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Economia

L’Italia entra nel club del nucleare, sì all’alleanza Ue

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Da osservatore a membro effettivo e operativo. In poco più di due anni l’Italia ha superato il tabù sul ruolo del nucleare nella decarbonizzazione ed è entrata a pieno titolo nell’alleanza Ue guidata dalla Francia, che dal 2023 promuove a Bruxelles gli interessi dei Paesi pro-atomo nel continente. La scelta è arrivata dopo la decisione del governo “di presentare il disegno di legge per il ritorno alla produzione di energia nucleare”, ha sottolineato il ministro Gilberto Pichetto, suggellando il rinato interesse del Paese per la fonte prodotta da reattori di nuova generazione nell’intento di promuovere “con convinzione il principio della neutralità tecnologica” e seguire “una transizione energetica sostenibile che garantisca la resilienza del sistema energetico e favorisca imprese e famiglie”.

Una strategia è in piena sintonia con il piano Ue per la sicurezza energetica, lanciato per ridurre l’uso di combustibili fossili, puntare su fonti alternative e voltare pagina rispetto alla dipendenza energetica dalla Russia. L’Italia si è unita al fronte sempre più nutrito e ormai consolidato di cui fanno parte, oltre a Parigi, anche Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia ed Estonia (quest’ultima come osservatore). E a cui, timidamente, si è affacciata – sempre nel ruolo di osservatore – anche la ministra tedesca Katherina Reiche, confermando un cambio di passo di Berlino sulle politiche energetiche e, in particolare, sul nucleare destinato a cambiare le carte in tavola. Per spingerlo, nelle stime di Bruxelles, saranno necessari investimenti pari a 241 miliardi di euro entro il 2050, destinati sia alla costruzione di nuovi reattori sia al prolungamento della vita degli impianti esistenti.

A dominare l’agenda dei ministri dell’Energia riuniti a Lussemburgo è stata la sicurezza energetica nel suo insieme. Con il nodo politico più complicato da sciogliere: lo stop agli ultimi legami con Mosca. Nelle prossime ore è attesa la proposta legislativa della Commissione europea per vietare tutti i contratti di fornitura di gas russo entro la fine del 2027, ma l’unanimità per dare impulso all’azione dell’esecutivo di Ursula von der Leyen è mancata anche questa volta. Ungheria e Slovacchia si sono infatti sfilate dalle conclusioni finali del Consiglio, costringendo la Polonia – presidente di turno Ue – a contare solo sul sostegno degli altri 25 Paesi membri. Ma i veti non rallentano l’azione del commissario Ue Dan Jorgensen. In linea con la tabella di marcia presentata a maggio, Palazzo Berlaymont dovrebbe introdurre lo stop immediato a nuovi contratti con Mosca, mentre quelli a breve termine già in vigore dovranno essere interrotti a partire dal 2026 e quelli a lungo termine entro fine 2027.

L’esecutivo Ue è tornato ad assicurare che le imprese non incapperanno in conseguenze legali, potendo invocare la clausola di ‘forza maggiore’, come già avviene per le sanzioni. Per aggirare l’opposizione di Budapest e Bratislava, Bruxelles farà ricorso al diritto commerciale, che consente di adottare le misure a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. Un escamotage che si accompagna all’offerta ai due Paesi di una deroga temporanea, consentendo loro l’importazione di gas russo fino alla fine del 2026. Servirà invece più tempo per la stretta Ue sul nucleare russo. “Dobbiamo essere certi di non mettere i Paesi in una situazione in cui venga meno la sicurezza dell’approvvigionamento”, ha sottolineato Jorgensen.

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Economia

Unicredit contro il governo: uso illegittimo del golden power sull’Ops Banco Bpm

Unicredit attacca il governo per l’uso del golden power sull’offerta pubblica di scambio per Banco Bpm. Attesa una risposta da Roma e dalla Commissione Ue.

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Il giorno dopo la decisione del Tar del Lazio che ha parzialmente accolto il ricorso di Unicredit, la banca guidata da Andrea Orcel (nella foto Imagoeconomica in evidenza) alza i toni contro il governo. Al centro dello scontro c’è l’uso del golden power sull’offerta pubblica di scambio (Ops) lanciata da Unicredit per acquisire Banco Bpm. Secondo l’istituto di piazza Gae Aulenti, il governo avrebbe esercitato un “uso illegittimo” dello strumento e promosso “comunicazioni e campagne ingiustificatamente aggressive e spesso fuorvianti”.

Le accuse di Unicredit

L’istituto contesta il clima creatosi intorno all’operazione, che avrebbe danneggiato gli azionisti di Banco Bpm e ostacolato un confronto ordinato. Unicredit precisa che, in condizioni normali, l’offerta avrebbe potuto essere migliorata, anche se non si fa riferimento diretto a un rialzo del prezzo, quanto piuttosto a parametri tecnici come i concambi. Si attende ora la reazione del governo, che potrebbe modificare il Dpcm oggetto della sentenza del Tar.

Le mosse attese

Il Consiglio di amministrazione di Unicredit non è ancora stato convocato, ma si ipotizza una riunione nei prossimi giorni, anche alla luce della lettera attesa dalla Commissione Ue. Anche la Consob è in attesa della missiva europea per poter avere un quadro più chiaro della situazione e definire l’eventuale proseguimento dell’operazione.

Secondo osservatori di mercato, la decisione del Tar consente comunque a Unicredit di procedere con l’offerta, dal momento che sono stati annullati i due punti più critici sul piano della sostenibilità economica dell’operazione.

Il nodo Russia e il ruolo della Bce

Unicredit ha colto l’occasione anche per chiarire la propria posizione sul nodo della controllata in Russia, altro tema sensibile agli occhi del governo. La banca precisa che la competenza in materia è della Bce e che già sta ottemperando alle richieste dell’autorità bancaria europea. Il disimpegno dalla Russia, evidenzia l’istituto, non è semplice, in quanto vincolato a decisioni unilaterali della presidenza russa.

Conclusione amara

Il comunicato di Unicredit si chiude con parole pesanti: “Gli azionisti di Banco Bpm sono stati esposti non solo all’uso illegittimo del golden power, ma anche a comunicazioni fuorvianti che hanno screditato offerta e offerente”. Una dura stoccata all’esecutivo, mentre il mercato e le autorità attendono ora le prossime mosse per capire se l’Ops potrà andare avanti oppure sarà bloccata da nuovi ostacoli istituzionali.

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Economia

Dai controdazi al ‘bazooka’, l’arsenale europeo

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La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen parla di un “doppio binario” sui dazi, tra la diplomazia delle trattative e l’esibizione muscolare delle possibili contromisure. Tra dazi, contro-dazi, pacchetti pronti e sospesi e pacchetti in preparazione, la guerra commerciale appare un intricato labirinto. E, per stare al linguaggio bellico, include anche un ‘bazooka’ che potrebbe colpire le Big Tech Usa, e l’ ‘arma nucleare’ o ‘bomba atomica’ dello strumento anti-coercizione, chiesto dal presidente francese Emmanuel Macron.

* CONTRODAZI DA 21 MILIARDI CONTRO I DAZI SULL’ACCIAIO. Le prime risposte Ue ai dazi mirati di Trump valgono poco meno di 21 miliardi di euro. Tutto è cominciato lo scorso 12 marzo, quando l’amministrazione Usa ha reintrodotto dazi del 25% sia sull’acciaio che sull’alluminio europeo. In risposta, l’Ue ha approvato un pacchetto articolato in tre fasi, pensato per colpire simboli e settori politicamente sensibili per Washington: un primo scaglione da 3,9 miliardi prende di mira prodotti iconici come le moto Harley-Davidson, i jeans Levi’s, il burro d’arachidi, il tabacco e una selezione di articoli per la cura della persona. Si aggiungono dazi su acciaio, elettrodomestici e tech leggero. Una seconda e una terza tranche (da 13,5 e 3,5 miliardi) si spingono più a fondo: colpiscono carni e pollame dal Midwest, legname del Sud, cereali, fast-food, moda, cosmetici, e perfino la soia della Louisiana. Il pacchetto è congelato fino alla mezzanotte del 14 luglio, ma von der Leyen ha già chiarito che lo stop sarà prorogato.

* I CONTRODAZI DA 72 MILIARDI CONTRO I DAZI ‘UNIVERSALI’. Un secondo pacchetto Ue da 72 miliardi di euro è la risposta ai dazi “universali” del 10% annunciati dalla Casa Bianca tra il 5 e il 9 aprile. Le contromisure, inizialmente valutate in 95 miliardi di euro e poi limate, riguardano un mix di beni industriali, prodotti agroalimentari di alta gamma, dal bourbon del Kentucky alle aragoste del Maine, passando per agrumi, cosmetici e moda. La lista è in fase avanzata di approvazione da parte degli Stati Ue.

* IL BAZOOKA SULLE BIG TECH. Vero e proprio spauracchio per la Corporate America è l’ipotesi che l’Ue vada a colpire i servizi digitali, dove le Big Tech Usa la fanno da padrone. Di volta in volta si parla di accise digitali su pubblicità o intermediazioni, di una digital service tax comunitaria (esiste già in diversi Paesi). Le grandi piattaforme online americane però temono soprattutto che Bruxelles applichi fino alle estreme conseguenze le recenti riforme del Digital Service Act e Digital Markets Act: impongono obblighi su trasparenza, concorrenza e moderazione dei contenuti e, in caso di violazioni, fioccano multe fino al 10% del fatturato globale annuo o l’esclusione dal mercato europeo.

* IL MECCANISMO ANTI-COERCIZIONE. C’è poi l’arma estrema, il Meccanismo anti-coercizione (Aci), invocato da Parigi come lo scudo definitivo dell’Unione. Nato sull’onda delle ritorsioni cinesi contro la Lituania per le sue relazioni con Taiwan, consente all’Ue di reagire a pressioni economiche esterne con misure rapide e proporzionate: dazi, restrizioni su investimenti e servizi, esclusione da appalti pubblici, perfino la revoca di diritti di proprietà intellettuale. Serve a difendere l’autonomia strategica europea ed è già operativo dal 2023.

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Meccanica, alimentare, ottica: timore dazi da Nord a Sud

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Vino, mozzarella, grana padano, denominazioni dop e igp. Il settore agroalimentare teme l’impatto dei dazi di Trump come una condanna. Ma a soffrire dello scoppio della guerra commerciale tra Usa e Ue sarebbero anche meccanica, componentistica auto, farmaceutica, occhialeria. Tantissimi settori al top della produzione Made in Italy che chiedono a una sola voce di trattare con l’amministrazione Trump con autorevolezza e in modo compatto a livello europeo. Da Nord a Sud l’effetto dei dazi al 30% non risparmierebbe nessuno, grandi e piccole imprese. Si parte dalla meccanica delle Regioni settentrionali con un tessuto di pmi che per crescere guarda da sempre all’estero.

“Gli Stati Uniti – spiega il presidente della Cna Dario Costantini – rappresentano il secondo mercato di riferimento per il sistema delle imprese italiane, con una quota del 10,4% dell’export, alla pari con la Germania. Ma se ci concentriamo sul mondo che Cna rappresenta, quello delle piccole e medie imprese, la quota sale al 14%, e in Piemonte addirittura oltre: basti pensare al peso di materiali e macchinari destinati al settore automotive americano. Se si smonta una macchina tedesca, dentro c’è tanto Piemonte”. Guardando al Nord est è il settore dell’ottica a dichiarare grande preoccupazione.

“Il nostro territorio è fortemente esposto – evidenzia Lorraine Berton, Presidente di Confindustria Belluno Dolomiti e di Anfao (Occhialeria) -. I dazi rappresenterebbero un colpo duro per tutto il sistema produttivo bellunese, non solo per l’occhialeria ma anche per l’intera filiera industriale che guarda con determinazione ai mercati esteri. Le imprese chiedono chiarezza, regole e fiducia: non possono operare in un clima di incertezza e instabilità”.

Al Sud spiccano i timori dell’agroalimentare, ma non solo. Le Regioni meriodionali sono la patria anche di siti di farmaceutica, elettronica e auto. Il tessuto industriale, meno radicato rispetto al Nord, richia proprio per questo di essere penalizzato in misura ancora maggiore, a danno di alcune eccellenze che dinamizzano e rendono internazionale l’intersa economia dell’area. Sicuramente sarebbero colpiti olio, formaggi, vino. La Cia vede in pericolo tutta l’Italia: Chianti, Amarone, Barbera, Friulano, Ribolla, Prosecco. Ma c’è anche il pecorino romano prodotto in Sardegna.

“Gli Stati Uniti – sottolinea l’associazione Origin Italia – rappresentano il principale mercato extra-Ue per le produzioni Dop e Igp italiane, assorbendo circa il 25% dell’export totale del comparto certificato”. In valore assoluto, si tratta di quasi 3 miliardi di euro, su un totale di oltre 12 miliardi di esportazioni mondiali del settore nel 2024. L’allarme è generalizzato e Confesercenti teme anche un impatto sul mercato interno. Il rallentamento della crescita e i possibili effetti sull’occupazione rischiano infatti, secondo l’associazione, di riflettersi negativamente pure sui consumi, con una riduzione della spesa delle famiglie di 11,9 miliardi di euro in due anni.

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