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Medvedev, useremo nucleare se Kiev attacca regioni russe 

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Lo spettro del nucleare torna a far tremare l’Ucraina e il mondo, con il falco russo Dmitry Medvedev che evoca l’uso dell’atomica come risposta agli attacchi di Kiev, alla Crimea o a qualsiasi altra regione russa, supportati dal nuovo arrivo di armi occidentali. Con il primo Leopard 2 canadese già in volo verso il teatro di guerra. “Secondo la nostra dottrina nucleare, la Russia può usare armi nucleari se atomiche di altro tipo di distruzione di massa vengono usate contro la Russia o i suoi alleati, se riceve informazioni verificate sull’avvio di missili balistici per attaccare la Russia o i suoi alleati, in caso di aggressione convenzionale se l’esistenza dello Stato è in pericolo”, ha minacciato il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, assicurando che Mosca non si pone restrizioni sull’uso di qualsiasi arma: “La risposta sarà rapida, dura e convincente”. Ma Kiev non si fa intimidire, e invita a “ignorare” Medvedev. Perché “l’Ucraina può liberare i suoi territori utilizzando qualsiasi strumento” e “la Crimea è Ucraina. Pertanto, le minacce di ‘attacchi di rappresaglia’ sono solo una conferma dell’intenzione di commettere omicidi di massa e un tentativo di spaventarci”, ha attaccato il consigliere presidenziale ucraino Mikhaylo Podolyak.

La tensione è alle stelle, così come lo scontro tra Mosca e l’Occidente mentre è partito da Halifax il primo tank Leopard 2 canadese con tanto di foto postate dalla ministra della Difesa. Unione Europea e il G7 hanno adottato intanto in via definitiva l’accordo (cui si è unita anche l’Australia) sul price cap per i prodotti petroliferi russi mentre la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha confermato la promessa fatta a Kiev nel vertice con Zelensky: il decimo pacchetto di sanzioni europee a Mosca arriverà entro il 24 febbraio, primo anniversario dell’invasione russa. “Stiamo facendo pagare a Putin la sua atroce guerra”, tuona la leader europea. Atrocità come i crimini di guerra russi di cui la Germania ha assicurato di aver raccolto prove “a tre cifre”. “Attualmente, ci stiamo concentrando sulle uccisioni di massa a Bucha o sugli attacchi contro le infrastrutture civili ucraine”, ha detto il procuratore generale tedesco Peter Frank, che auspica un processo internazionale ai responsabili.

Con la guerra alle porte del secondo anno, gli alleati occidentali fanno quadrato su Kiev. Sul fronte delle armi, anche il premier portoghese Antonio Costa ha annunciato che invierà carri armati Leopard 2 in Ucraina. E mentre procede l’addestramento degli ucraini all’uso dei carri armati Challenger 2 britannici, i media tedeschi riferiscono che Kiev potrebbe ricevere fino a 160 carri armati Leopard 1 dalle scorte tedesche. E intanto, il ministro ucraino della Difesa Oleksii Reznikov ha ringraziato i colleghi francese Sebastien Lecornu e italiano Guido Crosetto per la decisione di consegnare i sistemi di difesa aerea Samp-t. Ma non è solo con le armi che gli alleati assistono Kiev: dagli Stati Uniti, il procuratore generale Merrick Garland ha annunciato il primo trasferimento a Kiev di fondi russi confiscati all’oligarca Konstantin Malofeyev. Dall’altra parte del fronte, Mosca non resta sola, e trova la sponda di Pechino che assicura fiducia politica sempre più profonda con la Russia, mentre il Wall Street Journal svela che la Cina sta fornendo all’esercito russo la tecnologia necessaria per il conflitto nonostante le sanzioni internazionali e i controlli all’export.

La guerra intanto continua con i russi che concentrano “tutte le forze” assediando Bakhmut, cercano di avanzare nelle regioni di Donetsk e Kharkiv e in tutto il Donbass. La situazione “si sta facendo più dura” al fronte, ha riferito Zelensky, parlando di un momento “molto difficile a Bakhmut, a Vugledar, su Lyman”. Nella Mariupol occupata, nell’ultima settimana sono arrivati tra i 10 e i 15 mila russi, portando a 30mila il totale dei soldati di Mosca nella città. E come se non bastasse, un incidente ‘significativo’ in una sottostazione elettrica ha costretto a introdurre blackout di emergenza a Odessa, dove mezzo milione di persone sono rimaste senza luce. Nel dramma della guerra, continua comunque lo scambio di prigionieri con 63 russi e 116 ucraini liberati dai due fronti. Dal 24 febbraio, “siamo riusciti a riportare dalla prigionia russa 1.762 uomini e donne ucraini”, ha detto Zelensky. Restituiti anche i corpi dei volontari britannici Christopher Parry e Andrew Bagshaw, uccisi in un’operazione umanitaria a Soledar.

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Zelensky, ‘navi russe sanno cosa le aspetta nelle acque ucraine’

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Le navi russe sanno già cosa le aspetta nelle acque ucraine. Lo ha detto presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso ai diplomati dell’Accademia marittima di Odessa, citato da Ukrinform. Il presidente ha ringraziato gli ufficiali della Marina ucraina per aver protetto lo Stato nel settore della difesa marittima e ha aggiunto che l’Ucraina ha bisogno di una vittoria sul nemico in mare, a terra e in cielo. “Le navi russe hanno già memorizzato l’unica prospettiva per loro nelle acque ucraine. L’ammiraglia russa del Mar Nero ha già dimostrato ciò che qualsiasi nave che minaccia l’Ucraina dovrebbe affrontare, ed è solo una questione di tempo prima che ripeta il destino della nave Moskva”, ha detto Zelensky riferendosi all’incrociatore russo affondato dalle forze ucraine lo scorso aprile. In conclusione, ha aggiunto in presidente ucraino, “le nostre forze di difesa e di sicurezza hanno dimostrato fermamente che l’Isola dei Serpenti ucraina non tollererebbe una bandiera nemica”.

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L’Onu accusa Mosca e Kiev di ‘esecuzioni sommarie’

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L’ombra dei crimini di guerra si allunga ancora una volta in Ucraina. Dopo il mandato di arresto contro il presidente Vladimir Putin per le deportazioni di bambini in Russia, questa volta è l’Onu a muovere accuse a entrambe le parti per decine di esecuzioni sommarie. “Siamo profondamente preoccupati per l’esecuzione sommaria di 25 prigionieri di guerra russi e di persone fuori combattimento” e per quella di “15 prigionieri di guerra ucraini”, ha affermato Matilda Bogner, capo della missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Da Kiev, la replica è affidata al difensore civico Dmytro Lubinets, che respinge gli addebiti e chiede di “conoscere i fatti e gli argomenti indiscutibili su cui si basano le conclusioni della missione”. Ma le accuse dell’Onu raccontano l’atrocità di un’invasione che non vede ancora tregua, anzi: se la Cina dovesse decidere di armare Mosca “prolungherebbe il conflitto e certamente amplierebbe la guerra potenzialmente non solo nella regione ma a livello globale”, è stato il monito lanciato a Pechino dal capo del Pentagono Lloyd Austin.

Mosca da parte sua non pensa ad alcun ritiro, e minaccia anzi di spingersi fino a Kiev e Leopoli, se necessario: parola del falco Dmitri Medvedev. Secondo Bogner, l’Onu è a conoscenza di cinque indagini condotte da Kiev che coinvolgono 22 vittime di esecuzioni sommarie, ma “non siamo a conoscenza di alcun procedimento contro gli autori” di questi crimini. Per quanto riguarda le esecuzioni di 15 prigionieri di guerra ucraini “poco dopo la loro cattura” da parte delle forze armate russe, 11 di loro sono state perpetrate dal gruppo paramilitare russo Wagner, ha aggiunto la funzionaria. Dall’inizio dell’invasione, la missione Onu in Ucraina ha poi documentato 621 casi di sparizione forzata e detenzione illegale di civili da parte delle forze armate russe, mentre sono 91 gli episodi analoghi commessi dagli ucraini.

La denuncia delle Nazioni Unite mostra il volto di una guerra che non conosce regole, mentre crescono le tensioni internazionali tra un Occidente che rafforza il suo sostegno a Kiev e il Cremlino che minaccia ritorsioni. Come nel caso della fornitura di armi all’uranio impoverito annunciata da Londra: significherebbe “aprire il vaso di Pandora”, è stato il commento di Medvedev, tornato a ribadire le intenzioni di Mosca di difendere la Crimea occupata con “qualsiasi arma”. Ma nonostante le tensioni, secondo l’ex presidente la Russia non cerca un confronto diretto con la Nato, e vuole risolvere la guerra “pacificamente attraverso i negoziati”, che restano però lontani. L’attenzione è ancora puntata sul piano di pace della Cina, che intanto accusa gli Usa di “gettare benzina sul fuoco” e “ostacolare” gli sforzi per i colloqui. Ma l’interesse occidentale, o almeno europeo, per la proposta c’è: lo confermano gli annunci delle prossime visite a Pechino dell’alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell, della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del presidente francese Emmanuel Macron. E prima ancora a incontrare Xi Jinping in Cina sarà il premier spagnolo Pedro Sanchez, la prossima settimana.

Se da una parte la proposta cinese sembra essere ormai la base per lavorare a una soluzione mediata del conflitto, Kiev ha più volte ribadito che diversi punti del piano sono lontani dalla pace immaginata dagli ucraini, mentre cresce l’attesa per una telefonata tra Zelensky e Xi. Secondo il consigliere presidenziale Mikhailo Podolyak, la chiamata è prevista, ma ci sono alcune “difficoltà” nell’organizzarla. Pechino invece ha chiarito che al momento “non ha nulla da condividere” al riguardo. Intanto continua a cadere la pioggia di bombe su tutta l’Ucraina, mentre cresce l’allarme di Kiev per la centrale di Zaporizhzhia: “A seguito del calo dell’acqua dal bacino idrico di Kakhovka, esiste il rischio di un guasto dei sistemi di raffreddamento” e “questo potrebbe significare un possibile scenario Fukushima nel mezzo del continente europeo”, secondo il ministro della Protezione ambientale e Risorse naturali dell’Ucraina, Ruslan Strilets.

Il sangue continua a scorrere nel Paese, dove nell’ultima giornata almeno 10 civili sono stati uccisi e 20 feriti a causa dei bombardamenti russi in diverse aree, tra cui 5 morti per un attacco ad un rifugio per civili a Kostiantynivka, nel Donetsk. Nella notte, le forze russe hanno colpito con droni l’area di Kryvyi Rih, città natale di Zelensky. E prosegue l’assedio russo per conquistare la città simbolo di Bakhmut, dove circa 10.000 civili, molti dei quali anziani e con disabilità, vivono ancora dentro e intorno all’insediamento in “condizioni disastrose”, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa.

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Siria, guerra Usa-Iran attorno ai pozzi di petrolio

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A sole quattro ore di volo dall’Italia e a due passi dalle coste mediterranee, è andato in scena un altro round della guerra aperta, ormai in corso da anni, tra Iran e Stati Uniti nella Siria nord-orientale, ricca di petrolio e al centro degli interessi anche della Russia e della Turchia. Un contractor americano è stato ucciso e altri cinque militari Usa sono stati feriti in un attacco compiuto contro una base americana da un drone iraniano nella regione di Hasake, a soli 12 chilometri dal confine con l’Iraq. Il Pentagono ha subito puntato il dito contro i Pasdaran, le forze d’elite della Repubblica islamica presenti in varie aree del Medio Oriente dall’Iran al Libano passando per Siria e Iraq. Poco dopo l’attacco aereo di Hasake, jet statunitensi si sono levati in volo e hanno bombardato tre diverse postazioni di jihadisti sciiti filo-iraniani nell’est della Siria, colpendo depositi di armi e rifugi nei distretti di Mayadin, Bukamal e Dayr az-Zor. Secondo fonti locali in Siria, l’Iran dispone nel paese mediterraneo di circa 70mila tra miliziani libanesi, afgani e iracheni. A seguito di questi attacchi, nei quali sono stati uccisi almeno 11 miliziani filo-iraniani, di cui 7 di nazionalità siriana, i jihadisti sciiti vicini a Teheran hanno sparato colpi di mortaio sulle installazioni petrolifere di al Omar, a est del fiume Eufrate, in un’area controllata da forze curdo-siriane e dove sorge l’altra principale base militare Usa in Medio Oriente.

Centinaia di militari americani sono presenti in Siria dal 2014 con l’obiettivo dichiarato di “sconfiggere il terrorismo dell’Isis” e sono per questo a capo della Coalizione globale anti-Isis. Sul terreno, Washington sostiene le forze curdo-siriane, emanazione del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) in lotta con il governo turco del presidente Recep Tayyip Erdogan. Nella stessa area nord-orientale siriana, poco lontano dove i Pasdaran hanno ucciso nella notte un contractor Usa, sono presenti anche militari turchi e soldati russi. Solo ieri mezzi blindati di Mosca e di Ankara hanno condotto il periodico pattugliamento congiunto della frontiera siro-turca in pieno territorio siriano, in una regione ricca di giacimenti di petrolio. Nella Siria in guerra da 12 anni e alle prese con la peggiore crisi economica della sua storia, la spartizione del territorio orientale contiguo all’Iraq occidentale, dove sono presenti altri militari Usa, non avviene solo tramite eserciti e milizie straniere.

Ma avviene anche tramite la cooptazione, da parte di potenze straniere, di attori locali: si tratta, per lo più, di giovani adulti costretti da anni a scegliere la via della migrazione clandestina o l’arruolamento, per sostentamento, in gruppi armati al soldo di quello o quell’altro paese. Mentre si intensifica la guerra guerreggiata tra Stati Uniti e Iran, si fa così sempre più netta, sul terreno, la contrapposizione sociale tra i siriani che lavorano al servizio degli americani e degli ascari curdi, e i siriani che rispondono invece agli ordini degli iraniani, dei russi e delle forze governative di Damasco.

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