Luciano Armeli Iapichino è un insegnante ed uno scrittore. Esperto di mafia. Vive in Sicilia, nel Messinese. Premiato con il premio Omcom “Scrittore Scomodo” all’ultimo vertice antimafia.
Parliamo di mafia. Di mafia dei Nebrodi. Mafia arcaica e moderna al tempo stesso. Come valuti l’ultima operazione avvenuta in tal contesto?
I Nebrodi sono una terra bellissima. L’omonimo Parco naturale, una delle aree protette più grandi d’Europa che si estende dal messinese sino alle province di Enna e Catania, comprende ben 24 comuni e presenta una flora, una flora e una biodiversità davvero senza eguali. Un’area penalizzata nel tempo dalla presenza di focolai di mafia che hanno lasciato in questo territorio mattanze (alcune delle quali e anche in tempi più recenti rimaste impunite) e poco sviluppo. Un’area, tra l’altro, confinante con i clan palermitani da un lato e le pericolosissime consorterie criminali di Barcellona Pozzo di Gotto e del catanese dall’altro. Ricordiamo che l’artificiere di Cosa Nostra che confezionò il telecomando per la strage di Capaci, ad esempio, era di Mistretta.
L’operazione “Nebrodi”, l’ultima in ordine di tempo e la più imponente dopo l’operazione Mare Nostrum degli anni ’90 che smantellò i vecchi clan storici di Barcellona Pozzo di Gotto e Tortorici e che lasciò per le strade decine di cadaveri, ha svelato il nuovo volto della mafia nebroidea, in particolare delle consorterie dei Bontempo Scavo e dei Batanesi, che a parere dei magistrati, rimangono due individualità distinte “nel dna, nella storia delle associazioni, nelle guerre, nei morti.” Oggi, questa mafia ha capito che le azioni esemplari attirano indagini e tarsk force da un lato, morte e pentiti dall’altro, pertanto, mantenendo intatte la pericolosità, la capillarità interprovinciale e la capacità di intimidazione, maturando pari tempo la logica dell’alleanza, della pace, dell’inabissamento e della suddivisione a tavolino delle attività illecite, agisce cercando nuove direttrici di profitto. Le stesse sono state individuate nei fondi comunitari (AGEA), denaro pubblico e “pulito”. Ed è qui che fa la sua comparsa sua maestà la zona grigia, ovvero quei professionisti che, in modo particolare in questo settore, mettono a disposizione dei clan la loro competenza per dribblare la giunga burocratica e le norme dei bandi comunitari con consigli operativi, false attestazioni e il non controllo dei dati inseriti a sistema, in modo particolare nei CAA, i centri di assistenza agricola. Una mafia, dunque, che come si legge nell’ordinanza dei magistrati, è “capace, di evolvere, di adattarsi ai tempi, e soprattutto, palesemente, di usare i processi, per imparare i metodi e il modus operandi del nemico, i carabinieri, i giudici, lo Stato, per crearsi anticorpi, per aggirarlo, per continuare ad esistere e fare affari milionari in barba a tutte le forze dello Stato e dello Stato tutto.” E si parla di un business di 5 milioni di euro. Dal punto di vista sociale, una ferita e un’ennesima sconfitta.
Cinque colpi per Antoci un tuo recente articolo in cui spieghi molto bene la questione e che smaschera i c.d. mascariatori. Spiegaci bene la questione.
Quello dell’ex Presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, è un caso che fa capire come la storia della lotta alla mafia e delle sue aberrazioni non continui ad essere, in misura ancora più evidente delle altre vicende della historia universale, una magistra vitae, ovvero non riesce a far maturare dal passato e a un popolo “dilaniato” da un secolo di terrore mafioso, una nuova cultura che riesca a far comprendere la netta distinzione tra bene e male, tra bene, zona grigia e male. Da Cosimo Cristina, Peppino Impastato, Beppe Alfano, Nino Agostino, Giovanni Falcone, Via D’Amelio, Attilio Manca – solo per citare alcuni casi – c’è sempre in agguato e pronto a fare la sua comparsa il colpo “in canna” più pericoloso: il mascariamento, ovvero l’atto di delegittimazione “sparato” e dalla consorteria criminale e dal fuoco cosiddetto “amico”, che mira a sminuire la dignità, la reputazione, l’azione di contrasto, la serenità, in altre parole, ad “annullare” non fisicamente ma socialmente la credibilità dell’uomo onesto e dabbene. Per Giuseppe Antoci per via del suo Protocollo di legalità che è oggi legge dello Stato e che ha contribuito a limitare se non a chiudere i rubinetti comunitari alle consorterie nebroidee, così come per quel team denominato “la squadra dei vegetariani” del Commissariato di Sant’Agata di Militello, nel periodo 2015-2018 a guida del vice-questore aggiunto Daniele Manganaro, che aveva avviato forti azioni di bonifiche già a partire con l’inquietante operazione Gamma Interferon (anche questa vicenda smascherava connivenze tra consorterie criminali e colletti bianchi finalizzate all’accaparramento dei fondi AGEA e un giro di farmaci veterinari pericolosi e persino scaduti, provenienti anche dall’estero, con possibili conseguenze nocive per la salute), si è sollevata una monumentale macchina del fango a vario livello (dossier anonimi, disinformazione, delegittimazione, calunnie) che ha logorato forze dell’ordine, famiglie, territorio e inquirenti. Ha provocato disorientamento, distacco e forse anche indifferenza nei cittadini per il certosino lavoro portato avanti da chi – dopo un lungo periodo in cui il malaffare covava silente, in maniera incisiva come e forse più del passato ma senza forti traumi investigativi – aveva iniziato in quell’area specifica a scoperchiare la pentola. Si tratta di un tipo di pressione che, insieme alle piaghe sociali e criminali, non fa certo bene a un territorio che fa fatica ad alzare la testa e a guardare il futuro nel III Millennio. Scoraggia e logora. Altro caso emblematico di delegittimazione, quello del professore universitario Adolfo Parmaliana, morto suicida dopo aver denunciato legami tra massoneria e istituzioni e delegittimato da un dossier anonimo. In quel caso, però, anche da morto ha avuto giustizia. Il corvo, all’interno dei palazzi della magistratura messinese, è stato condannato in via definitiva. Anche per i mascariatori, prima o poi, il conto arriva.
Come vedi nel 2020 la lotta alla mafia nel nostro Paese?
Per natura sono una persona pessimista. Continuo a esserlo. Da un lato, in tempi di tentativi di riabilitazioni e revisioni storiche, corruzione dilaganti, antimafia in guerra con l’antimafia e inquinata dal virus della Cosa Grigia (Sistema Saguto e Montante docent), Gratteri che deve difendersi dal fuoco “amico” e dall’isolamento anche mediatico, una classe politica che sulla prescrizione si auto-annienta con battaglia infernali, che ha come necessità l’ennesimo papocchio di legge elettorale e le autorizzazioni a procedere per ex cazzari che hanno inculcato la paura dei migranti; continuo … dall’altro, un Paese che continua a chiudere librerie per aprire sale giochi, disorientato e usurato dalla forte conflittualità della classe politica e schiacciato dalle difficoltà quotidiane …ecco, in questo stato di cose, forse, la lotta alla mafia non mi pare sia una priorità nell’agenda politica del 2020 e nelle aspettative dei più. L’impressione è quello di essere in uno sterminato campo di battaglia in cui tutti e a vario livello sono in guerra contro tutti, puntellato, ogni tanto, da zone di resistenza all’illegalità che fornisce assistenza ai “crociati” che poi ritornano isolati a fare la guerra contro le forze del male. Manca l’unità delle forze. Il sistema della lotta alla mafia è frantumato. Accerchiato nelle parti ancora più sane e idealizzate. Scrive Giacomo di Girolamo: la Cosa Grigia è anche nel convegno della legalità dove parlano le persone perbene. Mi incoraggiano però le azioni di una magistratura seria e scrupolosa, sia le iniziative di quella parte di associazionismo antimafia che continua a promuovere una cultura diversa. E la Fondazione Caponnetto ne è un esempio, perché cerca di agglomerare tutte le forze impegnate nel contrasto alla mafia, istituendo una sorta di rete capillare sul territorio e mostrando la sua presenza nelle aree come nelle periferie cittadine più a rischio della penisola.
A me viene in mente ciò che Carlo Levi scriveva di Salvatore Carnevale, uno dei primi sindacalisti uccisi dalla mafia nel 1955, nel suo libro Le parole sono pietre: “Capì che l’intransigenza è, prima di un dovere morale, una necessità di vita, e che il primo passo è l’organizzazione […]”, intesa come fare gruppo nella lotta al potere criminale.
Scrivi di mafia e sei scomodo, pertanto ti chiedo che rapporto hai con la paura?
La paura è un fatto umano. E c’è! Ma se penso a chi nella mia terra ha contrastato la mafia per regalare un futuro migliore alla sua terra, o a chi il futuro non l’ha potuto vivere perché incappato suo malgrado nella voragine criminale, uno tra tutti Attilio Manca, il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, morto nel 2004 a Viterbo e sulla cui dipartita aleggerebbe lo spettro della latitanza e dell’operazione alla prostata al boss Bernardo Provenzano, fatto passare per tossicodipendente (mascariato), allora trovo le giuste motivazioni per continuare a dare un contributo alla mia terra e a scrivere e a raccontare ciò che di bello c’è e ciò che non lo è in giro per l’Italia.
Il nostro Paese indubbiamente vive una situazione complicata. Tu insegni ai giovani a scuola… Come lo vedi per loro il futuro?
I giovani non respirano, di certo, un quadro consolante, però li vedo molto incuriositi rispetto al passato e più determinati a voltare pagina. Ci sono comitati studenteschi dalle mie parti molto attivi e dinamici che promuovono una cultura diversa, si muovono nel territorio e cercano di fungere da esempio per i loro coetanei più svogliati o disinteressati. Certo l’uso malsano dei social e il tempo sprecato funge da deterrente alla lettura di un buon libro: questa è la mia personale e continua battaglia in classe. I ragazzi vanno stimolati, incuriositi, impegnati, sensibilizzati senza sosta e continuamente. Alla fine, forse, la lezione la riceveremo da loro. Loro, il nostro ultimo baluardo.
Alla centrale operativa della Compagnia Carabinieri di Giugliano in Campania arrivano diverse segnalazioni ma il messaggio è sostanzialmente lo stesso: “C’è una persona che sta passeggiando sull’Asse Mediano, sembra spaesato”.
I militari della sezione radiomobile della compagnia di Giugliano raggiungono in pochi minuti l’asse mediano. Ogni minuto può essere prezioso e la Gazzella dell’Arma percorre la strada – nota per essere percorsa ad alta velocità – in direzione Giugliano centro.
Ad un tratto compare l’uomo che vaga sulla corsia di soprasso contro le auto che sfrecciano. Lampeggianti accesi e segnalazione sul tetto dell’auto con l’avvertimento di rallentare e i carabinieri scendono dalla gazzella. Pochi secondi e l’uomo – visibilmente disorientato – viene messo in auto tra il vento, la pioggia e le auto. L’uomo, un 80enne del posto, è stato affidato ai medici del 118 e fortunatamente sta bene. I carabinieri successivamente constateranno che l’anziano si era allontanato poco prima da una casa albergo per anziani.
Una scossa di terremoto che ha avuto magnitudo 4.1, ipocentro a 10 chilometri di profondità ed epicentro a 5 chilometri dai comuni di Socchieve (Udine) e di Tramonti di Sopra (Pordenone) è stata registrata alle 22.19. Il terremoto è stato avvertito chiaramente in tutta la regione, da Pordenone a Udine, a Trieste. Secondo l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia la scossa avrebbe avuto l’epicentro a Socchieve (Udine), piccolo comune della Carnia, a una profondità di dieci chilometri. La spallata è stata avvertita nettamente – anche in Veneto, in Trentino Alto Adige e nelle confinanti Austria e Slovenia – e i centralini dei vigili del fuoco hanno ricevuto decine e decine di telefonate. Al momento non si registrano danni a persone o cose.
“Abbiamo sentito un botto tremendo e abbiamo avuto tanta paura”, poi “è mancata la luce per alcuni minuti”. Lo ha detto a Rainews24 Coriglio Zannier, sindaco di Socchieve, il comune più vicino all’epicentro della scossa di terremoto di magnitudo 4.5 avvertita questa sera in Friuli-Venezia Giulia. Come danni, ha detto il sindaco, si registra “qualche caduta di tegole”, ma ora “stiamo tornando alla normalità”.
La vita di un uomo qualunque. L’acquisto di un’auto, la fila in banca per ritirare un assegno, le polizze assicurative e i bolli meticolosamente pagati. E poi gli esami medici, il ricovero e l’intervento chirurgico ottenuti in tempi record (questo forse non proprio come un comune cittadino). Man mano che emergono nuovi particolari sulla latitanza trentennale di Matteo Messina Denaroil quadro si fa più inquietante e si confermano i primi sospetti: il boss più ricercato del Paese conduceva una esistenza ordinaria grazie a una fitta rete di complici.
Oggi i carabinieri del Ros, coordinati dalla Procura di Palermo, ne hanno arrestati altri tre: l’architetto Massimo Gentile, siciliano da anni residente a Limbiate, in provincia di Monza, dove si occupa di appalti per conto del Comune e dove ha gestito decine di opere finanziate dal Pnrr; suo cognato Cosimo Leone, tecnico radiologo all’ospedale di Mazara del Vallo e Leonardo Gulotta. Salgono dunque a 14 i fiancheggiatori del capomafia finiti in cella dal 16 gennaio scorso, quando un blitz dei Carabinieri mise fine alla sua latitanza.
Da allora i militari con un paziente lavoro hanno tentato di ricostruire la vita alla macchia del boss. E stavolta hanno scoperto che a novembre del 2014 Messina Denaro andò personalmente da un concessionario auto di Palermo per acquistare una Fiat 500 e poi in banca a ritirare l’assegno da consegnare al rivenditore. Il boss usò una falsa carta di identità intestata all’architetto Massimo Gentile e indicò come numero telefonico di riferimento per eventuali comunicazioni quello di Leonardo Gulotta. L’input all’ultima indagine deriva da un appunto trovato in casa del boss.
La caccia al veicolo ha portato i carabinieri alla concessionaria dove è stata trovata la pratica dell’acquisto della macchina con i documenti consegnati dall’acquirente, tra i quali la fotocopia della carta d’identità su cui era stata incollata la foto di Messina Denaro. Il documento, che portava la firma dal padrino, conteneva alcuni dati corrispondenti a quelli di Gentile e altri falsi: come l’indirizzo di residenza indicato in “via Bono”. Per l’acquisito il capomafia ha versato mille euro in contanti e 9.000 attraverso un assegno circolare emesso dalla filiale di Palermo dell’Unicredit di corso Calatafimi.
Allo sportello, per ottenere l’assegno, ha esibito il falso documento, versato euro 9.000 cash e dichiarato che il Denaro era frutto della propria attività di commerciante di vestiti. Come recapito telefonico per le comunicazioni ancora una volta il boss ha lasciato il cellulare di Gulotta. L’auto è stata assicurata a nome di Gentile e in almeno un anno le polizze, come hanno mostrato le comparazioni grafiche, hanno portato la firma di Messina Denaro. Dalle indagini è emerso anche che nel 2007 l’architetto ha acquistato per conto del mafioso una moto Bmw che sarà poi lo stesso Gentile a portare alla demolizione in una officina a cui si fa riferimento in un pizzino nascosto in una sedia, trovato a casa della sorella di Messina Denaro, Rosalia.
I bolli di moto e auto nel 2016 sono stati pagati l’uno a 40 secondi dall’altro in una tabaccheria di Campobello di Mazara dove, sette anni dopo, pochi giorni prima dell’arresto, il capomafia era andato a fare acquisti, come dimostra uno scontrino ritrovato dal Ros. Poi c’è il fronte sanitario, tutto ancora da scandagliare. Al momento è emerso che il latitante ha potuto godere di aiuti importanti come quello ricevuto da Cosimo Leone, che si sarebbe occupato di far fare una Tac urgente al capomafia (Tac, come risulta da documenti sanitari, anticipata più volte).
Secondo gli investigatori, inoltre, Leone avrebbe costantemente informato dello stato del paziente un altro fiancheggiatore, Andrea Bonafede, cugino e omonimo del geometra che ha prestato al boss l’identità per farsi curare. Sono decine i contatti telefonici tra i due nei giorni in cui il capomafia si trovava all’ospedale di Mazara scoperti dai carabinieri. E dalle analisi dei tabulati risulta evidente che Bonafede fece avere al boss un cellulare mentre questi era ricoverato.