Collegati con noi

Esteri

Morto il bimbo yemenita, la madre rimasta bloccata a lungo fuori dagli Usa dal travel ban di Trump

Pubblicato

del

E’ morto all’ospedale di Oakland, in California, il bimbo yemenita malato terminale la cui madre si era vista rifiutare a lungo il visto a causa del ‘travel ban’ del presidente Usa, Donald Trump. Una storia che ha commosso e indignato il mondo, dopo i recenti scandali legati alle carovane di migranti al confine tra Usa e Messico, dalla morte di due ragazzini guatemaltechi alla prassi – di nazista memoria – di marchiare con numeri il braccio dei bambini in attesa di asilo. Abdullah aveva solo due anni. Era stato portato in Usa dal padre lo scorso ottobre nella speranza di cure migliori per una grave malattia cerebrale che lo aveva colpito sin dalla nascita. I medici tuttavia non avevano lasciato nessuna speranza, pronosticando una vita molto breve. Per questo la madre aveva chiesto un visto ma le era stato negato perche’ lei, a differenza del marito e del figlio, non ha la cittadinanza americana e lo Yemen rientra tra i Paesi messi al bando dal tycoon, insieme a Iran, Libia e Somalia, oltre a Venezuela e Corea del nord. “Mia moglie mi chiama ogni giorno, vuole baciare e abbracciare nostro figlio per l’ultima volta, non abbiamo piu’ molto tempo, per favore aiutateci a riunire la nostra famiglia”, aveva detto tra le lacrime il ventiduenne Ali Hassan, il padre di Abdullah. “Questo rifiuto e’ una crudelta’ incomprensibile”, aveva denunciato Saad Sweilem, del Consiglio per le relazioni islamico-americane, sceso in campo per sostenere la riunificazione della famiglia. Uno sforzo coronato dal successo solo dieci giorni fa, quando il Dipartimento di stato ha concesso alla donna una esenzione dal bando per motivi umanitari, consentendole cosi’ di riabbracciare il piccolo prima che morisse. Non si spengono intanto le polemiche per le morti dei due bambini guatemaltechi al confine tra Messico e Usa, con Trump che scarica la responsabilita’ sull’opposizione. “Ogni morte di bambini o di altre persone al confine e’ strettamente colpa dei democratici e delle loro patetiche politiche migratorie che consentono alla gente di fare un lungo cammino pensando di poter entrare nel nostro Paese illegalmente. Non possono. Se ci fosse un muro, non ci proverebbero neppure”, ha twittato. “I due bambini in questione erano molto malati prima di essere consegnati agli agenti della polizia di frontiera. Il padre della ragazzina ha detto che non e’ stata colpa loro, lui non le ha dato acqua per giorni. La polizia di frontiera ha bisogno del muro ed esso fara’ finire tutto”, ha aggiunto. Ma i dem sono contrari al muro e hanno negato i fondi nel bilancio, inducendo il tycoon a far scivolare il Paese nello shutdown, il terzo del 2018.

Advertisement

Esteri

San Suu Kyi lascia il carcere, trasferita ai domiciliari

Pubblicato

del

L’ex leader birmana Aung San Suu Kyi ha lasciato il carcere ed è stata trasferita agli arresti domiciliari. Lo ha reso noto una fonte ufficiale all’Afp. Contemporaneamente un portavoce delle autorità militari del Paese ha affermato che ai prigionieri più anziani vengono fornite “le cure necessarie” durante i periodi di caldo e non è quindi chiaro se si tratta di una misura temporanea o di una vera riduzione della pena che sta scontando la 78enne premio Nobel.

Continua a leggere

Esteri

Un noto giornalista investigativo freddato in Colombia

Pubblicato

del

Vari colpi sparati a bruciapelo, mentre la vittima era a terra, da un sicario vestito di nero e con il volto nascosto da un casco integrale. Così è stato ucciso nella città colombiana di Cúcuta, al confine con il Venezuela, il comunicatore sociale, avvocato e giornalista Jaime Vásquez a cui, per le sue ripetute denunce di corruzione, era stata assegnata nel 2022 anche la scorta della polizia. Domenica Vásquez, 54 anni, ha offerto agli agenti qualche ora di riposo, assicurandogli che sarebbe rimasto in casa. Ma poi ha deciso di uscire per fare acquisti nel centro del quartiere La Riviera, una scelta che gli è stata fatale. Una moto, guidata da una donna, lo ha intercettato sbarrandogli la strada.

E a nulla è valso il tentativo di rifugiarsi in un negozio: il sicario, che era sul sedile posteriore, è sceso, lo ha inseguito nel locale e lo ha freddato sparando tre volte, sotto l’occhio di una telecamera fissa che ha ripreso la scena, tra il panico dei presenti. Per primo il presidente Gustavo Petro, attraverso il suo account X, ha reso noto che “il giornalista Jaime Vásquez è stato assassinato nel dipartimento del Norte de Santander. Il suo lavoro era denunciare la corruzione”. Mi aspetto dalla Procura, ha intimato, “l’indagine più approfondita possibile che dovrebbe includere l’esame forense delle informazioni sul suo cellulare, che, apparentemente, è stato manipolato dalle autorità dopo la sua morte”.

Da anni l’attività di Vásquez di inchieste su casi di corruzione a Cúcuta e in tutto il dipartimento era nota e questo gli aveva prodotto numerosi nemici. Le dirette che realizzava attraverso la sua pagina Facebook, erano meticolose ed accurate e prendevano di mira amministratori pubblici e imprese private.

Il quotidiano La Opinión di Cúcuta, pubblicando foto delle testimonianze di affetto della popolazione che ha acceso candele e depositato fiori, ha rivelato che uno dei casi più clamorosi denunciati ha riguardato la società Aguas Kpital Cúcuta, che aumentò senza motivo le tariffe dell’acqua potabile, cambiando i contatori. Di recente erano state in primo piano sui media locali le accuse di irregolarità nella gestione del settore sanitario e nell’assunzione di dipendenti pubblici. Dopo la diffusione attraverso le reti sociali del video dell’omicidio, tutte le autorità nazionali e locali si sono mobilitate, con l’apertura di una inchiesta per risalire ai possibili mandanti dell’operazione e con l’offerta di una taglia di 70 milioni di pesos (17.000 euro) per informazioni utili all’arresto dei killer del giornalista.

Continua a leggere

Esteri

Hezbollah lanciano missili e droni su Israele ma dicono “non vogliamo la guerra ma ci difenderemo”

Pubblicato

del

Mentre si addensano fosche le nubi all’orizzonte del sud del Libano minacciato dalla risposta israeliana all’attacco missilistico iraniano, il potente movimento armato libanese Hezbollah, alleato della Repubblica islamica e di Hamas, ribadisce di non volere una guerra aperta con lo Stato ebraico, ma assicura di avere “tutti i mezzi necessari” per difendersi e difendere il Paese mediterraneo.

Da più di sei mesi si verificano giornalieri scambi di fuoco tra Hezbollah e Israele. Finora il gruppo armato libanese ha puntato razzi e droni contro obiettivi militari per lo più a ridosso della linea di demarcazione con l’Alta Galilea. Nelle ultime ore il Partito di Dio ha rivendicato un’azione difensiva contro militari israeliani che si erano infiltrati in territorio libanese. Dal canto suo, l’aviazione israeliana ha da più di un mese cominciato a bombardare con regolarità anche la profondità territoriale libanese, in particolare nella valle della Bekaa al confine con la Siria, considerata la retrovia logistica del Partito di Dio. E nelle ultime ore ha condotto almeno due raid mirati contro dirigenti militari di Hezbollah nella regione di Tiro. Da ottobre a oggi sono stati uccisi più di 60 civili libanesi e 8 civili israeliani.

Sul lato israeliano della linea di demarcazione circa 80mila persone sono state sfollate, un dato senza precedenti. Mentre il sud del Libano, periodicamente segnato da invasioni e operazioni militari israeliane, ha finora visto lo sfollamento di 100mila civili. In questo contesto di crescente tensione, fonti interne a Hezbollah che preferiscono rimanere anonime perché non autorizzate a parlare con i media affermano che il partito “è pronto a difendersi con tutti i mezzi necessari” in caso Israele decidesse di aprire un secondo fronte di guerra aperta col Libano.

Le fonti di Hezbollah sostengono che finora i suoi combattenti hanno “usato solo una minima parte dell’arsenale” a disposizione e che i missili a media e lunga gittata, stoccati da anni in località segrete tra Siria e Libano, possono colpire tutte le città israeliane, incluse Ashkelon nel sud e il porto di Eilat sul Mar Rosso. “Possiamo eludere l’Iron Dome” israeliana, affermano le fonti, sottolineando come l’attacco iraniano del 13 aprile scorso sia servito, tra l’altro, a studiare la “capacità di reazione del nemico”.

“Il nostro arsenale serve come deterrente”, affermano le fonti di Hezbollah, confermando quanto ripetuto più volte dal leader del movimento, Hasan Nasrallah: l’azione militare dal sud del Libano – ha detto anche di recente il sayyid – serve in sostegno alla resistenza dei fratelli palestinesi e come elemento di dissuasione nei confronti di Israele. Per questo motivo, assicurano le fonti libanesi vicine a Teheran, “non vogliamo esporre il Libano a una guerra aperta con il nemico sionista. E, come già detto, siamo pronti a cessare ogni ostilità non appena Israele mette fine all’offensiva militare sulla Striscia di Gaza, decretando la vittoria della resistenza”. In questo senso, in caso di raggiungimento di un accordo quadro tra Hamas e Israele, le fonti di Hezbollah affermano di esser pronte a “tornare alla situazione precedente all’8 ottobre scorso”, data di inizio dei botta e risposta tra il Partito di Dio e lo Stato ebraico.

Continua a leggere

In rilievo

error: Contenuto Protetto