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Cronache

L’incidente che uccise il poliziotto Aniello Scarpati: la testimonianza choc della minorenne svela un inseguimento folle

Emergono nuovi dettagli sull’incidente costato la vita al poliziotto Aniello Scarpati. Una minorenne racconta di un inseguimento a folle velocità iniziato dopo una lite all’uscita di una festa di Halloween.

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Ha avuto la forza di restare lucida anche nei minuti più drammatici della sua vita. È la minorenne testimone chiave dell’incidente che ha provocato la morte del poliziotto Aniello Scarpati, capo pattuglia travolto nella notte tra venerdì e sabato sulla litoranea di Torre del Greco.
Il suo racconto, raccolto dagli inquirenti, introduce un particolare inedito e decisivo: il Suv lanciato ad altissima velocità era impegnato in un inseguimento contro una coppia di giovani in scooter.


Il racconto della notte di Halloween

La ragazza, uscita da una festa di Halloween insieme a due amiche, ha raccontato agli investigatori della Procura di Torre Annunziata, che coordina le indagini insieme alla Squadra Mobile del primo dirigente Giovanni Leuci, di aver assistito a una lite improvvisa tra Ciro Licenziato e i due ragazzi in scooter.

«Ciro è sceso dal Suv e ha bloccato la moto, impedendo ai due di allontanarsi», ha spiegato la testimone. Poi, secondo il suo racconto, tutto è precipitato: «Quando siamo saliti in auto, Ciro incitava Tommaso a inseguire i due in scooter. Gli diceva di accelerare, di svoltare, di non perderli di vista».

Alla guida c’era Tommaso Severino, oggi indagato per omicidio stradale aggravato dall’uso di alcol e droga e per omissione di soccorso. Con lui, oltre a Licenziato, anche Luigi Ambruosi, entrambi indagati per omissione di soccorso.


Il folle inseguimento e l’impatto mortale

Il racconto della minorenne descrive gli ultimi, folli istanti prima della tragedia: «Andavano a velocità altissima. Noi in macchina urlavamo e chiedevamo di rallentare, ma loro non ci ascoltavano. Alla prima curva, Tommaso non ha ridotto la velocità e il Suv è sbandato».
È in quel momento che il veicolo ha invaso la corsia opposta e ha travolto la pattuglia della Polizia, uccidendo l’agente Aniello Scarpati e ferendo gravemente il suo collega, tuttora ricoverato all’ospedale del Mare.

Diversa, e per molti versi reticente, la versione fornita dai tre adulti: nessuno ha parlato dell’inseguimento né ha chiarito perché, nel cuore della notte, viaggiassero a velocità così elevata con tre minorenni a bordo, tra cui la figlia di uno degli indagati.


La fuga e l’indifferenza dopo l’impatto

La testimonianza della ragazza aggiunge un ulteriore dettaglio agghiacciante: «Siamo scesi dall’auto, eravamo scioccate. Tommaso ha guardato la scena, si è acceso una sigaretta e non ha fatto nulla per aiutare».

Un comportamento che conferma la totale assenza di senso di responsabilità di chi era alla guida.
Nel frattempo, un barista del locale frequentato dal gruppo prima dell’incidente ha riferito agli inquirenti che i tre uomini erano «su di giri, ballavano e bevevano cocktail».


Le indagini e la linea della Procura

L’inchiesta della Procura di Torre Annunziata punta a ricostruire l’intera dinamica della serata, verificando il tasso alcolemico e la presenza di sostanze stupefacenti nel sangue dell’autista.
Il legale di Severino, l’avvocato Domenico Dello Iacono, ha confermato che domani l’indagato comparirà davanti al gip per la convalida del fermo.

L’obiettivo degli inquirenti è chiaro: fare piena luce su una notte di follia in cui irresponsabilità, arroganza e indifferenza hanno cancellato la vita di un servitore dello Stato.

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Tragedia a Muggia: madre ucraina uccide il figlio di nove anni, il bambino era stato affidato al padre

A Muggia, in provincia di Trieste, una madre ucraina ha ucciso il figlio di nove anni tagliandogli la gola. Il bambino, affidato al padre dopo la separazione, era in visita alla donna.

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Una tragedia sconvolgente ha scosso la comunità di Muggia, alle porte di Trieste. Una donna di nazionalità ucraina ha ucciso il figlio di nove anni, tagliandogli la gola con un coltello all’interno della loro abitazione in via Marconi, nel centro cittadino.

L’allarme è stato lanciato nella serata di ieri dal padre del bambino, che vive fuori dal Friuli Venezia Giulia e non riusciva a mettersi in contatto con l’ex compagna. Quando la Squadra Mobile di Trieste è arrivata nell’appartamento, il piccolo era già morto.


Una famiglia seguita dal tribunale e dai servizi sociali

La vicenda familiare era nota ai servizi sociali ed era seguita anche dal tribunale minorile. Dopo la separazione, la custodia del bambino era stata affidata al padre, ma la madre aveva mantenuto il diritto di incontrare il figlio, secondo quanto stabilito dalle disposizioni del giudice.

I rapporti tra i due genitori erano difficili, come hanno riferito persone vicine alla famiglia. Ieri sera, l’incontro si è trasformato in tragedia.


Il corpo trovato in bagno, la madre in stato di choc

Quando i Vigili del Fuoco e gli agenti di polizia sono entrati nell’abitazione, il corpo del bambino era già senza vita da diverse ore e si trovava nel bagno di casa.

La donna è stata trovata in stato di choc e soccorsa sul posto. Gli inquirenti stanno ricostruendo la dinamica dei fatti e le eventuali motivazioni del gesto, mentre la Procura di Trieste ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario aggravato.

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Inchiesta sui cellulari in carcere: perquisizioni ad Avellino, 18 indagati tra detenuti ed ex detenuti

I Carabinieri di Avellino e la Polizia Penitenziaria hanno eseguito perquisizioni nel carcere “Antimo Graziano” e in altre sedi: 18 indagati per uso illecito di cellulari in carcere, uno anche per stalking.

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I Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Avellino, insieme alla Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale e al Nucleo Investigativo Regionale per la Campania, hanno eseguito un decreto di perquisizione locale e personale a carico di 18 indagati, tutti detenuti o ex detenuti dell’istituto penitenziario “Antimo Graziano” di Avellino.

Gli indagati sono gravemente sospettati del reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti (articolo 391 ter del codice penale). In un caso si procede anche per atti persecutori (articolo 612 bis).


L’operazione nel carcere “Antimo Graziano”

Le perquisizioni, disposte dalla Procura della Repubblica di Avellino, hanno interessato le celle ancora occupate dagli indagati con l’obiettivo di rintracciare e sequestrare dispositivi elettronici e schede SIM detenuti illegalmente.

Il provvedimento nasce da un’indagine condotta dai Carabinieri di Avellino a partire da febbraio 2025, mirata a contrastare il fenomeno dell’uso di smartphone e cellulari all’interno delle carceri, spesso utilizzati per comunicazioni non autorizzate o per accedere ai social network.


La rete dei contatti e i profili social

Le investigazioni hanno rivelato una vera e propria rete di telefoni connessi, una “connected cell” che consentiva ai detenuti di mantenere rapporti continui con l’esterno. Attraverso l’analisi di tabulati telefonici e telematici, spesso riferiti a utenze intestate a soggetti fittizi, gli investigatori hanno ricostruito il circuito relazionale dei detenuti, identificando familiari e amici contattati illegalmente.

Su alcuni profili social riconducibili agli indagati sono stati trovati messaggi e immagini di rilievo investigativo, che confermano l’uso illecito dei dispositivi per comunicazioni e attività potenzialmente criminali.


Un caso di stalking tra i reati scoperti

Le indagini hanno inoltre evidenziato che i telefoni venivano utilizzati anche per commettere altri reati. In particolare, un detenuto è risultato gravemente indiziato di atti persecutori ai danni della vedova dell’uomo da lui ucciso, utilizzando lo smartphone per continuare a molestarla anche dal carcere.

L’inchiesta resta aperta, mentre la Procura di Avellino valuta ulteriori sviluppi per accertare eventuali responsabilità all’interno dell’istituto penitenziario.

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Scoperto bunker-serra di marijuana nell’Aspromonte: denunciati padre e figlio a Platì

I carabinieri scoprono un bunker sotterraneo nascosto sotto una stalla a Platì: coltivavano marijuana con un impianto elettrico abusivo. Denunciati padre e figlio.

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Un bunker sotterraneo nascosto sotto una stalla in mezzo alla vegetazione aspromontana è stato scoperto dai carabinieri della Stazione di Platì, insieme ai militari dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Calabria” e del 14° Battaglione “Calabria”, nel corso di un’operazione di controllo del territorio contro la produzione di sostanze stupefacenti.

Padre e figlio, entrambi denunciati in stato di libertà, sono ritenuti responsabili di aver realizzato una vera e propria serra “indoor” per la coltivazione di cannabis, trasformando un capanno agricolo in disuso in un sofisticato laboratorio sotterraneo.

Il cavo elettrico che ha svelato il bunker

L’operazione è scattata dopo una lunga attività di osservazione. Durante una perlustrazione in un’area rurale, i carabinieri hanno notato un cavo elettrico che si perdeva tra gli alberi. Seguendone il tracciato per centinaia di metri, sono giunti all’ingresso di un capanno apparentemente abbandonato.

Dietro un pannello basculante azionato da un sistema di contrappesi, nascosto alla vista, si celava l’accesso a un bunker sotterraneo. All’interno, i militari hanno trovato una piantagione di marijuana con piante alte tra 70 e 110 centimetri, illuminate e ventilate da un impianto elettrico e di aerazione alimentato da un allaccio abusivo alla rete pubblica.

Una serra illegale tecnologicamente avanzata

La struttura era interamente realizzata abusivamente e dotata di tutto il necessario per garantire la crescita indisturbata delle piante: trasformatori, ventilatori, lampade e sistemi di ventilazione ricreavano le condizioni ottimali di una serra professionale.
Tutto era stato studiato nei minimi dettagli per nascondere l’attività e mantenerla attiva in modo costante, lontano da occhi indiscreti.

L’operazione dei carabinieri di Locri

L’intervento rientra in una più ampia strategia di contrasto al narcotraffico condotta dai carabinieri della Compagnia di Locri, che da tempo intensificano i controlli nelle aree più impervie dell’Aspromonte, spesso utilizzate per la produzione e lo stoccaggio di droga.

In una nota, l’Arma ha sottolineato come “la conoscenza del territorio e l’esperienza operativa dei militari restano un baluardo fondamentale contro l’illegalità”, ribadendo l’impegno quotidiano nel controllo delle zone rurali più isolate della Calabria.

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