Ogni giorno reclutava almeno trenta persone, qualche volta anche sessanta, settanta: poveri disgraziati utilizzati come braccianti nei campi. All’organizzatore – un cinquantenne bulgaro- è stata notificata dai finanzieri di Mondragone un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Caporalato, in altre parole, quel fenomeno per il quale i lavoratori vengono sfruttati e malpagati.
I Finanzieri hanno arrestato il cittadino bulgaro in flagranza di reato dopo una lunga attività investigativa fatta di intercettazioni, appostamenti e pedinamenti fin dal 2016 ed hanno accertato che il cittadino bulgaro reclutava, in prestabiliti punti di raccolta a Mondragone, principalmente connazionali, anche più di trenta unità, con picchi fino a 70 braccianti al giorno, che venivano
trasferiti sui luoghi di lavoro stipati in furgoni del tutto inadeguati con grave rischio anche per l’incolumità personale.
Il bulgaro da “caporale”, e cioè “reclutatore/intermediario con i datori di lavoro si era trasformato in reclutatore/sfruttatore in proprio”, scrivono i magistrati di Santa Maria Capua Vetere, “provvedendo direttamente all’acquisto di partite di ortaggi sul campo che successivamente venivano vendute ad imprenditori del settore, realizzando illeciti profitti fino al 400% del costo della
mano d’opera reclutata e sfruttata”.
Qualche giorno fa i Finanzieri hanno fermato il cittadino bulgaro ed hanno identificato con lui 20 lavoratori tutti di nazionalità bulgara, tra cui una donna invalida, una 14 enne e una donna in stato di gravidanza, che stavano raccogliendo fagiolini in una serra, lavori, secondo la contrattazione collettiva del settore, ricondotti tra quelli disagiati, nocivi e pericolosi, con previsione di un ridotto numero di ore lavorative giornaliere.
Ma l’attività degli investigatori ha permesso di accertare che venivano sistematicamente violate tutte le norme sul lavoro: i lavoratori venivano impiegati senza alcun contratto, il “caporale”/imprenditore corrispondeva retribuzioni ben al di sotto degli standard dei contratti collettivi di riferimento; obbligava i lavoratori a turni massacranti, che si protraevano dalle prime luci dell’alba fino al tardo pomeriggio; non riconosceva ai lavoratori reclutati alcuna maggiorazione per il lavoro straordinario, notturno o festivo; impiegava stabilmente i lavoratori in prestazioni eseguite sotto serra, in condizioni disagiate, per orari superiori ai limiti previsti; sottoponeva i lavoratori a metodi di sorveglianza e condizioni di lavoro degradanti, controllando costantemente anche la quantità di prodotti raccolti dalle singole squadre e pretendendo una quantità minima di raccolto sennò gli tagliava la retribuzione; non garantiva le necessarie pause di riposo, non prevedendo neppure idonei servizi igienici; impiegava i lavoratori in violazione ad ogni norma in materia di sicurezza, non garantendo loro alcun dispositivo di protezione individuale; impiegava minori di età, in violazione all’obbligo scolastico ed in contrasto con la disciplina tutoria per il lavoro minorile.
Non è il primo provvedimento del genere nell’area di Mondragone: i finanzieri nel corso di un’operazione come questa, di contrasto al fenomeno del caporalato, molto diffuso nella zona, arrestarono un rumeno e un ucraino accusati dello stesso reato. “Anche a tal fine – scrive il Procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone – si darà massima attuazione al protocollo d’intesa siglato nel mese di giugno 2017 da questa Procura della Repubblica con le Forze di Polizia, gli Organi ispettivi, le strutture sanitarie e le associazioni del territorio, finalizzato proprio al rafforzamento del percorso di tutela degli stranieri vittime di reato, di intermediazione illecita e di sfruttamento lavorativo e sessuale. Gli elementi investigativi raccolti nel tempo e posti a base del provvedimento restrittivo fanno emergere, in tutta la sua gravità e pervasività, un’economia deviante, radicata e diffusa, che sfrutta i lavoratori per il contenimento dei costi e la massimizzazione dei profitti”.
Alla centrale operativa della Compagnia Carabinieri di Giugliano in Campania arrivano diverse segnalazioni ma il messaggio è sostanzialmente lo stesso: “C’è una persona che sta passeggiando sull’Asse Mediano, sembra spaesato”.
I militari della sezione radiomobile della compagnia di Giugliano raggiungono in pochi minuti l’asse mediano. Ogni minuto può essere prezioso e la Gazzella dell’Arma percorre la strada – nota per essere percorsa ad alta velocità – in direzione Giugliano centro.
Ad un tratto compare l’uomo che vaga sulla corsia di soprasso contro le auto che sfrecciano. Lampeggianti accesi e segnalazione sul tetto dell’auto con l’avvertimento di rallentare e i carabinieri scendono dalla gazzella. Pochi secondi e l’uomo – visibilmente disorientato – viene messo in auto tra il vento, la pioggia e le auto. L’uomo, un 80enne del posto, è stato affidato ai medici del 118 e fortunatamente sta bene. I carabinieri successivamente constateranno che l’anziano si era allontanato poco prima da una casa albergo per anziani.
Una scossa di terremoto che ha avuto magnitudo 4.1, ipocentro a 10 chilometri di profondità ed epicentro a 5 chilometri dai comuni di Socchieve (Udine) e di Tramonti di Sopra (Pordenone) è stata registrata alle 22.19. Il terremoto è stato avvertito chiaramente in tutta la regione, da Pordenone a Udine, a Trieste. Secondo l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia la scossa avrebbe avuto l’epicentro a Socchieve (Udine), piccolo comune della Carnia, a una profondità di dieci chilometri. La spallata è stata avvertita nettamente – anche in Veneto, in Trentino Alto Adige e nelle confinanti Austria e Slovenia – e i centralini dei vigili del fuoco hanno ricevuto decine e decine di telefonate. Al momento non si registrano danni a persone o cose.
“Abbiamo sentito un botto tremendo e abbiamo avuto tanta paura”, poi “è mancata la luce per alcuni minuti”. Lo ha detto a Rainews24 Coriglio Zannier, sindaco di Socchieve, il comune più vicino all’epicentro della scossa di terremoto di magnitudo 4.5 avvertita questa sera in Friuli-Venezia Giulia. Come danni, ha detto il sindaco, si registra “qualche caduta di tegole”, ma ora “stiamo tornando alla normalità”.
La vita di un uomo qualunque. L’acquisto di un’auto, la fila in banca per ritirare un assegno, le polizze assicurative e i bolli meticolosamente pagati. E poi gli esami medici, il ricovero e l’intervento chirurgico ottenuti in tempi record (questo forse non proprio come un comune cittadino). Man mano che emergono nuovi particolari sulla latitanza trentennale di Matteo Messina Denaroil quadro si fa più inquietante e si confermano i primi sospetti: il boss più ricercato del Paese conduceva una esistenza ordinaria grazie a una fitta rete di complici.
Oggi i carabinieri del Ros, coordinati dalla Procura di Palermo, ne hanno arrestati altri tre: l’architetto Massimo Gentile, siciliano da anni residente a Limbiate, in provincia di Monza, dove si occupa di appalti per conto del Comune e dove ha gestito decine di opere finanziate dal Pnrr; suo cognato Cosimo Leone, tecnico radiologo all’ospedale di Mazara del Vallo e Leonardo Gulotta. Salgono dunque a 14 i fiancheggiatori del capomafia finiti in cella dal 16 gennaio scorso, quando un blitz dei Carabinieri mise fine alla sua latitanza.
Da allora i militari con un paziente lavoro hanno tentato di ricostruire la vita alla macchia del boss. E stavolta hanno scoperto che a novembre del 2014 Messina Denaro andò personalmente da un concessionario auto di Palermo per acquistare una Fiat 500 e poi in banca a ritirare l’assegno da consegnare al rivenditore. Il boss usò una falsa carta di identità intestata all’architetto Massimo Gentile e indicò come numero telefonico di riferimento per eventuali comunicazioni quello di Leonardo Gulotta. L’input all’ultima indagine deriva da un appunto trovato in casa del boss.
La caccia al veicolo ha portato i carabinieri alla concessionaria dove è stata trovata la pratica dell’acquisto della macchina con i documenti consegnati dall’acquirente, tra i quali la fotocopia della carta d’identità su cui era stata incollata la foto di Messina Denaro. Il documento, che portava la firma dal padrino, conteneva alcuni dati corrispondenti a quelli di Gentile e altri falsi: come l’indirizzo di residenza indicato in “via Bono”. Per l’acquisito il capomafia ha versato mille euro in contanti e 9.000 attraverso un assegno circolare emesso dalla filiale di Palermo dell’Unicredit di corso Calatafimi.
Allo sportello, per ottenere l’assegno, ha esibito il falso documento, versato euro 9.000 cash e dichiarato che il Denaro era frutto della propria attività di commerciante di vestiti. Come recapito telefonico per le comunicazioni ancora una volta il boss ha lasciato il cellulare di Gulotta. L’auto è stata assicurata a nome di Gentile e in almeno un anno le polizze, come hanno mostrato le comparazioni grafiche, hanno portato la firma di Messina Denaro. Dalle indagini è emerso anche che nel 2007 l’architetto ha acquistato per conto del mafioso una moto Bmw che sarà poi lo stesso Gentile a portare alla demolizione in una officina a cui si fa riferimento in un pizzino nascosto in una sedia, trovato a casa della sorella di Messina Denaro, Rosalia.
I bolli di moto e auto nel 2016 sono stati pagati l’uno a 40 secondi dall’altro in una tabaccheria di Campobello di Mazara dove, sette anni dopo, pochi giorni prima dell’arresto, il capomafia era andato a fare acquisti, come dimostra uno scontrino ritrovato dal Ros. Poi c’è il fronte sanitario, tutto ancora da scandagliare. Al momento è emerso che il latitante ha potuto godere di aiuti importanti come quello ricevuto da Cosimo Leone, che si sarebbe occupato di far fare una Tac urgente al capomafia (Tac, come risulta da documenti sanitari, anticipata più volte).
Secondo gli investigatori, inoltre, Leone avrebbe costantemente informato dello stato del paziente un altro fiancheggiatore, Andrea Bonafede, cugino e omonimo del geometra che ha prestato al boss l’identità per farsi curare. Sono decine i contatti telefonici tra i due nei giorni in cui il capomafia si trovava all’ospedale di Mazara scoperti dai carabinieri. E dalle analisi dei tabulati risulta evidente che Bonafede fece avere al boss un cellulare mentre questi era ricoverato.