Aaron Pettinari, 35 anni, marchigiano, giornalista. È capo redattore di “Antimafia Duemila”. Dal 2014 inviato a Palermo. Ha collaborato con “I Siciliani Giovani”, “L’Ora Quotidiano”, “Il Resto del Carlino”, “La Gazzetta dello Sport” e il quotidiano on line laprovinciadifermo.com. Ha scritto un libro, “Quel terribile ’92” con prefazione di Salvatore Borsellino, editore Imprimatur. Oggi facciamo due chiacchiere con lui, con Aaron Pettinari.
Sei un esperto sui processi più spinosi che segui da anni come quello sulla “trattativa”. Non trovi che si parli poco di tale processo?
Assolutamente sì e non fatico a definirlo come uno scandalo. Parliamo di un processo in cui, per la prima volta nella storia, vengono portati alla sbarra non solo boss di Cosa nostra ma anche uomini di Stato, ufficiali dell’Arma e politici. Ed è noto che la maggior parti degli imputati, anche se siamo ancora di fronte ad una sentenza di primo grado, sono stati condannati.
Per il livello degli imputati, per gli elementi emersi nei cinque anni di dibattimento di primo grado, messi in fila nelle motivazioni della sentenza della Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, appare evidente l’importanza di questo processo. In un qualsiasi altro paese civile sarebbe stato seguito costantemente dai principali telegiornali e giornali nazionali. Così non è stato, se si esclude qualche quotidiano o qualche sito. Se ne è parlato il giorno della sentenza o il giorno del deposito delle motivazioni della sentenza. Ma poi non sono stati approfonditi i fatti.
E questo non ha consentito di capire bene quel che c’è scritto nella sentenza…
I giudici di primo grado scrivono chiaramente che trattativa ci fu e che furono uomini di Stato a cercare la mafia mentre l’Italia veniva dilaniata dalle bombe. Nero su bianco Si dice che la trattativa non evitò altro sangue e che anzi Cosa nostra si convinse che le stragi pagassero. Si dice che la trattativa provocò l’accelerazione della strage di Borsellino. Si dice che tre governi, Amato, Ciampi e Berlusconi, subirono e percepirono chiaramente le minacce e le richieste di Cosa nostra senza denunciare nulla agli organi inquirenti.
Ecco la portata di questa sentenza che di fatto offre un nuovo quadro di lettura della storia del nostro Paese. Ecco perché si è generato questo silenzio imbarazzante da parte delle istituzioni e degli organi d’informazione. Un silenzio quasi omertoso che ha generato anche una forte indifferenza da parte dell’opinione pubblica. Affinché si dimentichi in fretta. Del resto così è stato anche in precedenti sentenze come quelle Androtti o Dell’Utri. Di questi fatti, ma anche di mafia in generale, è meglio non parlare.
‘Ndrangheta stragista. Altro processo particolare.
Pure questo poco trattato dai media. I rapporti tra le 2 mafie storicamente trovano conferma?
Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti, nell’estate 1991. Ma i rapporti stretti tra le due mafie sono da far risalire ad ancor prima degli anni Settanta. Di questo ci parlano sia collaboratori di giustizia calabresi e siciliani e la Procura di Reggio Calabria, in questi anni, ha compiuto un notevole sforzo proprio per riannodare i fili in certe vicende.
Così è emerso che cosche potentissime come quelle dei Piromalli e dei De Stefano erano storicamente legate a Salvatore Riina. Ma tanto in passato quanto oggi, sempre in nome degli affari, vi è una forte relazione tra le mafie apparentemente divise dallo Stretto.
Il processo ‘Ndrangheta stragista, che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone, però, ci dice anche altro. Contrariamente a quanto si era pensato fino a qualche anno addietro la ‘Ndrangheta non è stata contraria alle stragi. Anzi, avrebbe avuto un ruolo diretto in quella campagna di attacco allo Stato con gli attentati contro i carabinieri tra la fine dl 1993 e l’inizio del 1994. Attentati che portarono alla morte ali appuntati scelti Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
Ma forse, quando si parla di mafie, si dovrebbe spingere l’analisi ancora più avanti tenendo in considerazione quanto fu riferito da collaboratori di giustizia come Leonardo Messina, uno degli ultimi che vide Paolo Borsellino ancora in vita, e che parlavano dell’unitarietà delle mafie, senza distinzioni.
Quando nel 1992 fu sentito in Commissione parlamentare antimafia disse anche che “Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia” era alla ricerca di un “compromesso” con “l’interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. … Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada”. In un successivo interrogatorio disse anche che “Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata”.
Ed oggi anche gli addetti ai lavori parlano di un Sistema criminale integrato in cui le singole storiche organizzazioni (Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita) pur mantenendo le proprie caratteristiche agiscono in maniera sinergica, attuando un programma criminale in grado di agevolare tutti.
La rete di accordi per il traffico internazionale di stupefacenti, che vede la criminalità organizzata calabrese monopolista, è solo un esempio.
Tratti tali argomenti in modo approfondito, hai paura?
Non è facile rispondere a questa domanda. Ad oggi, nel mio lavoro, diversamente a quanto avvenuto ad altri miei colleghi, per fortuna non ho avuto a che fare con minacce o intimidazioni. Questo non significa che non provi paura. Sinceramente credo che sia qualcosa di assolutamente umano. Ciò che è importante è trovare il modo di vincere la paura e non lasciarsi sopraffare. E diviene possibile in due modi: acquisendo la consapevolezza che non si è soli nel portare avanti determinate battaglie e guardando all’esempio e al sacrificio di tante persone che ci hanno preceduto, o che ancora oggi lottano, per avere giustizia, difendere un diritto o raccontare i fatti.
Così si trova il coraggio che, come diceva Falcone, non deve tramutarsi in incoscienza ma che ci spinge ad andare oltre alle eventuali difficoltà che si possono incontrare.
Guardando a quei colleghi, ai magistrati, ai testimoni di giustizia, che sono oggetto di pesantissime minacce mi rendo conto dei rischi che possono esserci in questo mestiere.
Ma rinnovo anche il mio impegno perché non vanno lasciati soli e credo che scavare a fondo nei fatti, raccontarli, sviluppando quel “concetto etico del giornalismo” del giornalista di cui parlava Pippo Fava sia l’unico modo per rendere davvero onore a lui, e ai tanti che hanno sacrificato la propria vita proprio per quel coraggio di puntare il dito, denunciare e mettere in luce fatti e misfatti che venivano perpetrati anche ai più alti vertici del potere, politico, economico e mafioso.
Oggi il mascariamento è usato per colpire chi combatte, mi dai una definizione?
Oggi come ieri il “mascariamento” si usa per gettare fango, depistare e distogliere l’attenzione sulla realtà dei fatti spesso contro persone che sono ritenute scomode. La mafia, ma forse dovremmo dire il sistema criminale, ha adottato più volte questo metodo in primo luogo per delegittimare i propri avversari.
Ricordo una deposizione del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè che, qualche anno fa al processo Capaci boss, riferì che contro Giovanni Falcone vi fu una vera e propria “campagna di delegittimazione sia da parte di Cosa nostra, che dal mondo dell’imprenditoria, della politica e della massoneria”. E questo perché “con le sue inchieste andava a ledere rapporti professionali ed economici importanti, andava a colpire l’intrigo che c’era tra mafia ed organi esterni”. Non possiamo dimenticare i molteplici attacchi subiti dal giudice in seguito al fallito attentato all’Addaura, nel 1989. E così non possiamo dimenticare i “mascariamenti” post mortem contro Pippo Fava, il cui omicidio fu bollato come “questioni di fimmini”; contro Beppe Alfano (la prima ipotesi fu la “solita” voce sulle donne o di debiti di gioco); contro Peppino Impastato (inizialmente morto per un’assurda “attività eversiva”). E questi sono solo alcuni dei casi più eclatanti.
Oggi, dove apparentemente la mafia non uccide più, anche se ricordo che fino a qualche anno fa i collaboratori parlavano di un progetto di attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, si preferisce colpire chi dà più fastidio con questa forma di delegittimazione. Si gioca sulle parole, per sminuire e minare la credibilità delle persone. E così si perde la sostanza dei fatti. Nel recente passato, seppur in forme differenti, è accaduto nei casi del giornalista Paolo Borrometi e dell’ex Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, entrambi sotto scorta. A chi ha sollevato dei dubbi sugli attentati, progettati o perpetrati, hanno risposto con estrema chiarezza i Capi delle Procure di Catania e Messina, Carmelo Zuccaro e Maurizio De Lucia, competenti alle indagini per cui c’è ben poco da aggiungere.
Ultima domanda, come vedi la situazione nel nostro Paese?
Sinceramente ritengo che stiamo attraversando un periodo molto difficile, su più livelli. Ho già detto degli organi di informazione, praticamente assente sui grandi temi. L’articolo 21 stabilisce un diritto sacrosanto del cittadino e non solo del giornalista, di “informare ed essere informati”. La mafia è un fenomeno che resiste da oltre un secolo. Se noi non comprendiamo cosa è oggi, come si è evoluta e trasformata nonostante i molteplici arresti; se non sapremo la verità sui stragi e delitti eccellenti, da Portella della Ginestra alla morte di Aldo Moro, passando per Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Ustica, la Strage di Bologna, l’Italicus, Capaci, via d’Amelio e le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano, non potremo mai riappropriarci della nostra dignità di popolo italiano.
Dobbiamo capire cosa è accaduto perché solo così potremo fare una corretta analisi del nostro presente. Perché non possiamo dimenticare che sul sangue di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, di Francesca Morvillo e gli agenti delle scorte, degli innocenti colpiti a Firenze e Milano, è caduta la Prima Repubblica e nata la Seconda.
I boss delle stragi sono quasi tutti in galera, tutti tranne Matteo Messina Denaro il super latitante di Castelvetrano. Dietro la sua latitanza, così come le lunghissime latitanze del passato di figure come Totò Riina o Bernardo Provenzano, si nascondono misteri e segreti di quei rapporti alti ed altri che le criminalità organizzate hanno con altre facce del potere. Quello politico, economico, finanziario ed anche massonico.
Le inchieste di oggi raccontano come le nostre mafie, Cosa nostra, Camorra e ‘Ndrangheta, grazie ai miliardi ricavati dal traffico di stupefacenti (e non solo) possono drogare e condizionare la nostra libertà e democrazia.
Certo è che il quadro attuale è desolante di fronte ad una politica che scientemente decide di non inserire mai la mafia come priorità della propria agenda. Si parla sempre di riforme della giustizia ed affini ma poi, all’atto concreto, i provvedimenti richiesti dagli addetti ai lavori vengono accolti solo in minima parte.
In un Paese che difetta di memoria, tanto che oggi c’è una nuova ondata di ultra destra che avanza e chi parla di accoglienza ed uguaglianza tra i popoli viene discriminato, la rivoluzione passa da un rinnovamento culturale. Nel millennio delle piazze virtuali e dei social i cittadini, soprattutto i giovani, devono tornare a far sentire la propria voce nelle piazze e al contempo sostenendo chi già conduce determinate battaglie. Ed è sicuramente positivo quando spontaneamente nasce una manifestazione come quella che nei giorni scorsi c’è stata a Catanzaro e in altre città italiane nei confronti del magistrato Nicola Gratteri, ingiustamente attaccato dopo l’ennesima inchiesta che ha disvelato il solito grumo di potere. Da queste inchieste e da processi come quello della trattativa Stato-mafia o il Borsellino quater si deve ripartire. Perché molto è stato scoperto ma non ancora tutto. E questa pretesa di verità, così come la lotta alla mafia e alla corruzione, non può essere lasciata o delegata ai soli familiari vittime di mafia, ai magistrati, o alle forze dell’ordine ma deve passare da ogni cittadino.
“Penso a Hersh Goldberg, trovato morto a inizio settembre insieme ad altri cinque ostaggi a Gaza. Nel novembre dell’anno scorso avevo incontrato la madre Rachel, che mi ha compito per la sua umanità. L’accompagno in questo momento. Prego per le vittime e continuo ad essere vicino a tutte le famiglie degli ostaggi. Cessi il conflitto in Palestina e Israele, cessino le violenze, cessino gli odi, si rilascino gli ostaggi, continuino i negoziati e si trovino soluzioni di pace”. Lo ha detto Papa Francesco all’Angelus.
“Non dimentichiamo le guerre che insanguinano il mondo”, ha affermato Francesco. “Penso alla martoriata Ucraina, al Myanmar, penso al Medio Oriente – ha aggiunto -. Quante vittime innocenti! Penso alle mamme che hanno perso figli in guerra. Quante giovani vite stroncate!”.
Si e’ conclusa in modo drammatico la scomparsa della mamma di 45 anni e della figlioletta di tre nel trevigiano: i due cadaveri sono stati trovati nel fiume Piave. La donna avrebbe posto in atto il suo tragico proposito, quello che aveva scritto nella lettera di 5 pagine trovata dal suo compagno nella casa di Miane (Treviso) dove annunciava di voler togliersi la vita con la sua piccola. Le ricerche erano riprese questa mattina in modo massiccio, dopo che ieri la sua auto, una Volkswagen Tiguan di colore bianco, era stata trovata vuota a Covolo di Pederobba e si sono concentrate nella zona del ponte di Vidor tristemente noto come luogo di suicidi la’ dove il fiume Piave e’ particolarmente violento. Sul posto stanno ancora operando le forze dell’ordine, i volontari della Protezione civile e i Vigili del fuoco. Sono stati anche impiegati un elicottero, squadre nautiche dei pompieri, droni e cani molecolari.
Sarebbe verosimilmente riconducibile a dissidi sorti a causa della spartizione del bottino, frutto di uno dei loro colpi messi a segno con la cosiddetta tecnica “del buco”, la sparatoria avvenuta lo scorso 9 maggio a Napoli nella quale rimasero ferite tre persone, tutte poi risultate rapinatori professionisti. Ieri la Squadra Mobile di Napoli e gli investigatori del commissariato San Carlo all’Arena hanno arrestato l’uomo che esplose quei colpi di pistola, accusato, ora, tra l’altro, di triplice tentato omicidio.
Quel giorno in quattro si recarono da un loro quinto complice per affrontare il discorso della spartizione ma l’ultimo reagì sparando e ferendone tre mentre il quarto rimase miracolosamente illeso. Le vittime si recarono ciascuna in un ospedale diverso della città, per non destare sospetti e far credere alle forze dell’ordine erano stati episodi ciascuno separato dall’altro. Ma le immagini dei sistemi di videosorveglianza della zona dove era scattato l’agguato, corso Amedeo di Savoia, passate al setaccio dalla Polizia, fornivano una rappresentazione chiara dell’accaduto: ritraevano lo sparatore prima in azione e poi, dopo avere ferito i complici, in fuga a tutta velocità in sella a uno scooter.
Grazie alle identificazioni è stato possibile scoprire che erano tutti componenti una banda di rapinatori professionisti, espertissimi, sopra la cinquantina, in grado di mettere a segno rapine, con la cosiddetta “tecnica del buco”, in tutt’Italia. Lo sparatore, dopo il raid, aveva fatto perdere per lungo tempo le sue tracce, per paura di una ritorsione. Ad incastrarlo, oltre ai video acquisiti dalla Polizia di Stato, anche l’esperienza dei poliziotti del commissariato San Carlo all’Arena i quali, quando è tornato nella loro zona di competenza, l’hanno subito rintracciato e bloccato, assicurandolo alla giustizia.