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Meloni: non lascio l’Italia indifesa, sì alle spese al 5%

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Gli appelli alla via diplomatica e negoziale cadono mentre arrivano, sempre più preoccupanti, le conferme di attacchi iraniani alle basi americane in Medio Oriente. Guido Crosetto, che pure è rimasto tutto il pomeriggio, lascia la Camera quasi di corsa dopo la replica. Giorgia Meloni entra ed esce dall’Aula sempre più scura in volto, dopo avere ribadito le priorità italiane sui diversi scenari di crisi, come il sostegno a Kiev, il cessate il fuoco a Gaza, il ritorno a un tavolo di negoziato dell’Iran. E dopo avere confermato l’impegno a raggiungere i nuovi target Nato delle spese militari (il 3,5% per la difesa e l’1,5% per la sicurezza) perché, scandisce, “non lasceremo l’Italia esposta, debole e incapace di difendersi”.

Il momento è grave, la premier apre il suo intervento in vista del prossimo Consiglio europeo dicendo di volersi tenere lontana dalle “polemiche” e tendendo una mano alle opposizioni, assicurando di voler tenere aperto e di “ampliare” un canale di dialogo riallacciato con Elly Schlein proprio dopo gli attacchi Usa all’Iran. Attacchi che, dice Meloni ai deputati, hanno “aggravato la crisi che coinvolge” Teheran e Israele. Non solo, mentre ribadisce con forza che l’Italia finora non è stata coinvolta assicura inoltre: se mai dovesse arrivare una richiesta dall’alleato statunitense, l’utilizzo delle basi italiane per interventi in Iran passerebbe comunque per il vaglio delle Camere. Al momento si tratta di un periodo totalmente ipotetico, sottolinea la premier, perché “l’Italia non è impegnata militarmente” e “non è stato chiesto l’uso delle basi. Posso dire – aggiunge – che penso che non accadrà ma posso garantire che una decisione del genere dovrà fare un passaggio parlamentare, a differenza di quello che è accaduto quando al governo non c’eravamo noi”. Una risposta che non basta alle opposizioni, che chiedono, Schlein e Giuseppe Conte in testa, una parola “chiara” sul fatto che l’Italia “non entrerà in questa guerra”.

Non basta ai dem nemmeno la presa di posizione sull’azione di Israele a Gaza, che per la premier sta “assumendo forme drammatiche e inaccettabili”. I cittadini sono “preoccupati”, i toni da “campagna elettorale” vanno lasciati da parte, insiste Meloni anche nella replica in cui alza la voce solo nel passaggio in cui respinge la tesi di un’Italia “subalterna” agli Stati Uniti e rivendica di essere già “leader di una nazione che conta, non perché io conto – dice- ma perché sono presidente del Consiglio di una nazione che si chiama Italia”. Risponde piccata anche a chi la accusa di non avere citato né Donald Trump né Benjamin Netanyahu (“non ho nessun problema a farlo”) ma non si lascia andare ad affondi pesanti, come è successo in altre occasioni, nei confronti delle opposizioni. Non attacca frontalmente neanche il Movimento 5 Stelle che presenta una risoluzione che non esclude la ripresa della collaborazione con la Russia sul gas. Azione incassa anche il parere favorevole del governo ad alcuni impegni della sua risoluzione come quello di rilanciare il negoziato con l’Iran che, per la premier, è uno dei punti in cui in Parlamento si registra una sostanziale “convergenza”.

Resta tutta la distanza, invece, sulle spese militari, che certo non entusiasmano la Lega (in Aula c’è Salvini ma non sempre i deputati, che quando scatta la standing ovation sull’Italia “che conta” applaudono ma non si alzano). Meloni si lancia in una citazione di Margaret Thatcher per argomentare la scelta di aderire al nuovo obiettivo Nato, dopo una trattativa che ha portato ad esempio ad allungare al 2035 i tempi. Gli impegni peraltro, risponde a chi le chiede perché non abbia fatto come Pedro Sanchez, “sono uguali per tutti, non c’è alcuna differenza tra quelli assunti dall’Italia e dalla Spagna”. L’importante è che siano target “chiari, trasparenti e sostenibili”, un messaggio che la premier manda anche a Bruxelles, insistendo, come aveva fatto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, sull’esigenza di rendere il Patto di stabilità “compatibile” con l’aumento delle spese per la difesa, senza creare “disparità di trattamento” per quei paesi, come l’Italia, in procedura per deficit eccessivo.

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Onorevoli morosi, un buco nelle casse dei partiti

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Onorevoli morosi, che non pagano le quote dovute ai propri partiti: il problema è ricorrente nei bilanci del 2024 di diverse forze politiche, da Forza Italia al Pd, passando per il M5s. Mentre è in controtendenza Sinistra italiana, che vede aumentare i contributi dei propri parlamentari (da 204 mila a 281 mila euro), tutti tra i 42 mila e i 55 mila euro. Il M5s, che ha un avanzo di oltre 2 milioni di euro, iscrive a bilancio 2,8 milioni di euro di crediti verso parlamentari e consiglieri regionali, e 1,4 milioni per indennità di fine mandato. Come “leva per la riscossione dei contributi”, il tesoriere Claudio Cominardi, nella relazione, richiama la regolarità contributiva come “requisito fondamentale per concorrere ed eventualmente mantenere il ruolo nelle cariche associative”.

Rispetto al 2023, per il Pd cala di 55 mila euro la voce crediti verso senatori e deputati, a 441 mila euro. Come spiega la relazione al rendiconto (in avanzo di 650mila euro, con l’incasso record di 10,2 milioni dal 2xmille), “è continuata l’azione di recupero” verso eletti nelle varie legislature, con 9 azioni giudiziarie aperte e 4 accordi transattivi. Anche nel bilancio di Europa verde si prevede un ricorso per decreto ingiuntivo per mancato pagamento spontaneo dei contributi associativi contro Eleonora Evi, deputata passata l’anno scorso fra i dem.

Mentre aumentano di 2 milioni i contributi da terzi e di oltre 300 mila euro le quote associative, la “discontinuità dei versamenti” dovuti “da parte di alcuni eletti” è un aspetto critico del rendiconto di FI (disavanzo di 307 mila euro e un passivo di 90 milioni che continua a essere garantito dagli eredi di Silvio Berlusconi): “Occorrerà adottare decisioni più rigorose per ottenere i pagamenti”, si legge nella relazione, “anche facendo leva” sulle norme interne che per i morosi prevedono ineleggibilità e decadenza dagli incarichi nel partito. I versamenti degli eletti sono in calo anche per +Europa, da 28.530 a 22.950. In FdI i contributi dei parlamentari nazionali ed europei sono volontari, e il bilancio (in disavanzo di 681 mila euro, a fronte di un avanzo di 4,9 milioni di euro nel 2023) registra un calo delle erogazioni liberali (da 3,9 a 2,7 milioni) e delle quote associative annuali (da 2,8 a 2,3 milioni). Nel bilancio 2024 in disavanzo di per 1,4 milioni, anche per la Lega calano le contribuzioni da persone fisiche e giuridiche (da 4,5 a 3,8 milioni), mentre aumentano le quote associative (da 58.624 a 63.227 euro).

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Maxi ricorso sui vitalizi, giovedì la sentenza

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E’ prevista per giovedì prossimo la sentenza del Collegio d’appello di Montecitorio sul taglio dei vitalizi, oggetto di un maxi ricorso da parte di circa 900 ex deputati che chiedono di rivedere la delibera del 2018 sugli assegni. Il “tribunale” di secondo grado interno alla Camera, presieduto da Ylenia Lucaselli (Fdi), è composto da altri quattro deputati (Ingrid Bisa della Lega, Pietro Pittalis di Fi, Marco Lacarra del Pd e Vittoria Baldino di M5s) tutti avvocati, ed ha un ruolo giurisdizionale e non politico. La decisione giunge dopo una lunga istruttoria – partita un anno fa – che ha registrato un’accelerazione nelle ultime due settimane. Ad argomentare le proprie ragioni gli avvocati dei ricorrenti, principalmente ex deputati anagraficamente più giovani di quelli che nel 2022 hanno beneficiato di una sentenza che di fatto ha azzerato per loro la delibera Fico.

Quest’ultima stabiliva che il vitalizio – su suggerimento dell’allora presidente dell’Inps Tito Boeri – fosse calcolato con criteri contributivi: in pratica l’assegno veniva ricalcolato sulla base di coefficienti in cui rientravano non solo il monte dei contributi versati, ma anche gli anni in cui si era beneficiato di un assegno. Un taglio che, dall’oggi al domani, è arrivato anche al 90%. “Il ricorso riguarda una minoranza che subisce ancora un trattamento fortemente discriminato rispetto alla maggioranza dei deputati e a tutti i senatori per i quali dagli organi del Senato è stato applicato il principio costituzionale della legittima aspettativa”, ha lamentato l’Associazione degli ex parlamentari che respinge con forza le accuse di “casta” e di “assalti alla diligenza” prospettando anzi, grazie alle sue proposte relative agli adeguamenti derivanti dall’aumento, risparmi “notevoli” per le casse della Camera.

Tra coloro che lamentano i tagli, molti sono i nomi noti e vanno da Paolo Guzzanti a Ilona Staller, dagli ex sindaci di Napoli Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino all’ex primo cittadino di Imperia, ora alla guida della Provincia del ponente ligure, Claudio Scajola, fino a Fabrizio Cicchitto, Claudio Martelli, Margherita Boniver. La lista, lunga, vede tra i ricorrenti anche Italo Bocchino, Mario Landolfi, Gianni Alemanno, ma anche Mario Capanna, l’ex magistrata Tiziana Maiolo, l’ex olimpionica Manuela Di Centa, l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, Giovanna Melandri e Angelino Alfano.

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Tensioni sui dazi Usa-Ue, Meloni frena: “Serve accordo equo”, ma le opposizioni attaccano

Dopo la mossa di Trump sui dazi al 30%, Giorgia Meloni cerca un’intesa con Washington. Le opposizioni criticano la linea del governo e chiedono un’azione più decisa.

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La mossa di Donald Trump, che ha annunciato possibili dazi del 30% contro i prodotti europei, ha colto di sorpresa anche il governo italiano. Giorgia Meloni prova a contenere l’impatto, ribadendo la necessità di arrivare a “un accordo equo” e respingendo l’idea di uno scontro commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea. A Palazzo Chigi si sottolinea che mancano ancora 19 giorni alla scadenza del negoziato e che Washington potrebbe aver solo voluto mostrare i muscoli.

Il governo italiano segue la via diplomatica

Nessuna intenzione di seguire il modello francese: mentre Macron e von der Leyen parlano di contromisure, l’Italia invita a mantenere la calma. “Confidiamo nella buona volontà di tutti”, si legge nel comunicato ufficiale, in cui si ribadisce il sostegno alla Commissione europea. Il 30% proposto da Trump resta ben lontano dal 10% che Roma considera accettabile. Il vicepremier Antonio Tajani volerà a Washington martedì per incontrare il segretario di Stato Marco Rubio, cercando una mediazione diretta.

Le critiche delle opposizioni

Non si è fatta attendere la reazione delle opposizioni. Elly Schlein ha denunciato la “follia autarchica” americana e ha accusato Meloni di non prendere “una posizione netta e forte”. Per Giuseppe Conte, l’Italia ha “svenduto l’interesse nazionale” e “non si è fatta rispettare”. Matteo Renzi attacca l’“incapacità e irrilevanza” dell’attuale governo, mentre Carlo Calenda parla di una “strategia di sottomissione” verso gli Stati Uniti.

L’offensiva della Lega contro Bruxelles

Anche all’interno della maggioranza si registrano tensioni. La Lega punta il dito contro Bruxelles, sostenendo che l’Italia paga il prezzo di “un’Europa a trazione tedesca”. Claudio Borghi e Alberto Bagnai accusano l’Unione di imporre dazi che danneggiano l’Italia, sostenendo che una trattativa bilaterale con Washington sarebbe stata più vantaggiosa.

Il fronte interno e la pressione parlamentare

La questione sarà al centro anche del dibattito parlamentare. Nicola Fratoianni definisce Trump un “gangster” e chiede una risposta immediata da parte dell’Europa, in particolare sulle big tech. Per Angelo Bonelli, il governo deve bloccare gli acquisti di gas e armi dagli Usa promessi ad aprile. Le richieste di chiarimenti in Aula si moltiplicano, ma Palazzo Chigi per ora insiste: serve freddezza, non polarizzazione.

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