Che la figlioletta dell’amica andasse al corteo organizzato per ricordare i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino proprio non gli andava giu’. “Noi non ci immischiamo con Falcone e Borsellino. Non ti permettere. Io mai gliel’ho mandato mio figlio a queste cose… vergogna”, urlava il boss Maurizio Di Fede, non sapendo di essere intercettato, alla madre di una bambina che si apprestava a partecipare alle manifestazioni organizzate a Palermo per l’anniversario della strage di Capaci. “Da un mese si prepara. Ma in fondo, e’ solo una cosa scolastica”, replicava la donna, sperando di convincere il capomafia e di accontentare la figlia che ci teneva ad andare con i compagni al giardino della Magione, alla Kalsa, il quartiere arabo in cui i due giudici sono stati ragazzi. “Alla Magione, la’ sono nati e cresciuti, i cornuti la’ sono nati”, insisteva Di Fede alludendo ai due magistrati. Scene di ordinaria sub-cultura mafiosa registrate dalla polizia che oggi, insieme ai carabinieri, ha fermato 16 persone, tra le quali lo stesso Di Fede, per associazione mafiosa ed estorsione. Una inchiesta durata due anni che ha scritto i nomi dei colonnelli e dei gregari del mandamento di Brancaccio-Ciaculli e documentato gli affari di alcuni dei clan piu’ antichi della citta’. Quel che innanzitutto viene fuori dall’ultima inchiesta della Dda di Palermo e’ proprio la pervasivita’ dei disvalori mafiosi pienamente accettati in certi territori. Tanto da condizionare nel profondo commercianti e imprenditori pronti a chiedere al capomafia locale l’autorizzazione per aprire le attivita’ e a pregare l’esattore del pizzo a non scrivere il proprio nome nel libro mastro delle estorsioni per evitare di dover rendere conto agli inquirenti qualora il registro delle riscossione fosse trovato. “Non fare scrivere nel libro”, dice il commerciante Francesco Paolo Sparacello a Di Fede. “Solo questo, poi il resto non me ne fotte…”. “Pezzi di carta non ce n’e'”, lo rassicura il boss. Ma la vittima non si accontenta e chiede garanzie che il suo modus operandi venga adottato da un eventuale esattore che dovesse avvicendarsi a lui fra uno o due anni. “Dico se dovesse venire qualche altro fra due anni…un anno…dico”. “No, no, no, no, a posto, a posto!”, gli risponde Di Fede. Sono oltre 50 le estorsioni scoperte dagli investigatori. Cinquanta e nessuna denuncia da parte delle vittime che preferiscono continuare a pagare. Supermercati, autodemolitori, macellerie, bar, discoteche, farmacie, panifici, imprese di costruzione, rivendite di auto: nel mandamento di Brancaccio Ciaculli pagavano tutti. Perfino durante l’emergenza Covid, i pochi negozianti rimasti aperti, peraltro con volumi da affari assolutamente esigui, sono stati costretti a versare i soldi alla mafia. Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti sono finite “famiglie” storiche della citta’ come Corso dei Mille, Roccella, Brancaccio e Ciaculli. E sfogliando il lungo decreto di fermo emesso dalla Procura tornano cognomi noti: come quello dei Greco. Al vertice del mandamento infatti ci sarebbe Giuseppe Greco, nipote di Michele Greco detto “il papa”. Dopo l’arresto del cugino Leandro Greco, interessato a realizzare un cimitero privato vista l’emergenza sepolture a Palermo, il mandamento mafioso e’ stato retto da Giuseppe che si e’ occupato di tenere i rapporti con le altre famiglie mafiose. Al suo fianco c’era Ignazio Ingrassia detto “il boiacane”, un anziano mafioso con importanti reazioni con la mafia americana. Greco e Ingrassia controllavano capillarmente il territorio intervenendo anche nella compravendita di terreni e immobili e gestendo il mercato della droga.