativa che tradisce la realtà e non aiuta a costruire una visione costruttiva. Questo modo di raccontare non illumina Napoli, non ci fa vedere dove si potrebbe migliorare, chi potrebbe essere un alleato o un avversario, chi merita sostegno e chi necessita di opposizione. E, cosa ancor più grave, allontana Napoli da sé stessa, dai suoi cittadini e dalla loro voglia di riscatto.

Ogni volta che accade un fatto di cronaca, i media sembrano attivarsi come su un riflesso condizionato, richiamando i soliti nomi, i cosiddetti “esperti” che vivono a Milano, Roma, Miami, o chissà dove, per darci lezioni su cosa è Napoli oggi. E ogni volta, dalle pagine dei giornali o dagli schermi televisivi, vediamo uscire un’immagine che è lontana dalla Napoli reale: è la Napoli che alcuni vogliono vedere, non quella che Napoli è.

Questa è una deformazione, un inveramento dei pregiudizi, una caricatura che nasconde una metropoli ricca, complessa, piena di sfumature. Ridurre la città alla solita sceneggiatura di camorra, pizza e mandolino è, ormai, non solo una banalità ma un affronto. Napoli è molto di più. È una città che resiste, che vive di cultura, di lavoro e di impegno, di talento e innovazione.

Forse è arrivato il momento che anche chi racconta Napoli impari a capirla per davvero, a entrare nelle sue dinamiche con occhi aperti e cuore libero da pregiudizi. Solo allora potremo vedere emergere, tra le sue mille contraddizioni, la vera Napoli: quella che lotta, che crea, che cerca un futuro oltre gli stereotipi.

Concludo questo articolo tornando al punto di partenza: ci sono tre ragazzi morti, tre vite spezzate, tre giovani travolti da una violenza cieca e assurda. E dietro queste tragedie c’è un dolore che appartiene a intere famiglie, amici, persone comuni. A loro va concesso rispetto. È verso di loro che bisogna rivolgere uno sguardo serio e rigoroso, non per cancellare queste tragedie ma per affrontarle in profondità, per imparare, per lavorare affinché non accadano più.

Napoli non può restare prigioniera della sua storia di contrasti. Occorre pensare a una Napoli diversa, migliore, e per farlo bisogna lavorare sulle radici di questo male, attaccandole con forza e costanza. Lo Stato ha il compito di intervenire, di usare tutti i mezzi legali e la forza del monopolio della violenza di cui dispone per levare di mezzo le armi, non solo dalle mani dei criminali ma anche dai troppi che le detengono legalmente, e soprattutto per impedire che i giovani possano acquistare armi con facilità sul mercato nero. L’altra grande battaglia è contro la diffusione della droga, un veleno che alimenta il degrado, la disperazione, la violenza.

Non basta raccontare la città, bisogna cambiarla. E per farlo, occorre combattere sulle vere cause, agire con fermezza, dare ai giovani alternative reali e spazi di crescita, non lasciarli intrappolati tra l’ombra delle armi e l’inganno della droga. Solo così si potrà sperare in una Napoli che non sia più teatro di queste tragedie, ma una città in cui il rispetto per la vita prevalga finalmente sulla cultura della morte.

Giornalista. Ho lavorato in Rai (Rai 1 e Rai 2) a "Cronache in Diretta", “Frontiere", "Uno Mattina" e "Più o Meno". Ho scritto per Panorama ed Economy, magazines del gruppo Mondadori. Sono stato caporedattore e tra i fondatori assieme al direttore Emilio Carelli e altri di Sky tg24. Ho scritto libri: "Monnezza di Stato", "Monnezzopoli", "i sogni dei bimbi di Scampia" e "La mafia è buona". Ho vinto il premio Siani, il premio cronista dell'anno e il premio Caponnetto.

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Esteri

Caso Epstein, Trump travolto da nuove rivelazioni: il tycoon ordina indagini sui Dem

Un’email di Epstein rivela che nel 2017 trascorse il Thanksgiving con Donald Trump. Il tycoon nega e contrattacca, ordinando indagini sui rapporti del finanziere con Bill Clinton e altri democratici.

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Una nuova email di Jeffrey Epstein datata 23 novembre 2017, giorno del Thanksgiving, riapre un caso che Trump sperava di aver chiuso da anni.
Il Thanksgiving? L’ho passato con Trump”, scriveva l’allora finanziere nella corrispondenza privata, smentendo la versione ufficiale del tycoon che aveva sempre sostenuto di aver interrotto i rapporti con Epstein dal 2004.

La notizia, riportata dal Wall Street Journal, alimenta una nuova ondata di polemiche intorno al presidente americano, già travolto da inchieste e accuse legate al suo passato.


Trump contrattacca: “Indagate su Clinton, non su di me”

Messo all’angolo dalle rivelazioni, Donald Trump sceglie l’attacco.
Dal suo social Truth, ha annunciato di aver ordinato un’indagine ufficiale sui rapporti di Epstein con Bill Clinton, Larry Summers, Reid Hoffman e i vertici di J.P. Morgan e Chase, accusati di aver “agevolato traffici illeciti”.

Ora che i Democratici usano la bufala di Epstein per distogliere l’attenzione dal loro disastroso shutdown – ha scritto Trump – chiederò alla procuratrice generale Pam Bondi e al Dipartimento di Giustizia di indagare sui legami tra Epstein e i Dem. È una nuova Russia-gate, ma le prove portano a loro”.

Secondo l’ex presidente, Epstein era “un Democratico”, vicino a Clinton e ai grandi finanziatori del partito. “Chiedete a Bill Clinton e Larry Summers di Epstein: loro sanno tutto di lui. Io ho un Paese da governare!”, ha aggiunto, tentando di spostare l’attenzione dai sospetti che lo riguardano.


Il rischio politico: i repubblicani divisi e il voto sugli archivi Epstein

La difesa del tycoon arriva in un momento delicatissimo: la Camera si prepara a votare una misura bipartisan che chiede la pubblicazione di tutti i file del Dipartimento di Giustizia su Epstein.
Un voto che divide anche i repubblicani, alcuni dei quali sarebbero pronti ad appoggiare la proposta democratica.

Trump teme che un “no” possa trasformarsi in un boomerang politico, esponendo il partito all’accusa di voler proteggere un pedofilo.
E per la base MAGA, già irritata da alcune scelte del presidente — dall’apertura ai visti per lavoratori stranieri all’interventismo militare — sarebbe un tradimento inaccettabile.


Melania e il silenzio che pesa

Nell’affaire Epstein resta pesante il silenzio di Melania Trump, che frequentò la coppia Epstein-Maxwell negli anni Duemila, quando ancora lavorava come modella.
La First Lady non ha mai commentato pubblicamente la vicenda, limitandosi a minacciare azioni legali contro chi ha sostenuto che fu Epstein, e non l’agente Paolo Zampolli, a presentarla a Donald.


Le ombre di Maxwell e le paure del tycoon

A rendere più incandescente la situazione c’è anche il caso di Ghislaine Maxwell, ex compagna e complice di Epstein, condannata per traffico sessuale di minorenni.
Secondo alcuni report, Maxwell avrebbe goduto in carcere di trattamenti di favore, con la possibilità di comunicare via email con il suo avvocato per chiedere la commutazione della pena.

Per The Donald, le nuove rivelazioni rischiano di trasformarsi in una mina politica: se i file rivelassero anche solo mezza menzogna nelle sue dichiarazioni, il parallelo con il caso Clinton-Lewinsky diventerebbe inevitabile.


Una rete di potere trasversale

Molti osservatori sottolineano che la rete di Epstein attraversava entrambi gli schieramenti politici americani, con contatti tanto tra democratici quanto tra repubblicani.
E mentre Trump punta il dito sui suoi avversari, resta il sospetto che la sua offensiva serva a proteggere figure potenti del suo stesso network.

Il caso Epstein, insomma, continua a essere una bomba a orologeria nel cuore del potere americano — e potrebbe esplodere proprio mentre Trump tenta di consolidare il suo secondo mandato alla Casa Bianca.

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In Evidenza

Prodi scuote il centrosinistra: “Manca un’alternativa credibile a Meloni. È già tardi”

Primo piano di Romano Prodi in un’intervista, con sfondo neutro e toni istituzionali, accanto a un titolo di giornale che cita “riformismo e credibilità”.

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Romano Prodi torna a parlare e, come sempre, scuote la sinistra italiana.
In un’intervista al Corriere della Sera, l’ex premier e padre nobile del centrosinistra lancia un avvertimento durissimo: “Dall’opposizione arriva una lettura non sufficiente per costruire un’alternativa concreta di governo. Ed è già tardi, perché siamo oltre metà legislatura”.

Prodi mette nel mirino l’entusiasmo eccessivo del centrosinistra per il nuovo sindaco di New York, Mamdani: “Non è un modello, servono leader credibili e un riformismo concreto”.
Poi la stoccata a Elly Schlein, a cui dice di aver già espresso “preoccupazioni” perché “Meloni non realizza nulla, ma la sua forza è la durata: manca l’alternativa”.


“Leader credibili, non slogan”: il monito dell’ex premier

Le parole di Prodi suonano come una lezione di metodo e di sostanza.
Se proprio la sinistra vuole ispirarsi a modelli esteri – spiega – meglio guardare a Fiorello La Guardia o alle due nuove governatrici democratiche di Virginia e New Jersey, portatrici di un riformismo coraggioso”, ma sempre “concreto e orientato al cambiamento”.

E sull’attuale leadership dell’opposizione, da Schlein a Conte, Prodi è netto: “I leader possono nascere. O farsi”.
Una frase che pesa come un giudizio, e che mette a nudo la fragilità di una coalizione ancora senza una guida riconosciuta.


Schlein risponde con il silenzio, parlano i riformisti

La segretaria del Pd non replica direttamente, ma dall’assemblea delle “Città democratiche e progressiste” a Bologna rilancia il tema del “fare rete e conoscersi”, parlando di precariato e salario minimo.
A rispondere, invece, sono i riformisti dem, che leggono nell’intervento del Professore un incoraggiamento.

Il Pd deve avere leader capaci di parlare a tutto il Paese e non a una parte”, osserva Marianna Madia, tra le promotrici dell’incontro dei riformisti a Milano.
Per Graziano Delrio, Prodi invita a “non avere una visione parziale della società”, ricordando che “il riformismo è il motore del cambiamento”.


Il fronte riformista: “L’alternativa nasce dal pragmatismo”

Prodi dissipa un equivoco pernicioso: il riformismo non è poca ambizione, ma concretezza e responsabilità”, afferma Lia Quartapelle, che definisce il riformismo “l’antidoto alla destra conservatrice e alla sinistra parolaia”.
Sulla stessa linea Lorenzo Guerini, che richiama la necessità di “un riformismo coraggioso e realista per costruire l’alternativa”.

Da Italia Viva, Enrico Borghi sottolinea che “senza i riformisti non c’è alternativa a Giorgia Meloni. Solo un progetto pragmatico e non ideologico può parlare a quell’Italia che non si riconosce né negli estremismi né nel populismo”.


Il metodo “Prodi”: ricostruire prima di competere

Mentre Ernesto Maria Ruffini sceglie il basso profilo e prepara il primo incontro nazionale della sua associazione Più Uno, Prodi torna a essere il punto di riferimento di un mondo politico in cerca di direzione.
Il suo messaggio è chiaro: ricostruire la credibilità del centrosinistra prima di pensare a vincere le elezioni.

Un appello che suona come l’ultima chiamata per una coalizione che, divisa tra ideologia e tattica, non ha ancora trovato la sua voce comune.

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Esteri

Gli Stati Uniti autorizzano gli attacchi alle navi dei cartelli della droga: “Il fentanyl è una minaccia chimica”

Secondo un documento del Dipartimento di Giustizia, i cartelli della droga sono considerati obiettivi militari legittimi: il fentanyl è classificato come minaccia chimica e arma potenziale.

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Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha giustificato gli attacchi alle navi che trasportano droga nel Mar dei Caraibi, sostenendo che il fentanyl rappresenta una minaccia chimica per la sicurezza nazionale.
La notizia, riportata dal Wall Street Journal, si basa su un documento elaborato dall’ufficio di consulenza legale del Dipartimento e redatto nel corso dell’estate.

Secondo il testo, i cartelli della droga possono essere considerati asset militari legittimi a seguito della decisione dell’allora presidente Donald Trump di designarli come organizzazioni terroristiche straniere.


“Il fentanyl è stato usato come un’arma”

Nel documento si sottolinea che il fentanyl, al pari della cocaina, è stato utilizzato in passato come arma chimica.
Una classificazione che, secondo i giuristi del Dipartimento, permette di giustificare azioni militari preventive o difensive contro le imbarcazioni sospettate di trasportare la sostanza.

L’approccio rientra in una strategia più ampia di contrasto al traffico di fentanyl, un oppioide sintetico che negli ultimi anni ha causato decine di migliaia di morti per overdose negli Stati Uniti, configurandosi come una delle principali emergenze sanitarie e di sicurezza nazionale.


Una decisione che apre nuovi scenari

La posizione del Dipartimento di Giustizia segna una svolta senza precedenti: equiparare il traffico di droga a un atto di guerra significa autorizzare interventi armati fuori dal perimetro tradizionale delle operazioni antidroga.
Un passo che, secondo alcuni analisti, potrebbe ridefinire i confini del diritto internazionale in materia di sicurezza e uso della forza, soprattutto in aree extraterritoriali come il Mar dei Caraibi.

Gli Stati Uniti, secondo quanto riferito dal Wall Street Journal, avrebbero già condotto raid mirati contro alcune navi sospettate di trasportare carichi di fentanyl e cocaina.
L’obiettivo, scrive il quotidiano americano, è quello di interrompere alla fonte la catena di produzione e distribuzione della sostanza, considerata oggi la droga più letale del pianeta.

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