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L’Iran prepara la risposta a Israele, ordine di Khamenei

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L’Iran torna ad alzare i toni e promette una risposta “brutale” agli attacchi israeliani della scorsa settimana. L’ayatollah Ali Khamenei ha già dato ordine, lunedì scorso, al Consiglio per la sicurezza nazionale iraniano di prepararsi ad attaccare lo Stato ebraico, secondo quanto riporta il New York Times citando fonti iraniane. La Guida suprema avrebbe preso la decisione di non lasciare senza conseguenze lo smacco subito il 26 ottobre dopo aver esaminato un rapporto militare dettagliato sui danni causati dall’attacco israeliano alla produzione missilistica e alle infrastrutture energetiche del Paese: la portata dei raid è stata troppo grande per essere ignorata e non rispondere significherebbe ammettere la sconfitta. “Israele dovrà pentirsene”, ha detto Mohammad Mohammadi Golpayegani, capo dell’ufficio di Khamenei.

Secondo l’intelligence israeliana, citata da Axios, l’attacco di Teheran dovrebbe partire questa volta dal territorio iracheno con un gran numero di droni e missili balistici e – come già riferito da fonte iraniana alla Cnn – probabilmente prima delle elezioni americane del 5 novembre. Tuttavia, aggiunge un funzionario statunitense, gli Stati Uniti non sanno se la decisione sia stata effettivamente presa.

“Israele oggi ha più libertà d’azione che mai in Iran, e può raggiungere qualsiasi posto in Iran se necessario”, ha giurato dal canto suo il premier israeliano Benyamin Netanyahu, sottolineando che “l’obiettivo supremo è impedire all’Iran di ottenere un’arma nucleare”. Intanto sugli altri fronti aperti, cresce una flebile speranza di raggiungere una tregua in Libano, ma è Hamas a dare l’ennesima spallata alle prospettive di un cessate il fuoco a Gaza: “L’idea di una pausa temporanea solo per riprendere l’aggressione in seguito è qualcosa su cui abbiamo già espresso la nostra posizione. Hamas sostiene una fine permanente della guerra, non una temporanea”, ha detto all’Afp Taher al-Nunu, leader senior del movimento, bocciando il lavoro dei mediatori per una sospensione breve dei combattimenti ed evidenziando ancora una volta uno stallo nei negoziati che invece sembrano fare timidi passi avanti sul fronte nord, tema affrontato in un incontro tra inviati Usa e Netanyahu a Gerusalemme.

Un incontro definito “costruttivo” da un funzionario americano al Times of Israel, mentre il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha confermato che i negoziatori hanno fatto “buoni progressi” verso un’intesa con Hezbollah. Nell’incontro tra gli inviati di Washington Amos Hochstein e Brett McGurk, Netanyahu ha sottolineato in ogni caso che qualsiasi intesa dovrà garantire la sicurezza di Israele. “Il primo ministro ha precisato che la questione principale non sono le pratiche per questo o quell’accordo, ma la determinazione e la capacità di Israele di garantire l’applicazione dell’accordo e di prevenire qualsiasi minaccia alla sua sicurezza da parte del Libano”, ha dichiarato l’ufficio del premier dopo la riunione a Gerusalemme. Secondo i media israeliani che citano fonti governative, il piano dei mediatori statunitensi prevede il ritiro degli Hezbollah dal Libano meridionale a nord del fiume Litani, a oltre 30 km dal confine, e il ritiro dell’esercito israeliano dalla stessa regione, il cui controllo tornerebbe all’esercito libanese e alle forze di pace dell’Onu.

In questo quadro, lo Stato ebraico vuole garanzie di conservare la propria libertà d’azione in caso di minacce. Funzionari israeliani hanno infatti sottolineato che i soldati impegnati nell’offensiva di terra nel sud del Libano non si ritireranno fino a quando non sarà raggiunto un accordo che soddisfi i requisiti di sicurezza di Israele, consentendo il ritorno di circa 60.000 residenti del nord sfollato a causa dei continui attacchi di Hezbollah. Nell’ultima giornata, i razzi del movimento sciita hanno ucciso cinque persone – un contadino israeliano e quattro braccianti thailandesi – nelle campagne di Metula. In un altro attacco, due persone sono state uccise dalle schegge di un razzo cadute in un uliveto nei pressi di Kiryat Ata, fuori da Haifa. E’ il bilancio più sanguinoso per Israele dall’inizio dell’offensiva in Libano. Nel frattempo, i raid di Israele sono proseguiti provocando decine di morti nell’est e nel sud del Libano, dove una base delle truppe irlandesi dell’Unifil ha subito “danni minori” per la caduta di un razzo lanciato da Hezbollah senza provocare feriti. Attacchi israeliani hanno preso di mira anche la Siria, dove la ong Osservatorio nazionale per i diritti umani ha denunciato cinque civili uccisi nei bombardamenti sulla città e la campagna di Al-Qusayr, nel governatorato di Homs.

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Putin non vede Assad e tratta per salvare le basi

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La bandiera del deposto regime è stata sostituita da quella degli ex oppositori anche sull’ambasciata siriana a Mosca, e la sede diplomatica ha detto di essere ora in attesa di “istruzioni” da parte del nuovo governo. Non ci poteva essere segnale più chiaro di come il vento sia cambiato ma anche dell’incertezza che regna sul futuro, mentre il Cremlino cammina sul filo del rasoio cercando di non voltare completamente le spalle all’ex presidente ma anche di salvare il salvabile, a partire dalle sue basi sul Mediterraneo. E’ stato Vladimir Putin a prendere personalmente la decisione di concedere asilo “per motivi umanitari” ad Assad e alla sua famiglia, ha detto il portavoce Dmitry Peskov.

Una decisione fatta filtrare nella serata di domenica da “una fonte” all’agenzia Tass. Nessun annuncio ufficiale, insomma, e nessun incontro previsto, almeno pubblico, tra Putin e il suo ex protetto. “Non c’è alcun colloquio del genere nell’agenda ufficiale del presidente”, ha sottolineato Peskov, rifiutando anche di precisare quando sia stato l’ultimo incontro tra i due, anche se i media siriani avevano parlato di una visita segreta di Assad a Mosca alla fine di novembre. Il copione rispecchia la necessità della leadership russa di cercare di creare o mantenere contatti con i nuovi padroni a Damasco, con l’obiettivo primario di salvare la base navale di Tartus – l’unica di Mosca sul Mediterraneo – e quella aerea di Hmeimim, nella vicina Latakia. “E’ troppo presto per parlarne, in ogni caso questo sarà argomento di discussione con coloro che saranno al potere in Siria”, ha osservato il portavoce.

Ma per capire chi saranno costoro anche Mosca dovrà aspettare la formazione del governo, soppesare il ruolo e l’importanza delle varie figure e le influenze esercitate da potenze regionali e mondiali. Per questo, ha affermato Peskov, mentre la Siria si avvia ad attraversare “un periodo molto difficile a causa dell’instabilità”, è “molto importante mantenere il dialogo con tutti i Paesi della regione”. Compresa la Turchia, il principale sostenitore dei ribelli e jihadisti che hanno rovesciato Assad. La Russia cerca dunque di riprendersi dallo shock per lo smacco subito. “Quello che è successo probabilmente ha sorpreso il mondo intero, e noi non facciamo eccezione”, ha ammesso Peskov.

Mentre il segretario generale della Nato, Mark Rutte, non ha resistito alla tentazione di punzecchiare Mosca, insieme con Teheran, accusandole di essersi dimostrate “partner inaffidabili” di Assad. I media e i blogger militari russi si sono mostrati quasi altrettanto impietosi nell’analisi di quanto successo, e dei costi che Mosca potrebbe essere chiamata a pagare. Emblematico il titolo dell’autorevole giornale del mondo imprenditoriale Kommersant: ‘La Russia ha perso il principale alleato in Medio Oriente’. Mentre il canale Telegram Rybar, che vanta legami con il ministero della Difesa, mette in guardia dalle conseguenze di una possibile perdita delle due basi. Sia quella di Tartus sia quella di Hmeimim “hanno svolto un ruolo logistico importante per le operazioni della Russia in Libia e nel Sahel”, sottolinea il blog. Un rimedio efficace potrebbe essere l’apertura di una nuova base a Port Sudan, sul Mar Rosso. “Ma la guerra civile in Sudan non è ancora finita, il che complica i negoziati in corso”, valuta Rybar. Mentre un porto sulla costa libica della Cirenaica, di cui si parla da tempo, sarebbe troppo lontano per garantire i rifornimenti regolari con aerei da trasporto a pieno carico.

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Tv, Jolani sceglie premier di Hts per governo transitorio

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Sarà Muhammad Bashir, e non l’esiliato ex premier siriano Riad Hijab o l’attuale primo ministro Muhammad Jalali, il capo del governo di transizione a Damasco. Lo riferisce la tv al Jazira nella capitale siriana secondo cui Muhammad Bashir è il premier del “governo di salvezza”, che da anni amministra nel nord-ovest siriano le aree sotto controllo di Hayat Tahrir ash Sham (Hts), guidata da Abu Muhammad Jolani (Ahmad Sharaa). La scelta di Muhammad Bashir sarebbe stata imposta, afferma la tv, dallo stesso Jolani.

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Siria, Russia: prematuro parlare mantenimento presenza militare

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È prematuro parlare del mantenimento della presenza militare russa in Siria, sarà un argomento da discutere con le autorità. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov (foto Imagoeconomica in evidenza). “È prematuro parlare di questo. In ogni caso, è un argomento da discutere con coloro che saranno al potere in Siria”, ha dichiarato Peskov ai giornalisti, aggiungendo che il governo siriano sta attraversando un periodo di trasformazione ed è ancora instabile. L’esercito russo in Siria sta facendo tutto il necessario per garantire la sicurezza delle basi militari, ha dichiarato il funzionario, aggiungendo che la sicurezza di queste basi è una questione molto importante.

Le autorità russe stanno facendo tutto il necessario per entrare in contatto in Siria con quanti possono garantire la sicurezza delle basi militari, ha aggiunto. Ieri i gruppi armati dell’opposizione siriana hanno conquistato la capitale Damasco. Il primo ministro siriano Mohammad Ghazi al-Jalali ha dichiarato che lui e altri 18 ministri hanno deciso di restare nella capitale. Al-Jalali ha inoltre dichiarato di essere in contatto con i leader dei gruppi militanti entrati in città. Il ministero degli Esteri russo ha dichiarato che Bashar al-Assad si è dimesso da presidente e ha lasciato la Siria dopo i negoziati con alcuni partecipanti al conflitto siriano.

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