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Marieme e Ndeye, le gemelline siamesi “inseparabili”

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Unite per la vita e per la morte, da un filo sottile quanto resistente che un’irriducibile voglia di stare al mondo ha impedito finora di spezzare. E’ il destino, tragico eppure per molti versi miracoloso, di Marieme e Ndeye, due gemelline siamesi nate in Senegal con il tronco in comune e portate poi in Gran Bretagna dai genitori alla ricerca di una migliore assistenza, se non della soluzione a un dilemma rivelatosi di fatto impossibile da sciogliere. Bambine a cui gli specialisti avevano dato in un primo momento non piu’ di pochi giorni di sopravvivenza e che invece hanno compiuto 3 anni. La vicenda, venuta alla luce sui media britannici all’inizio del 2019, torna oggi sotto i riflettori grazie a un documentario trasmesso dalla Bbc, che per mesi le ha seguite. Inizialmente l’attenzione era stata dedicata allo strazio dei genitori quando a gennaio lo staff dell’ospedale pediatrico Great Ormond di Londra aveva prospettato la possibilita’ di un intervento per provare a separare le piccole. Ma a condizione di sacrificarne inevitabilmente una: cosa a cui il padre si era subito opposto, non sentendosi in grado di fare una scelta del genere. In seguito, come riporta la stessa Bbc, sono stati gli stessi medici a ripensarci.

Nuovi accertamenti hanno permesso di capire che l’operazione in realta’ non sarebbe mai stata verosimile: Marieme e Ndeye hanno infatti cuore e spina dorsale separati, ma hanno in comune l’apparato digerente, il fegato, la vescica e soprattutto un sistema circolatorio molto piu’ interconnesso rispetto a quanto si fosse ritenuto alcuni mesi orsono. Di qui la decisione di limitarsi a continuare ad assisterle, 24 ore su 24, grazie a un’infermeria permanente installata nella nuova casa di famiglia di Cardiff, nel Galles. Gillian Body, consulente pediatrica del Noah’s Ark Children’s Hospital for Wales, si e’ lasciata andare in questi giorni a uno squarcio di sorriso, pur in un contesto cosi’ duro da accettare. “Le bambine ora reagiscono bene, stanno godendo di un periodo di stabilita’ e ci sorprendono con i loro progressi”, ha riferito. “Prima pensavamo che Marieme dipendesse moltissimo da Ndeye, mentre recenti osservazioni hanno mostrato che l’una dipende dall’altra per poter restare in vita; e’ stata una grande svolta, ma e’ anche bello che sia cosi’: eravamo in preda al problema etico se separarle o meno, adesso questo dilemma non e’ piu’ sul tavolo”.

“Noi siamo chirurghi, abbiamo il dovere di mettere la famiglia nelle condizioni di poter scegliere. Non ci devono essere rimpianti”, ha commentato da parte sua Paolo De Coppi, lo specialista italiano del Great Ormond, cui sarebbe spettato il compito di guidare l’equipe in sala operatoria nel caso in cui l’intervento ai limiti dell’impossibile avesse avuto luogo. “I dottori sanno ormai che si tratta di un caso unico e complesso”, ha fatto eco il papa’, Ibrahima Ndiaye, notando come la resistenza delle gemelle sia andata “oltre ogni aspettativa” e come la situazione offra se non altro “un po’ di ottimismo in piu'”. Le piccole intanto si mostrano serene in alcune immagini, in grado di farsi compagnia. “Quando una piange – ha raccontato Ibrahima – l’altra la incoraggia a smettere. Continuano a crescere insieme, le mie bambine, e a darmi gioia”.

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Le 5 soldatesse da liberare per 250 detenuti

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Chi può dimenticare Naama Levy, soldatessa di 19 anni, tirata fuori dal bagagliaio di una jeep nera, con i pantaloni della tuta insanguinati tra le gambe, le mani ferite legate dietro la schiena, la faccia pesta che cola sangue, scalza, trascinata per i capelli e spinta sul retro del mezzo da tre terroristi che la espongono in una via di Gaza sparando in aria e urlando ‘Allahu Akbar’. Quelle immagini pubblicate sui social dai fondamentalisti di Gaza sono diventate il raccapricciante simbolo della violenza sessuale contro le donne israeliane durante l’attacco del 7 ottobre 2023. Rapita da Hamas nella base militare di Nahal Oz, Naama potrebbe fare ritorno a casa tra poche ore: per riaverla indietro Israele è disposto a liberare 50 detenuti palestinesi detenuti nelle carceri del Paese, compresi 30 ergastolani condannati per reati gravissimi. Cinquanta per ognuna delle cinque soldatesse, osservatrici senza armi, ancora prigioniere a Gaza dopo 466 giorni da quel sabato di sangue.

Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger e Daniella Gilboa sono le altre quattro per le quali Israele pagherà un prezzo altissimo. Nel luglio del 2024 Hamas ha diffuso un’immagine delle quattro ragazze, che hanno compiuto 20 anni in cattività, sedute su materassi per terra, e alle spalle la foto incorniciata del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran da un’esplosione l’estate scorsa. Le cinque soldatesse sono ritenute in Israele la prova vivente della fallimentare gestione della sicurezza israeliana: a loro era assegnato il ruolo cruciale di monitorare il confine con Gaza, nel settore più caldo e pericoloso. Prima dell’assalto avevano segnalato ai loro comandanti osservazioni allarmanti sui movimenti dall’altra parte del confine. Se le informazioni che avevano trasmesso fossero state prese sul serio, i preparativi del massacro sarebbero stati identificati prima del 7 ottobre. Ma i loro avvertimenti furono ignorati e trattati con superficialità dai vertici militari.

Sulla base di Nahal Oz sono piombate le brigate al Qassam di Hamas e Saraya al Quds della Jihad islamica palestinese, il gruppo più estremo dei terroristi di Gaza. Più di 60 soldati, tra cui 15 soldatesse, sono stati uccisi e sei sono stati dichiarati dispersi o rapiti. Hamas, qualche tempo dopo l’invasione, ha diffuso il tragico video delle prime ore dal rapimento delle ragazze. Naama con il viso devastato dai colpi, la bocca di Agam piena di sangue, tutte legate, a terra, circondate da decine di terroristi armati di fucili d’assalto che urlano tutti insieme, ‘vi schiacciamo sioniste, cagne’, poi pregano, poi mangiano. L’ultimo video rilasciato da Hamas nelle settimane scorse fa vedere Liri, in giacca mimetica, sottomessa, piegata, spenta.

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Kiev sferra ‘i maggiori raid di sempre’ in Russia

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L’Ucraina ha rivendicato di aver effettuato “il più massiccio attacco contro le strutture militari” russe dall’inizio della guerra, colpendo il territorio nemico fino a una profondità di oltre mille chilometri con i droni. Ma i raid hanno preso di mira anche la regione frontaliera di Bryansk, dove sono stati impiegati missili americani e britannici, secondo quanto ha reso noto Mosca, minacciando una “risposta”. Nel frattempo, i comandi militari russi hanno detto di avere preso il controllo di altri due villaggi nella loro avanzata nell’est ucraino: quelli di Terny e Neskuchnoye, nella regione di Donetsk.

La stessa dove è situata Pokrovsk, la città alla quale si avvicinano i soldati di Mosca e dove è stata annunciata la chiusura e l’evacuazione del personale della locale miniera utilizzata per la produzione del coke, un carbone impiegato nella filiera dell’industria siderurgica, colonna portante dell’economia nel Donbass. I contendenti sembrano dunque impegnati nello sprint finale prima dell’insediamento alla Casa Bianca tra meno di una settimana di Donald Trump, che dovrebbe scoprire le carte sulla sua iniziativa di pace. La cautela mostrata oggi da Serghei Lavrov nella sua tradizionale conferenza stampa di inizio anno è emblematica del clima di attesa che si respira a Mosca.

In oltre due ore di domande e risposte, il ministro degli Esteri russo ha accuratamente evitato di sbilanciarsi in previsioni. Mosca, ha detto Lavrov, giudica positivamente alcuni cambi di tono nelle dichiarazioni di futuri membri dell’amministrazione Usa, come “il semplice fatto che si cominci a parlare di più delle realtà sul terreno” per la ricerca di una soluzione al conflitto. Ma attende da Trump “iniziative concrete”. Lavrov ha aggiunto che la Russia è pronta a discutere di “garanzie di sicurezza per il Paese che ora si chiama Ucraina”, ma ciò dovrà avvenire in un più vasto “contesto euroasiatico” per la sicurezza collettiva.

“Il punto non è l’Ucraina – ha affermato Lavrov -, il punto è che l’Ucraina viene utilizzata per indebolire la Russia”. E la Russia continua a sentirsi vulnerabile per gli attacchi sul suo territorio anche mentre le sue truppe avanzano su quello ucraino. In una nota, lo Stato maggiore di Kiev ha affermato di aver bombardato con i droni obiettivi militari “ad una distanza compresa tra 200 e 1.100 chilometri nel profondo della Federazione Russa”, nelle regioni di Bryansk, Saratov, Tula e della Repubblica del Tatarstan, la più lontana. Tra gli obiettivi, secondo la stessa fonte, “una base di stoccaggio del petrolio a Engels, nella regione di Saratov”, utilizzata per rifornire i bombardieri strategici. Un impianto già colpito la settimana scorsa in un attacco che ha provocato un incendio durato diversi giorni.

Secondo i media e il governo regionale, nella regione del Tatarstan, sul Volga, ricca di energia, un drone ha colpito un serbatoio di stoccaggio di gas liquefatto, facendo divampare fiamme e fumo denso nel cielo vicino alla città di Kazan. Gli attacchi ucraini hanno costretto la Russia ad imporre restrizioni temporanee ai voli civili in ben sette aeroporti. Nella regione frontaliera di Bryansk gli ucraini hanno detto di aver colpito uno stabilimento chimico a Seltso, dove “vengono prodotte munizioni per artiglieria, sistemi di lancio di razzi, munizioni per l’aviazione, ingegneria e componenti per missili da crociera Kh-59”. Il ministero della Difesa di Mosca ha affermato che nell’attacco le forze di Kiev hanno utilizzato sei missili americani Atacms lanciati da terra e sei Storm Shadow britannici lanciati da aerei, oltre a 31 droni. “Le azioni del regime di Kiev, sostenute dai suoi curatori occidentali, non rimarranno senza risposta”, ha avvertito il dicastero russo.

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Napoletano catturato dai soldati ucraini: costretto a battermi per Russia

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In video sostiene di essere stato costretto a combattere per la Russia, Gianni Cenni, il pizzaiolo napoletano di 51 anni catturato dalle forze speciali ucraine a Kharkiv, in Donbas. A renderlo noto è Repubblica. Nelle immagini che stanno circolando sui social e di cui scrive il quotidiano, Cenni sostiene di essere stato “mobilitato illegalmente in Russia per combattere in Ucraina” e di volere tornare in Italia. Il 51enne alcuni anni fa si è trasferito in Russia: a Samara, viene riportato, aveva lavorato come pizzaiolo anche in un locale del console onorario della città che si affaccia sulle sponde del Volga. In Italia è stato però condannato due volte: la prima per omicidio, reato per il quale ha scontato la pena. Questa vicenda risale al 1999: Cenni lavorava come guardia giurata a Milano. La seconda condanna invece è di molestie sessuali ai danni di una bimba di 7 anni, figlia di parenti della sua compagna dell’epoca. Le violenze sarebbero state commesse tra il 2010 e il 2012. Questa condanna, invece, non l’ha scontata in quanto, nel frattempo, Cenni si era allontanato dall’Italia.

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