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L’Iran minaccia Israele: reagiremo al momento giusto

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Il rischio di una guerra regionale in Medio Oriente non è ancora superato. La risposta israeliana di una settimana fa all’attacco missilistico iraniano non ha riportato alcun equilibrio tra i due storici nemici. Al contrario, Teheran continua a minacciare una nuova rappresaglia, già approvata dall’ayatollah Ali Khamenei che ha dato l’ordine alle forze iraniane di “prepararsi” ad attaccare Israele. E lo Stato ebraico, in via precauzionale, ha già innalzato l’allerta.

Colpiremo “al momento giusto e nel modo giusto”, ha assicurato il consigliere della Guida Suprema, Kamal Kharraz, alla tv libanese filoiraniana Al Mayadeen, avvertendo che la Repubblica islamica ha ormai acquisito “la capacità di realizzare un’arma nucleare” e che solo “una fatwa” di Khamenei vieta per ora di farlo. Tuttavia, ha ammonito ancora Kharraz, se il Paese dovesse trovarsi di fronte a una minaccia esistenziale la dottrina nucleare seguita finora potrebbe cambiare. Diverse fonti, sia israeliane che iraniane, concordano che la risposta iraniana potrebbe avvenire prima del 5 novembre, data delle elezioni americane.

Il capo del Pentagono Lloyd Austin (nella foto in evidenza) ha assicurato al ministro della Difesa Yoav Gallant che gli Stati Uniti sono pronti a difendere Israele e i partner nella regione in caso di un attacco iraniano che, secondo Axios, stavolta potrebbe partire dal territorio iracheno. E sembra sfumata anche l’ipotesi di arrivare in tempi brevi ad un cessate il fuoco in Libano tra Israele e Hezbollah. I caccia dell’Idf hanno continuato a bombardare il sud di Beirut e il resto del Paese, provocando solo nelle ultime ore oltre 30 morti nella valle della Bekaa e altri 4 nella città costiera di Tiro. “L’espansione della portata dei raid israeliani sul Paese confermano il rifiuto del nemico di tutti gli sforzi per arrivare a un cessate il fuoco”, ha deplorato il premier libanese Najib Mikati, al quale – secondo fonti di alto livello alla Reuters – gli Stati Uniti avrebbero chiesto di dichiarare un cessate il fuoco unilaterale.

L’ufficio del primo ministro ha smentito questa ricostruzione che comunque avrebbe ricevuto una risposta negativa. Ancora più drastico è stato Nabih Berri, il potente presidente del parlamento libanese, vicino a Hezbollah, che ha decretato “fallita” l’iniziativa americana per una tregua, perché – è la sua spiegazione – Benyamin Netanyahu ha bocciato la road map che era stata concordata tra Beirut e l’inviato Usa Amos Hochstein. L’uomo di Joe Biden ha incontrato il premier israeliano appena due giorni fa a Gerusalemme, poi è ripartito per gli Stati Uniti. Un incontro “costruttivo” lo aveva definito una fonte americana ma, ha sottolineato Berri, “Hochstein non ci ha comunicato nulla dopo che è partito da Israele” mentre “aveva promesso” di farlo nel caso avesse intravisto elementi positivi. A oggi appare ancora lontano – ben al di là della scadenza politica che Washington si era fissata in vista del voto – anche un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, con simili rimpalli di responsabilità tra Israele e Hamas.

La fazione islamica ha ribadito la sua contrarietà a discutere di una “tregua breve” in cambio del rilascio di alcuni ostaggi finché non saranno sul tavolo “le esigenze dei palestinesi”: e cioè il cessate il fuoco “totale e permanente”, il ritiro dell’esercito da Gaza, il ritorno degli sfollati alle loro case e la fine dell’assedio della Striscia con l’apertura dei valichi. Nel frattempo però la guerra non si ferma. Gli attacchi israeliani notturni sulla Striscia hanno causato almeno 47 morti, per la maggior parte bambini e donne, ha riferito l’agenzia palestinese Wafa. Dieci persone sono state uccise da un raid nel campo profughi di Nuseirat. La situazione nel nord di Gaza “è apocalittica”, hanno denunciato le agenzia umanitarie dell’Onu. L’insieme dei suoi abitanti corre il “rischio imminente di morire di malattia, fame e violenza”.

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Putin non vede Assad e tratta per salvare le basi

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La bandiera del deposto regime è stata sostituita da quella degli ex oppositori anche sull’ambasciata siriana a Mosca, e la sede diplomatica ha detto di essere ora in attesa di “istruzioni” da parte del nuovo governo. Non ci poteva essere segnale più chiaro di come il vento sia cambiato ma anche dell’incertezza che regna sul futuro, mentre il Cremlino cammina sul filo del rasoio cercando di non voltare completamente le spalle all’ex presidente ma anche di salvare il salvabile, a partire dalle sue basi sul Mediterraneo. E’ stato Vladimir Putin a prendere personalmente la decisione di concedere asilo “per motivi umanitari” ad Assad e alla sua famiglia, ha detto il portavoce Dmitry Peskov.

Una decisione fatta filtrare nella serata di domenica da “una fonte” all’agenzia Tass. Nessun annuncio ufficiale, insomma, e nessun incontro previsto, almeno pubblico, tra Putin e il suo ex protetto. “Non c’è alcun colloquio del genere nell’agenda ufficiale del presidente”, ha sottolineato Peskov, rifiutando anche di precisare quando sia stato l’ultimo incontro tra i due, anche se i media siriani avevano parlato di una visita segreta di Assad a Mosca alla fine di novembre. Il copione rispecchia la necessità della leadership russa di cercare di creare o mantenere contatti con i nuovi padroni a Damasco, con l’obiettivo primario di salvare la base navale di Tartus – l’unica di Mosca sul Mediterraneo – e quella aerea di Hmeimim, nella vicina Latakia. “E’ troppo presto per parlarne, in ogni caso questo sarà argomento di discussione con coloro che saranno al potere in Siria”, ha osservato il portavoce.

Ma per capire chi saranno costoro anche Mosca dovrà aspettare la formazione del governo, soppesare il ruolo e l’importanza delle varie figure e le influenze esercitate da potenze regionali e mondiali. Per questo, ha affermato Peskov, mentre la Siria si avvia ad attraversare “un periodo molto difficile a causa dell’instabilità”, è “molto importante mantenere il dialogo con tutti i Paesi della regione”. Compresa la Turchia, il principale sostenitore dei ribelli e jihadisti che hanno rovesciato Assad. La Russia cerca dunque di riprendersi dallo shock per lo smacco subito. “Quello che è successo probabilmente ha sorpreso il mondo intero, e noi non facciamo eccezione”, ha ammesso Peskov.

Mentre il segretario generale della Nato, Mark Rutte, non ha resistito alla tentazione di punzecchiare Mosca, insieme con Teheran, accusandole di essersi dimostrate “partner inaffidabili” di Assad. I media e i blogger militari russi si sono mostrati quasi altrettanto impietosi nell’analisi di quanto successo, e dei costi che Mosca potrebbe essere chiamata a pagare. Emblematico il titolo dell’autorevole giornale del mondo imprenditoriale Kommersant: ‘La Russia ha perso il principale alleato in Medio Oriente’. Mentre il canale Telegram Rybar, che vanta legami con il ministero della Difesa, mette in guardia dalle conseguenze di una possibile perdita delle due basi. Sia quella di Tartus sia quella di Hmeimim “hanno svolto un ruolo logistico importante per le operazioni della Russia in Libia e nel Sahel”, sottolinea il blog. Un rimedio efficace potrebbe essere l’apertura di una nuova base a Port Sudan, sul Mar Rosso. “Ma la guerra civile in Sudan non è ancora finita, il che complica i negoziati in corso”, valuta Rybar. Mentre un porto sulla costa libica della Cirenaica, di cui si parla da tempo, sarebbe troppo lontano per garantire i rifornimenti regolari con aerei da trasporto a pieno carico.

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Tv, Jolani sceglie premier di Hts per governo transitorio

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Sarà Muhammad Bashir, e non l’esiliato ex premier siriano Riad Hijab o l’attuale primo ministro Muhammad Jalali, il capo del governo di transizione a Damasco. Lo riferisce la tv al Jazira nella capitale siriana secondo cui Muhammad Bashir è il premier del “governo di salvezza”, che da anni amministra nel nord-ovest siriano le aree sotto controllo di Hayat Tahrir ash Sham (Hts), guidata da Abu Muhammad Jolani (Ahmad Sharaa). La scelta di Muhammad Bashir sarebbe stata imposta, afferma la tv, dallo stesso Jolani.

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Siria, Russia: prematuro parlare mantenimento presenza militare

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È prematuro parlare del mantenimento della presenza militare russa in Siria, sarà un argomento da discutere con le autorità. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov (foto Imagoeconomica in evidenza). “È prematuro parlare di questo. In ogni caso, è un argomento da discutere con coloro che saranno al potere in Siria”, ha dichiarato Peskov ai giornalisti, aggiungendo che il governo siriano sta attraversando un periodo di trasformazione ed è ancora instabile. L’esercito russo in Siria sta facendo tutto il necessario per garantire la sicurezza delle basi militari, ha dichiarato il funzionario, aggiungendo che la sicurezza di queste basi è una questione molto importante.

Le autorità russe stanno facendo tutto il necessario per entrare in contatto in Siria con quanti possono garantire la sicurezza delle basi militari, ha aggiunto. Ieri i gruppi armati dell’opposizione siriana hanno conquistato la capitale Damasco. Il primo ministro siriano Mohammad Ghazi al-Jalali ha dichiarato che lui e altri 18 ministri hanno deciso di restare nella capitale. Al-Jalali ha inoltre dichiarato di essere in contatto con i leader dei gruppi militanti entrati in città. Il ministero degli Esteri russo ha dichiarato che Bashar al-Assad si è dimesso da presidente e ha lasciato la Siria dopo i negoziati con alcuni partecipanti al conflitto siriano.

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