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Esteri

Musk attacca la Commissione Ue: è antidemocratica

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Non passa giorno dalla vittoria alle elezioni di novembre che il presidente eletto ed il ‘first buddy’ Elon Musk non inneschino una polemica con Paesi vicini e lontani facendo temere che i prossimi quattro anni possano essere caratterizzati da crisi e tensioni interne ed esterne. Il patron di Tesla e neo boss per l’efficienza governativa è ritornato a sferrare i suoi attacchi sul Vecchio Continente, questa volta accusando la Commissione europea di essere “antidemocratica”. “Il Parlamento europeo dovrebbe votare direttamente sulle questioni, non cedere l’autorità”, ha sostenuto Musk su X dopo il via libera di Strasburgo al nuovo esecutivo blustellato.

Non è la prima volta che il miliardario mette il naso negli affari politici di altri Paesi e soprattutto delle istituzioni europee. Un mese fa Musk ha avuto un litigio online con la vicepresidente uscente della Commissione europea Vera Jourova, definendola “l’epitome del male banale e burocratico” dopo che lei lo aveva accusato a sua volta di essere “promotore del male” nel mezzo della discussione sui modi per regolamentare il suo X. Lunedì scorso, invece, ha preso di mira il governo laburista britannico etichettandolo come “uno stato di polizia tirannico” e condividendo una petizione che chiede elezioni generali immediate. Naturalmente, la reazione irritata di Bruxelles non si è fatta attendere.

“Mi sembra che la legittimità democratica della Commissione europea, sulla base dei Trattati esistenti, sia ampiamente chiara a chiunque si preoccupi di ragionarci”, ha risposto secco il portavoce Eric Mamer, interpellato nel corso del briefing con la stampa. “Abbiamo avuto le elezioni europee, un dibattito e un voto di conferma a luglio” al Parlamento europeo con le “audizioni di 26 commissari, che sono state ampiamente rese pubbliche”, ha sottolineato.

In America intanto, dopo il clamore suscitato con la minaccia di imporre rigide tariffe non solo alla Cina ma anche agli alleati degli Stati Uniti come il Canada e il Messico, Trump continua a mescolare le carte, questa volta sull’immigrazione, chiamando in causa proprio il vicino meridionale.

“Ho avuto una bellissima telefonata con la nuova presidente del Messico, Claudia Sheinbaum Pardo”, ha dichiarato il presidente eletto sul suo social media Truth annunciando che la leader messicana “si è detta d’accordo a bloccare la migrazione dal Messico. Abbiamo anche parlato di cosa può essere fatto per fermare il flusso di droghe negli Stati Uniti. E’ stata una conversazione produttiva”. Il tycoon ha anche dichiarato che “il Messico fermerà chi vuole andare al nostro confine con effetto immediato. Questo contribuirà notevolmente a fermare l’invasione illegale degli Usa”. Ma non sono passate neanche due ore che la Sheinbaum ha smentito The Donald.

“Nella conversazione con Trump ho spiegato la strategia del Messico per affrontare il fenomeno della migrazione rispettando i diritti umani. Ribadiamo che la nostra posizione non è quella di chiudere i confini ma di costruire un ponte fra i governi e i popoli”, ha chiarito la presidente. Intanto dalle sue vacanze per il Thanksgiving a Nantucket Joe Biden ha detto la sua sulle recenti minacce del presidente eletto.

“I dazi sono controproducenti. Spero che ci ripensi”, ha dichiarato. “Siamo circondati dall’Oceano Pacifico, dall’Oceano Atlantico e da due alleati, Messico e Canada. L’ultima cosa che dobbiamo fare è iniziare a rovinare questi rapporti”. Poi, sollecitato dai giornalisti, il commander-in-chief ha fatto una lista di cose per le quali è grato, come tutti gli americani nel giorno del Ringraziamento. “La mia famiglia, la transizione pacifica della presidenza e sono davvero grato di essere riuscito a realizzare la tregua in Libano”, ha detto ribadendo di voler assicurarsi che “questa transizione proceda senza intoppi. Voglio assicurarmi che tutto vada liscio”.

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Esteri

Zelensky in Europa: accordi con Grecia, Francia e Spagna per superare l’inverno di guerra

Zelensky torna in Europa e ottiene aiuti da Atene, Parigi e Madrid: gas per l’inverno, un accordo storico sulla difesa con Macron e nuovi sostegni dalla Spagna.

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Volodymyr Zelensky è tornato in Europa in uno dei momenti più difficili dall’inizio della guerra. L’offensiva russa prosegue, mentre gli aiuti Ue restano bloccati e quelli Usa dipendono dalle oscillazioni della politica di Donald Trump. In questo quadro di incertezza, Grecia, Francia e Spagna hanno scelto di tendere la mano all’Ucraina.

L’intesa energetica con la Grecia

Ad Atene, prima tappa del tour, Zelensky ha puntato tutto sull’emergenza energetica. Il governo di Kyriákos Mitsotákis ha assicurato una fornitura di gas da gennaio a marzo 2026, per un valore di due miliardi di euro. Il finanziamento sarà coperto grazie ai partner europei.

Il Gnl arriverà in Ucraina tramite la Grecia, ma la provenienza è americana: una triangolazione che divide la partita energetica con Washington. Atene, intanto, rafforza il ruolo di hub europeo del Gnl diretto verso l’Europa centrale e orientale.

Parigi prepara un accordo “storico”

La tappa decisiva sarà Parigi: Zelensky firmerà con Emmanuel Macron un «accordo storico» sulla difesa. I dettagli non sono ancora pubblici, ma il presidente ucraino ha anticipato un rafforzamento dell’aviazione da combattimento, della difesa aerea e di altre capacità militari.

Un passo avanti notevole della Francia, in una fase in cui il sostegno europeo a Kiev appare in stallo.

Madrid chiude il tour

L’ultima tappa sarà Madrid, altro partner considerato «forte» da Zelensky. In programma anche una visita al Reina Sofia, dove è esposto il Guernica di Picasso: nel 2022 Zelensky paragonò il massacro di Mariupol proprio alla tragedia della città spagnola.

La guerra continua senza sosta

Mentre Zelensky cerca sostegni in Europa, la guerra in Ucraina resta feroce. Mosca rivendica la conquista di due villaggi nella regione di Zaporizhzhia. A Pokrovsk gli ucraini resistono, ma in inferiorità numerica.

Secondo Kiev, negli ultimi sette giorni la Russia ha sganciato 980 bombe sull’intero Paese. Una sola notizia positiva sul fronte umanitario: il rilascio di 1.200 prigionieri ucraini dalle carceri russe.

L’appello alla pace

Dal Vaticano, Papa Leone XIV ha rinnovato il suo appello: «Non possiamo abituarci alla guerra e alla distruzione». Anche il presidente Sergio Mattarella, da Berlino, ha richiamato l’urgenza della pace.

Ma un negoziato appare lontano. Yuri Ushakov, consigliere di Vladimir Putin, ha confermato contatti con gli Usa basati sul vertice di Anchorage tra Trump e lo Zar. Un punto di partenza che potrebbe non favorire né l’Ue né Kiev.

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Arrestato in Europa Pipo Chavarria, il boss dei Los Lobos: «Lo abbiamo cercato fino all’inferno»

Il presidente Noboa annuncia l’arresto di Pipo Chavarria, capo dei Los Lobos, catturato in Europa dopo anni di latitanza. Il boss aveva finto la morte e continuava a ordinare omicidi dall’estero.

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«Lo abbiamo cercato fino all’inferno». Con queste parole il presidente Daniel Noboa ha annunciato la cattura di Pipo Chavarria, leader dei Los Lobos, definito «il delinquente più ricercato della regione». L’arresto è avvenuto in Europa grazie a una collaborazione tra Ecuador e polizia spagnola.

La falsa morte e la rete criminale internazionale

Secondo quanto spiegato da Noboa, Chavarria aveva finto la propria morte, cambiato identità e trovato rifugio in Europa, da dove continuava a impartire ordini. Dall’estero dirigeva omicidi in Ecuador e controllava il traffico di droga insieme al cartello messicano Jalisco Nueva Generación.

Un arresto simbolico nel giorno del referendum sulla sicurezza

La cattura arriva nel giorno del referendum promosso da Noboa su temi cruciali della sicurezza nazionale, diventando un segnale politico fortissimo. «Oggi le mafie indietreggiano. Ha vinto l’Ecuador», ha dichiarato il presidente, celebrando un risultato definito come un punto di svolta nella lotta al crimine organizzato.

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Regno Unito, stretta storica sull’asilo: fine del permesso quinquennale e revisione continua dei rifugiati

Il governo Starmer annuncia una stretta senza precedenti sull’asilo: permesso ridotto a 30 mesi, revisione continua e residenza permanente solo dopo 20 anni. Polemiche da destra e sinistra.

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Basta asilo a tempo indeterminato. Il Regno Unito del dopo Brexit cambia paradigma e annuncia una stretta senza precedenti rispetto alla sua storica tradizione di accoglienza. A farlo è il governo laburista di sir Keir Starmer, in piena crisi di consenso e sotto la pressione crescente di forze come Reform UK di Nigel Farage.

Mahmood: «Fine del golden ticket per i richiedenti asilo»

La ministra dell’Interno Shabana Mahmood, figlia di immigrati pachistani, ribadisce alla Bbc la linea dura:

  • permesso di soggiorno ridotto a 30 mesi;

  • revisione periodica obbligatoria;

  • rimpatrio possibile se il Paese d’origine torna “sicuro”;

  • residenza permanente solo dopo 20 anni, quattro volte più del regime attuale.

La normativa vigente garantisce 5 anni di permesso ai rifugiati e accesso quasi automatico alla residenza permanente alla scadenza del quinquennio.

Londra guarda alla Danimarca e punta a frenare gli arrivi via Manica

Il governo Starmer si ispira alla linea durissima di Copenaghen, che ha ridotto le richieste di asilo ai minimi da 40 anni. L’obiettivo è scoraggiare gli arrivi via Manica sulle small boat, aumentati nonostante le promesse: nel 2025 sono già 39.000 le persone sbarcate, più di tutto il 2024.

La Francia attribuisce a Londra parte del problema, sostenendo che le norme britanniche finora troppo permissive abbiano reso difficile il controllo dell’immigrazione illegale.

Critiche da destra e sinistra

Le opposizioni conservatrici e i seguaci di Farage definiscono la stretta “superficiale” e insufficiente.
Dall’altro lato, ong, sinistra del Labour e Verdi denunciano una violazione dei principi di solidarietà e diritti umani.

Mahmood respinge ogni accusa:
«È la più grande revisione della politica d’asilo dei tempi moderni. Non sto accettando gli argomenti dell’estrema destra: è una missione morale».

Starmer cerca ossigeno in un clima politico esplosivo

Il premier laburista tenta così di frenare un’emorragia di consensi data per inarrestabile dai sondaggi, mentre anche dentro il Labour monta il malcontento. La questione migratoria diventa quindi un terreno decisivo per la sopravvivenza politica del governo.

La promessa, però, resta tutta da verificare nella sua efficacia.

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