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‘Mi ha minacciato di morte’, Trump accusa l’ex Fbi Comey

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Una criptica composizione di conchiglie su una spiaggia di sabbia bianca sta creando un putiferio nella politica americana. Principalmente perché la foto della scritta è stata postata da un ex direttore dell’Fbi e la persona che si è sentita direttamente chiamata in causa, anzi minacciata, è il presidente degli Stati Uniti. Se in più si considera che tra i due non corre buon sangue da anni, quello che sembrava un innocente post di inizio estate rischia di trasformarsi in un affare di Stato.

Tutto è nato giovedì scorso quando James Comey, ex capo dell’Agenzia che il tycoon ha silurato nel 2017 mentre stava indagando sulle presunte influenze della Russia nella vittoria di Trump alle elezioni dell’anni precedente, pubblica sul suo account Instagram l’immagine incriminata, un gruppo di conchiglie adagiate sulla battigia a formare ‘8647’ e sotto la scritta: ‘Curiosa formazione’. Passa qualche ore e alcuni sostenitori del presidente, nonché la segretaria per la sicurezza interna Kristi Noem, accusano Comey di aver lanciato una minaccia di morte contro il commander-in-chief sostenendo che il numero 86 sta per “uccidere” o “eliminare” e Trump è il 47esimo presidente americano. Ora, sul significato della sequenza ci sono pareri discordanti.

Il dizionario Merriam-Webster spiega che ’86’ è utilizzato al posto di “eliminare, disfarsi” di solito di vecchi arnesi o pentole in un ristorante, e deriva dal numero civico di un bar di New York durante il proibizionismo. Occasionalmente, si legge ancora nel vocabolario, può sostituire “uccidere” ma è un uso talmente raro che non può essere annoverato come significato ufficiale. Poi c’è chi fa notare che la sequenza è stata utilizzata per segnalare una protesta silenziosa contro Trump, come riportato dal sito Distractify a marzo, in alcuni video su TikTok e in aprile ad una protesta contro l’amministrazione. Sta di fatto che Comey ha negato di avere intenzioni bellicose e cancellato il post spiegando di “non essersi reso conto che alcune persone potessero associare quei numeri alla violenza. Non ci avevo mai pensato. Mi oppongo alla violenza di qualsiasi tipo”.

A The Donald, che nei confronti dell’ex direttore dell’Fbi ha il dente avvelenato da quasi dieci anni, la giustificazione non è bastata. “Sapeva esattamente cosa significava. Anche un bambino lo sa. Se sei il direttore dell’Fbi sai che significa assassinio”, ha attaccato il presidente in un’intervista a Fox New bollando Comey come un “poliziotto corrotto”. E così il Secret Service ha deciso di interrogare il funzionario venerdì, come ha annunciato su X Noem parlando di “un’indagine in corso”. “Continuerò a prendere tutte le misure necessarie per garantire la protezione del presidente Trump”, ha aggiunto la segretaria per la sicurezza interna. L’attuale capo dell’Fbi, Kash Patel, ha assicurato che la sua agenzia è in contatto con il Secret Service e “fornirà tutto il supporto necessario”, mentre la direttrice dell’Intelligence Nazionale Tulsi Gabbard, ha perfino chiesto il carcere per Comey accusandolo di aver messo in pericolo il tycoon proprio durante la sua missione in Medio Oriente.

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L’Aiea chiede accesso all’uranio, Iran vuole rompere

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Il programma nucleare iraniano sarebbe stato “messo in ginocchio”, i danni inflitti “monumentali”. Ma, alle parole trionfali di Donald Trump, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica oppone un registro ben più prudente. I raid condotti dagli Stati Uniti contro i siti di Fordow, Natanz e Isfahan aprono un nuovo capitolo d’incertezza sulla sorte dell’uranio arricchito custodito dalla Repubblica islamica. Pur riconoscendo che i bombardamenti hanno con ogni probabilità inflitto danni “molto significativi” ai tunnel sotterranei nei pressi di Qom, il direttore generale dell’Aiea, Rafael Grossi, ha precisato che la reale portata non è al momento accertabile. Lanciando poi un appello urgente: Teheran deve consentire l’accesso agli ispettori per verificare lo stato delle scorte sensibili nucleari. In particolare, i 408 chilogrammi di uranio arricchito al 60%, soglia vicina al 90% necessario alla progettazione di ordigni atomici. Pressioni davanti alle quali l’Iran ha scelto la strada della chiusura con un disegno di legge – pronto a essere discusso in Parlamento – per interrompere ogni cooperazione con l’agenzia.

L’ultima ispezione condotta dai tecnici dell’Aiea risale al 10 giugno, pochi giorni prima dell’offensiva di Israele. Da allora, sulle scorte è calato il silenzio. Gli ispettori devono “tornare sul campo per fare un inventario” completo, ha ammonito Grossi durante una riunione d’emergenza a Vienna, riportando un dettaglio che alimenta l’ipotesi che Teheran si attendesse l’attacco: il 13 giugno, alla vigilia dei primi raid dello Stato ebraico, l’Iran aveva notificato all’agenzia l’adozione di “misure speciali” per mettere in sicurezza impianti nucleari e materiali – stoccati in forma di polvere dentro cilindri metallici trasportabili anche su mezzi civili – spostandoli in siti non censiti. Un’indicazione rafforzata dalle immagini satellitari che mostrano movimenti sospetti nei pressi degli ingressi sotterranei di Fordow nei giorni precedenti all’operazione ‘Martello di mezzanotte’ degli Stati Uniti. Al punto che lo stesso vicepresidente J.D. Vance – pur rivendicando che il blitz abbia interrotto l’arricchimento verso fini bellici – ha riconosciuto che la sorte di “quel combustibile” sarà al centro del confronto “con gli iraniani nelle prossime settimane”.

A breve termine, però, anche il dialogo tra l’Aiea e Teheran rischia di chiudersi. L’Iran minaccia lo stop alla cooperazione con Vienna fino a quando non riceverà “garanzie oggettive sulla condotta professionale” dell’organizzazione, ventilando il possibile allontanamento degli ispettori e la chiusura dei siti chiave in uno scenario che richiama quello nordcoreano. Un passo che aggraverebbe la frattura già aperta dopo il report dell’agenzia – approvato a larga maggioranza dal Consiglio dei governatori alla vigilia dell’attacco dello Stato ebraico – che denunciava il rapido accumulo di uranio altamente arricchito, la mancanza di trasparenza e l’assenza di risposte su siti non dichiarati. L’Occidente, dal canto suo, resta compatto: una bomba atomica in mano a Teheran – hanno ribadito all’unisono ministri europei e alleati – “rappresenterebbe un pericolo per la sicurezza globale”.

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Scontro Rutte-Sanchez alla Nato,’Madrid non ha deroghe’

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L’intenzione, come sempre, è quella di proiettare un’immagine di forza e unità. Ma in realtà tra i 32 alleati della Nato serpeggiano divisioni e recriminazioni. La richiesta di Donald Trump di mettere sul piatto il 5% del Pil per la difesa ha generato scosse telluriche tra le capitali e solo il colpo di genio del segretario generale Mark Rutte – l’ormai celebre 3,5+1,5 – ha salvato la giornata. Peccato che il premier spagnolo Pedro Sanchez, pubblicando per esigenze politiche interne la lettera in cui Rutte accorda un trattamento speciale a Madrid, abbia fatto saltare il banco.

“La Spagna non ha deroghe, l’intesa è sul 5%”, ha ribattuto l’ex premier olandese nel corso della conferenza stampa pre-summit. Chi ha ragione allora? Semplice: tutti. Perché l’arabesco diplomatico escogitato in extremis prevede l’equiparazione degli obiettivi di capacità appena concordati alla ministeriale Difesa di giugno all’impegno sul 3,5%, ovvero la spesa militare classica, che più preoccupa i Paesi ad alto debito e a bassa propensione bellica. Rutte, nella lettera, accorda a Sanchez “la flessibilità per determinare il proprio percorso sovrano per raggiungere gli obiettivi di capacità: capisco che la Spagna è convinta di poter raggiungere i target con una traiettoria inferiore al 5%”. Peccato che le analisi del comparto militare Nato indichino tutt’altro. E cosa accadrà se altri Paesi imboccheranno la variante Sanchez? “Adesso Rutte avrà una bella rogna da risolvere”, confida una fonte diplomatica alleata, che non prevede però fuoco e fiamme da parte di Trump.

“Sulla carta c’è e ci sarà scritto il 5%, su questo ha ragione Rutte”, nota ancora la fonte. Eppure già iniziano i distinguo. Robert Fico si è subito accodato. Come la Spagna, ha scritto sui social, la Slovacchia deve “riservarsi il diritto sovrano di decidere a quale ritmo e in quale struttura è disposta ad aumentare il bilancio del ministero della Difesa” per “raggiungere il piano della Nato entro il 2035”, precisando che Bratislava “è in grado di soddisfare i requisiti anche senza un sostanziale aumento della spesa per la difesa al 5% del Pil”. Rutte, chiamato in causa, ha tenuto il punto.

“Madrid ha concordato i target di capacità, crede di poter raggiungere gli obiettivi col 2% mentre noi reputiamo servirà il 3,5%: si vedrà nel quadro della revisione del 2029”, ha dichiarato, ricordando che ci saranno “rapporti annuali” sulla traiettoria di spesa effettiva di ogni singolo Paese (ma non saranno vincolanti). Riassumendo. Davanti ad uno scenario di harakiri politico prevale l’istinto di conservazione e gli altri membri del club lo capiscono (fino ad un certo punto). Lo scenario di sicurezza è però cambiato in modo tanto drastico che c’è piena comprensione, in Europa, di quanto sarà necessario fare nei prossimi anni, sia per mettersi in sicurezza nei confronti della Russia sia per attrezzarsi ad un graduale disimpegno degli Stati Uniti. Detto questo, inutile impiccarsi ora sui numeri precisi. La speranza è che la maggior coordinazione ed efficienza sul piano industriale – non a caso l’Ue e il Canada hanno siglato un’intesa sulla sicurezza che aprirà le porte ad una maggiore cooperazione – possa portare ad un abbassamento dei prezzi e dunque ad “ottenere di più con meno”.

I nodi però non finiscono qui. Il terremoto-Iran sta planando sul vertice. “Apre i giornali, i leader ne parleranno a margine del vertice, anche se non è in agenda”, ha concesso Rutte. La posizione degli alleati è chiara: l’Iran non dovrà mai avere la bomba atomica. “Non sono d’accordo con chi dice che l’attacco americano viola il diritto internazionale”, ha poi notato. In coda, l’ultima grana. Tre su quattro dei partner asiatici, ovvero Giappone, Sud Corea e Australia, avrebbero cancellato la loro partecipazione al vertice al livello di leader (era prevista la loro presenza alla cena offerta dai reali d’Olanda, martedì sera, e ad una tavola rotonda con Trump e Rutte, mercoledì pomeriggio) per motivi non chiari. La notizia rimbalza sui media asiatici e la Nato non conferma né smentisce: “Chiedete a loro”. Alcuni parlano di ritiro dopo l’operazione iraniana, altri di pressioni da parte della Cina e altri ancora di “difficoltà” ad avere accesso a Trump. Comunque sia, non un segnale eccellente: era dal 2022 in poi che non mancavano all’appuntamento.

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Borse alla finestra, nervosismo ma per ora niente panico

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L’attacco americano a tre siti nucleari iraniani fa scivolare le borse dove il nervosismo è palpabile anche se, almeno per ora, non c’è panico. La speranza e l’auspicio degli investitori è che la guerra resti contenuta e non si allarghi ad altri paesi dell’area. La presidente della Bce, Christine Lagarde parla di “eccezionale incertezza” e di “rischi sulla crescita orientati al ribasso”, anche se l’inflazione è attorno all’obiettivo del 2% e, se dovessero esserci schiarite sul fronte commerciale, i mercati e l’economia potrebbe ripartire anche più forte. Ma per ora quel che regna è l’incertezza e, mentre l’Iran lancia missili alla base americana in Qatar, è meglio procedere con cautela. Così le borse europee chiudono tutte in rosso, anche se con cali contenuti, e Wall Street trascorre la seduta in altalena. In attesa di conoscere nel dettaglio i danni causati dall’attacco americano e la risposta iraniana, il petrolio e il gas calano. Il greggio a New York arriva a perdere oltre il 2% dopo il lancio di missili iraniani contro le basi americane in Qatar.

Il gas ha chiuso perdendo lo 0,99% a 40,52 euro. La flessione del petrolio, spiegano gli osservatori, è dovuta alla risposta iraniana che appare meno severa delle attese e soprattutto che ha risparmiato, almeno per ora, le infrastrutture petrolifere. L’attenzione degli operatori è sullo stretto di Hormuz, attraverso al quale transita un terzo del petrolio mondiale: il timore è che possa essere chiuso in ritorsione, anche tramite mine che renderebbero il passaggio poco sicuro. Donald Trump ha esortato a mantenere bassi i prezzi del petrolio: “teneteli bassi. Vi sto osservando. State facendo il gioco del nemico. Non fatelo”, ha scritto su X.

“Non c’è dubbio” che se si materializzasse una chiusura “ci sarebbero conseguenze inflazionistiche”, ha detto la presidente della Bce Christine Lagarde, parlando nel corso di un’audizione al parlamento europeo. Se le piazze finanziarie europee chiudono tutte in basso, con Milano che perso l’1,00%, a Wall Street la seduta è trascorsa in altalena. Dopo un’apertura debole, i listini americani hanno trovato slancio e hanno girato in positivo. Poi l’attacco iraniano alle basi americane in Qatar li ha fatto girare in calo, prima di tornare a salire dopo che il governo di Doha ha confermato che i missili lanciati sono stati intercettati. Un’altalena destinata probabilmente a continuare nelle prossime sedute fino a quando non sarà più chiaro come la situazione si evolverà.

Oltre all’escalation, il timore degli investitori è che Stati Uniti vengano trascinati nel conflitto nonostante l’attacco di successo del fine settimane. In passato, infatti, l’iniziale vittoria militare gli Usa è stata seguita conflitti lunghi e costosi, come nel caso dell’Iraq e dell’Afghanistan. I listini americani hanno accelerato nel corso della seduta quando la vicepresidente della Fed per la supervisione, Michelle Bowman, ha aperto a un taglio dei tassi di interesse a luglio se l’inflazione continuerà a scendere. Un’apertura significativa anche se alcuni osservatori notano come Bowman sia stata nominata da Trump, da tempo critico del presidente della Fed, e impegnato a scegliere il successore di Jerome Powell. Per la banca centrale americana la riunione di luglio si avvia a essere contrassegnata da molte incertezze, da quelle sui dazi – il 9 luglio scade la pausa di 90 giorni concessa da Trump – a quelle geopolitiche.

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