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Messico, il presidente Andres Manuel Lopez Obrador aiuta le sorelle di “El Chapo” ad avere un visto per gli Usa

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Il presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador ha reso noto oggi di aver ricevuto una lettera di Maria Consuelo Loera Perez, madre del narcotrafficante Joaquin Guzman Loera, conosciuto come ‘El Chapo’ e condannato di recente negli Usa, con una richiesta di aiuto giuridico ed umanitario, e di aver risposto positivamente almeno per il secondo aspetto. Nel corso della sua conferenza stampa mattutina il capo dello Stato ha detto fra l’altro: “Ho ricevuto una lettera della mamma di Guzman Loera che, come e’ naturale per qualsiasi madre, chiede aiuto per suo figlio”. Sul piano umanitario, ha spiegato, “mi ha chiesto di aiutare affinche’ due sue sorelle ottengano il visto per recarsi negli Stati Uniti; ho dato istruzioni affinche’ si proceda tenendo conto del rispetto delle leggi statunitensi”. Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, ha infine detto Lopez Obrador, “si tratterebbe di intervenire per ottenere la sua estradizione in Messico dove sconterebbe la pena”. Questo, ha sottolineato, e’ un problema che spetta in prima istanza al ministero dell’Interno, alla Procura generale e alla magistratura messicani, a cui come presidenza scriveremo chiedendo quello che si puo’ fare”.

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Israele adotta la dottrina “Dahiyeh”: decapitare il vertice iraniano con una strategia chirurgica

Raid mirati, sabotaggi interni e guerra psicologica: così lo Stato ebraico prova a piegare Teheran.

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Israele ha deciso di replicare contro l’Iran il modello già sperimentato con successo contro Hezbollah in Libano: una campagna militare e di intelligence che punta non solo ad annientare i vertici militari e strategici del nemico, ma a minare l’intero impianto statuale e infrastrutturale del regime. Un approccio che ricalca la cosiddetta “dottrina Dahiyeh”, dal nome del quartiere sciita di Beirut, e che prevede non solo attacchi mirati, ma distruzioni progressive e sistematiche.

L’eliminazione di Shadmani e il metodo della “decapitazione”

L’ultima vittima eccellente è Ali Shadmani, nuovo capo di stato maggiore iraniano, subentrato al generale Mohammed Bagheri, già ucciso nei primi giorni dell’operazione “Rising Lion”. È stato centrato in un centro-comando d’emergenza, mentre si trovava con altri ufficiali, in uno schema che ricalca le tecniche già impiegate a Beirut: eliminare chi prende il posto del comandante appena colpito, con un ritmo che punta a fiaccare ogni capacità di riorganizzazione.

È lo stesso schema adottato per colpire i quadri di Hezbollah, anche con strumenti sofisticati come i “cercapersone esplosivi” o grazie a infiltrazioni mirate e operazioni di lunga preparazione. Oggi, quello stesso metodo è stato adattato per agire nel cuore dell’Iran, nonostante le maggiori difficoltà logistiche.

I raid a catena: colpiti centri strategici e residenze

Il Mossad ha saputo sfruttare una combinazione di spionaggio umano, tecnologia e opportunismo, riuscendo a localizzare e colpire con precisione quasi un centinaio tra generali, scienziati nucleari e capi dell’intelligence. Alcuni sono stati eliminati nelle loro case, altri in riunioni riservate, altri ancora convocati in luoghi scelti dagli stessi israeliani, ingannati da messaggi cyber fasulli.

Le incursioni sono poi proseguite contro ministeri, centri di ricerca, palazzi governativi e persino impianti energetici, mentre lunedì una grande esplosione ha colpito un’altura nei sobborghi nord di Teheran, in un sito di cui ancora non si conosce la natura.

Guerra psicologica, evacuazioni e “bersagli legittimi”

In parallelo, Tel Aviv ha invitato la popolazione civile iraniana a evacuare interi sobborghi, replicando quanto già fatto a Gaza e nel sud del Libano: un messaggio chiaro, che preannuncia attacchi più ampi e meno “chirurgici”. Il governo di Benjamin Netanyahu ha inoltre ribadito che anche la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, è un “bersaglio legittimo”.

La tensione è tale che il capo dell’unità cyber dei Pasdaran ha ordinato ai suoi funzionari di non utilizzare più dispositivi collegati alla rete pubblica, temendo trappole digitali. Una misura reattiva, maturata dopo che — secondo alcune fonti — gli israeliani avrebbero hackerato il sistema di comunicazioni militari durante la notte del primo attacco, convocando falsamente i vertici a un punto di raccolta dove li attendevano i missili.

Israele colpisce con determinazione, l’Iran è alle corde e il tempo stringe. La strategia della decapitazione prosegue.

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Iran sull’orlo del baratro: resa, caos o riforma?

La guerra con Israele accelera: Trump parla di “resa incondizionata”, Khamenei nel mirino, Teheran a un bivio.

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Magari domani i sismografi registreranno un terremoto sull’altipiano iranico. Sarebbe il segnale del primo test nucleare della Repubblica islamica. Uno spartiacque che cambierebbe tutto. Ma se ciò non accadrà — come sembra probabile — l’Iran rischia di perdere la guerra con Israele e di essere costretto a rinunciare al suo programma nucleare.

Nel frattempo, le dichiarazioni si fanno sempre più incendiarie. Donald Trump, tornato protagonista, scrive su Truth: “Resa incondizionata”, parlando al plurale, come a sottolineare un’alleanza totale con l’amico Bibi Netanyahu. Dall’altra parte, Teheran resiste, ma la pressione è al massimo: raid mirati, capi militari eliminati, e ora persino Khamenei identificato come “bersaglio facile”, anche se non ancora da colpire, secondo lo stesso Trump.

Tre scenari per la Repubblica islamica

Il tempo stringe e il regime deve scegliere: resistere, crollare o riformarsi.

  1. Resistere: il regime potrebbe tenere se riuscisse a convincere il popolo che non esiste alternativa e che la vendetta arriverà, prima o poi. Sarebbe la linea dura, già percorsa in passato, come nel conflitto Iran-Iraq, finito solo con un “amaro calice di tregua”.

  2. Crollare: è lo scenario più temuto e, allo stesso tempo, auspicato da alcune frange della diaspora. Con i vertici decimati, finanziamenti stranieri alle minoranze etniche e lo Stato che si disgrega dall’interno, l’Iran potrebbe imboccare la via del caos.

  3. Riformarsi: in questa ipotesi, l’Iran cambia pelle. Non solo nei leader, ma anche nella sua Costituzione, nel posizionamento internazionale, nella strategia di sviluppo. È il sogno degli Stati Uniti da quasi 50 anni: da nemico dell’Occidente a partner riconciliato.

Il popolo diviso tra paura, memoria e illusione

Dentro i confini iraniani prevale la paura, alimentata dal ricordo del 1979 e dalle rivoluzioni finite nel sangue. La diaspora, invece, fantastica su un ritorno del figlio dello Scià, magari accolto a Teheran come Khomeini nel 1979, o su una svolta democratica repentina.

Un cittadino, al telefono con un giornalista, ha detto: «Temo che finiremo come l’Iraq del ’92, con un regime ancora in piedi ma schiacciato da sanzioni. O peggio, come nel 2003: Saddam caduto e il Paese finito nel caos». Altri evocano la fine brutale di Gheddafi, seguita da un disastroso vuoto di potere.

Chi può salvare l’Iran?

Forse i riformisti, figure già viste al potere ma oggi schiacciate dai falchi. Oppure i Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, che oggi detengono il vero potere militare e politico del Paese. Sono loro che potrebbero decidere se difendere Khamenei o abbandonarlo.

Nelle ultime ore è circolata una voce (poi smentita) sull’uccisione di Mahmoud Ahmadinejad, ex presidente e conservatore sui generis. Un’altra indiscrezione parla di Khamenei che avrebbe delegato i poteri ai Pasdaran. Non è vero, forse. Ma potrebbe presto diventarlo.

Perché la storia è piena di soldati obbedienti che, alla fine, rovesciano il loro sovrano.

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Gli Stati Uniti schierano i bombardieri B-2 a Diego Garcia: monito a Teheran e nuova pressione sulla regione

Il dispiegamento dell’arma strategica GBU-57 nei B-2 apre scenari sull’Iran. Israele già pronto a colpire 15 siti.

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Negli ultimi giorni di marzo, sei bombardieri B-2 Spirit dell’aeronautica statunitense sono atterrati sull’atollo di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, base militare strategica gestita congiuntamente da Stati Uniti e Regno Unito. La presenza di questi velivoli, unici al mondo in grado di trasportare la potentissima bomba anti-bunker GBU-57 da 14 tonnellate, è stata immediatamente interpretata come un segnale diretto alla Repubblica islamica dell’Iran e, nel breve termine, agli Houthi nello Yemen.

La super bomba pensata per Fordow

La GBU-57 è un ordigno progettato per penetrare in profondità e distruggere obiettivi altamente protetti, come il sito nucleare iraniano di Fordow, scavato all’interno di una montagna a oltre 90 metri di profondità, secondo gli esperti. Gli ultimi aggiornamenti della bomba, tenuti riservati per motivi di sicurezza, ne avrebbero ampliato l’efficacia anche in assenza di dati precisi sulla profondità del bersaglio.

Secondo un’inchiesta del New York Times, il Pentagono avrebbe già simulato numerosi scenari d’attacco, dimostrando che per colpire efficacemente obiettivi come Fordow servirebbero più passaggi dei B-2, in rapida sequenza, con effetti simili a quelli di un martello su un chiodo.

Israele prepara nuovi raid

Israele, che possiede un proprio arsenale di bunker-buster, ha già messo in pratica la tattica del colpo ripetuto durante i raid su Beirut sud e contro Hezbollah, ma secondo le fonti non ha capacità sufficienti a neutralizzare strutture blindate come quelle di Fordow. Da qui l’interesse nel coinvolgimento americano. L’obiettivo sarebbe colpire 15 nuovi siti strategici, mentre è confermato che gli attacchi su Natanz, Tabriz e Isfahan abbiano causato danni gravi alle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio.

Il ritorno dei B-52 e l’arrivo delle portaerei

Dopo un mese a Diego Garcia, i B-2 sono rientrati negli Stati Uniti, lasciando il posto a quattro B-52, bombardieri strategici che non possono trasportare la GBU-57 ma dotati di un arsenale per operazioni di vasta scala. I B-2, tuttavia, potrebbero tornare rapidamente nel teatro operativo, secondo schemi già collaudati dall’aeronautica americana.

Il dispiegamento è stato accompagnato da una massiccia mobilitazione militare: due portaerei, la Vinson già in zona e la Nimitz in arrivo da Oriente, dozzine di caccia, missili cruise e almeno 30 aerei cisterna pronti a supportare raid prolungati e ad alta intensità.

La risposta dell’Iran: 400 missili lanciati

Teheran, da parte sua, ha risposto con oltre 400 missili, di cui 40 avrebbero colpito obiettivi sensibili, tra cui sedi dell’intelligence israeliana a Tel Aviv. L’Iran ha dichiarato di non aver ancora impiegato le sue armi più potenti, minacciando ritorsioni più dure contro Israele.

Siamo nel pieno di una partita a scacchi esplosiva, dove nessuno dei protagonisti sembra voler fare un passo indietro, e ogni mossa, dalle basi nel Pacifico alle profondità del sottosuolo iraniano, può accendere una nuova crisi globale.

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