Anche San Gregorio Armeno, celebre arteria dell’artigianato presepiale nel cuore di Napoli, si è unita alla protesta avviata nei Quartieri Spagnoli contro le riprese di “Gomorra: le origini”, il prequel della serie cult che racconta l’ascesa del boss immaginario Pietro Savastano. A parlare, lungo la strada dei pastori, è un grande striscione con una scritta forte e diretta:
“Gomorra napolesi in tv. Napoli dell’arte non vi sopporta più”.
L’iniziativa, lanciata dall’associazione Le Botteghe di San Gregorio Armeno, nasce con l’intento di denunciare quella che viene percepita come una rappresentazione distorta e violenta della città. «Un’immagine – spiegano – che non ci appartiene, che svilisce il cuore autentico della nostra cultura e che offusca il lavoro quotidiano di chi promuove arte, artigianato, storia e bellezza».
Una posizione legittima, che nasce da una ferita identitaria profonda, ma che non può tradursi in censura.
È giusto e condivisibile difendere la vera immagine di Napoli, città di luce, bellezza, creatività e accoglienza. Ma dire che Gomorra debba essere fermata perché offende la città è un passo falso. La fiction non racconta Napoli geograficamente, non la esaurisce, non la incasella. Gomorra è una rappresentazione simbolica, una lente d’ingrandimento su un fenomeno criminale che non è esclusivo di Napoli, ma appartiene a tutte le grandi città del mondo.
Gomorra è anche Milano, New York, Londra, Parigi. È ogni luogo dove la cultura della violenza, del denaro, della sopraffazione prevale sulla civiltà. Quella raccontata dalla serie è una realtà criminale purtroppo esistente e tangibile: la camorra esiste, uccide, controlla interi quartieri, opprime comunità, recluta giovanissimi. Far finta che non ci sia, non la fa sparire.
Non si comprende perché un documentario sulle bellezze del Golfo sia considerato “veritiero” e quello sulla camorra venga subito bollato come “fasullo”. La verità è che Napoli è entrambe le cose: splendore e abisso, arte e miseria, poesia e criminalità. Non si può celebrare la città solo quando si parla dei suoi pastori, dei suoi tramonti e dei suoi cantanti. Anche le sue ferite meritano di essere raccontate. E negare la voce all’arte, quando parla di questo, è ipocrisia pura.
C’è poi un altro aspetto che rende questa protesta al limite del paradossale: le stesse botteghe di San Gregorio Armeno che oggi si indignano, per anni hanno realizzato e venduto a centinaia le statuette dei protagonisti di Gomorra, con ottimi incassi. È lecito indignarsi oggi dopo aver cavalcato l’onda commerciale del fenomeno? Anche Don Matteo, fiction candida e rassicurante vista da milioni di italiani, non ha reso l’Italia un Paese migliore. La televisione non crea la realtà, semmai la interpreta. E Gomorra è riuscita, con efficacia narrativa e impatto estetico, a raccontare una verità scomoda.
Napoli ha diritto a raccontarsi per ciò che è: una capitale culturale, viva, geniale. Ma ha anche il dovere, come ogni città matura, di confrontarsi con le proprie ombre. L’arte non va censurata, neppure quando disturba. Al massimo, si può non condividerla, criticarla, controbilanciarla con altre narrazioni. Ma non vietarla.
La censura non è mai un atto d’amore verso la città. È solo paura. E Napoli, più di ogni altra città al mondo, ha sempre avuto il coraggio di guardarsi allo specchio. Anche quando quel riflesso faceva male. I napoletani possono avere qualunque difetto gli si voglia attribuire, ma hanno un pregio che è virtù di pochi popoli: non sono ipocriti e si raccontano da sempre con spietata severità. Forse Napoli è diventata una città migliore per questo motivo.