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Economia

L’Adi va a 480mila famiglie, no al 23% delle domande

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Sono 480mila le famiglie che hanno ricevuto il primo accredito dell’Assegno di Inclusione, la nuova misura che da gennaio sostituisce il Reddito di Cittadinanza come strumento di contrasto alla povertà; ai quasi 288mila che hanno ricevuto l’assegno a fine gennaio (con domanda presentata entro il 7) se ne sono aggiunti ieri altri 192mila. L’importo medio dell’assegno è di 620 euro. Il ministero del Lavoro ha fornito i primi dati sull’operazione ‘Adi’ e a fine mese, se i requisiti saranno mantenuti, l’intera platea riceverà il pagamento di febbraio. Le domande arrivate con Patto di attivazione digitale sottoscritto sono state 779.302. Ma altissimo è il numero di quelle respinte: sono 182.350, una percentuale del 23,4% sul totale arrivato.

A conti fatti il numero complessivo delle famiglie che percepiranno l’Assegno di Inclusione è inferiore al dato stimato dal Governo a regime per la misura (737mila) e soprattutto a quello delle famiglie che hanno ricevuto il Reddito di cittadinanza a dicembre (722mila). Ma il dato è legato non solo alla stretta sui requisiti (possono averle le famiglie in situazione di difficoltà economica con almeno un minore, un disabile o un over 60 nel nucleo oppure quelle con una situazione di disagio accertato) ma anche al cambiamento sul tipo di controllo sui requisiti che adesso è preventivo.

Il ministero ha sottolineato che: 24.115 domande necessitano di un supplemento di istruttoria per l’accertamento di disabilità o nucleo familiare non conforme; 77.331 domande necessitano di approfondimenti per dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) difforme; 801 domande sono sospese per ulteriori controlli sulla residenza anagrafica. Per queste domande sospese, l’Inps informerà gli interessati della sospensione nonché dell’esito delle ulteriori verifiche effettuate entro la prossima settimana; Per ulteriori 22.762 domande l’Inps è in attesa della verifica della certificazione da parte degli enti preposti.

Per le domande respinte le principali causa di rigetto sono: la Dichiarazione Sostitutiva Unica (Dsu, che serve per ottenere l’Isee) sopra soglia, il superamento delle soglie di reddito, l’omessa dichiarazione lavorativa. Quasi un quarto delle domande che arrivano viene respinta per mancanza di requisiti ma ce ne è una parte che viene solo sospesa per irregolarità nella documentazione che può venire sanata presentando la nuova documentazione o rettificandola. In caso di risposta negativa invece è possibile entro 30 giorni presentare “motivata istanza di riesame”.

La percentuale di domande respinte è in linea con quella delle richieste rigettate al momento dell’istituzione del Reddito di cittadinanza nel 2019. Sui primi numeri è stata espressa preoccupazione dalla Cgil che parla di “evidente fallimento del Governo” sulla povertà sottolineando che rispetto alle 480mila famiglie che hanno ricevuto l’assegno di inclusione ne mancano all’appello mezzo milione che l’anno scorso avevano il Rdc, prima della stretta con il limite dei sette mesi di durata per le famiglie senza componenti minori, disabili e anziani e senza situazioni di fragilità accertate.

E’ probabile che gran parte dei nuclei che non hanno più diritto al sussidio sia da cercare nell’alta percentuale di famiglie con un solo componente che negli anni scorsi prendeva il Reddito di cittadinanza grazie a una scala di equivalenza favorevole di fatto ai nuclei più piccoli. Solo a dicembre 2023, dopo la stretta sui sette mesi, le famiglie composte da una sola persona non disabile con il sussidio erano 237.579, quindi circa un terzo dei beneficiari complessivi del Rdc, contro 460.446 di un anno prima quando i nuclei con il reddito erano quasi 1,17 milioni. Una parte di questi sarà over 60 o in una situazione di disagio accertato ma è tra questi la parte più consistente di coloro che non hanno diritto al beneficio e dovrà piuttosto rivolgersi all’altro strumento introdotto dal Governo, il Sfl (Supporto per la formazione e il lavoro).

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L’occupazione cresce, ma l’Italia resta ultima in Ue

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Il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni in Italia nel quarto trimestre cala di 0,1 punti sul terzo trimestre e aumenta di 0,2 punti sullo stesso periodo del 2023 fissandosi al 62,2%. Ma, nonostante la crescita tendenziale, cresce il gap con la media Ue che si attesta a 8,7 punti dagli 8,6 del quarto trimestre 2023. Il passo indietro riguarda soprattutto per il lavoro femminile. La fotografia, che vede l’Italia fare progressi sul fronte del lavoro chè però non riescono a colmare il divario rispetto agli altri Paesi, è quella delle tabelle Eurostat appena pubblicate secondo le quali l’Italia si conferma ultima tra i 27 per tasso di occupazione.

Il divario per le donne è ancora più ampio con il tasso di occupazione che nell’ultimo trimestre del 2024 era al 53,1% in Italia e al 66,3% e nell’Ue a 27. In media si tratta di un gap di 13,2 punti, che sale rispetto ai 12,8 del quarto trimestre 2023. Appena meglio dell’Italia fa la Romania con il 54,9% ma se si guarda altri Paesi, come la Germania, il confronto appare ancora più penalizzate visto che è occupato il 74,2% delle donne in età da lavoro. In Italia esiste quindi un “esercito di riserva” di donne che però deve fare i conti con la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e le difficoltà nelle strutture di sostegno alla famiglia come i nidi, la scuola a tempo pieno, oltre ad aiuti per la cura degli anziani in un Paese nel quale il peso dell’impegno tra generi nel ‘welfare familiare’ è ancora molto sbilanciato.

Questo ha impatto anche sul lavoro. Mentre per le donne il divario con l’Ue è aumentato per gli uomini in età da lavoro la distanza nel tasso di occupazione con l’Europa si è invece ridotta a 4,1 punti dai 4,3 del quarto trimestre 2023. Nel quarto trimestre 2024 infatti lavorava in Italia il 71,3% degli uomini tra i 15 e i 64 anni a fronte del 75,4% nell’ Ue a 27. La distanza è ancora minore nella fascia degli uomini tra i 25 e i 54 anni, coorte centrale della popolazione in età da lavoro, ormai uscita dal percorso di formazione e non ancora in età da pensione neanche anticipata, con l’87,5% al lavoro in Ue e l’84,4% in Italia. Anche l’occupazione giovanile rimane un punto dolente per l’Italia.

Il divario resta forte con l’Europa. Tra i 15 e i 24 anni l’occupazione complessiva è al 19,2% in Italia ma si confronta con il 34,8% europeo. Il fossato che divide i giovani italiani da quelle europei è di 15,6 punti ed è cresciuto visto che nel solo quarto trimestre 2024 i dati italiani mostrano un peggioramento di un punto se si confrontano a quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. Il divario è sempre a due cifre ma appena meno penalizzante per i giovani di sesso maschile: tra i 15 e i 24 anni l’occupazione è al 23,6% in Italia con 13,3 punti in meno rispetto all’Ue che si attesta al 36,9%. Guardando alle diverse fasce d’età, in quella centrale l’Italia arranca per l’occupazione femminile: lavora il 64,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni a fronte del 77,8% medio in Ue. Per le donne, poi, il tasso è di quasi 20 punti inferiore a quello degli uomini nel nostro Paese nella stessa fascia di età (84,4%) mentre era di 19,1 punti un anno fa.

Il gap tra i sessi è aumentato. Il divario, in questa fascia, è invece di 13.2 punti rispetto al 77,8% dell’Ue. La differenza diminuisce per le più anziane, tra i 55 e i 64 anni (10,6 punti di differenza tra il 49,2% dell’Italia e il 59,8% dell’Ue) e cresce tra le giovani di 15-24 anni (18 punti il 32,5% medio in Ue e il 14,5% in Italia). Se si considerano i sessi, il divario rimane anche se si guarda al tasso di occupazione complessivo, tra i 15 e i 64 anni: la percentuali di uomini e donne al lavoro è del 62,2% ma anche in questo è frutto di una media alla Trilussa con gli uomini al 71,3% e le donne al 53,1% con un divario di genere che sale a 18,2 punti dai 17,7 dell’ultimo trimestre 2023. La lettura dei dati è comunque opposta tra i partiti. Se il responsabile lavoro del Pd Arturo Scotto parla di una “certificazione del fallimento delle politiche del governo Meloni”, il senatore dei Fratelli d’Italia Ignazio Zullo rivendica “Il primato del governo Meloni di oltre un milione di persone tornate al lavoro”.

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Assogestioni lavora a lista Generali, incerto deposito

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Assogestioni sta preparando una lista di candidati per il rinnovo del cda di Generali, che in prospettiva può essere l’ago della bilancia per l’esito dell’assemblea del 24 aprile. Ma non ha ancora ufficialmente deciso se presentarla. Per sciogliere il nodo è stato riaggiornato a lunedì prossimo il Comitato dei gestori che si tenuto in giornata in una riunione dal carattere interlocutorio. I tempi tuttavia stringono dato che il termine per il deposito delle liste è infatti il 29 marzo, 25 giorni prima della data della prima convocazione (23 aprile) dell’assemblea a Trieste. Lunedì quindi è probabile una decisione e l’orientamento sarebbe quello di presentare la lista anche se non si è ancora trovata una quadra tra interesse contrapposti che vanno da Mediobanca ad Anima.

A mediare ci sarebbero i maggiori gestori italiani rappresentati in Assogestioni, il gruppo Intesa Sanpaolo e Poste, mentre il coordinatore del Comitato, Emilio Franco (Mediobanca) avrebbe lasciato loro spazio. Pesa il confronto in atto fra i maggiori soci di Generali. Da una parte Mediobanca, pronta a presentare una lista di maggioranza dove candidare l’attuale ceo Philippe Donnet, dall’altra Francesco Gaetano Caltagirone, sostenuto da Delfin, che prepara una lista fino a 6 nomi. A rendere delicata la discesa in campo della lista di Assogestioni contribuisce il fatto che su quest’ultima potrebbe confluire il voto di Unicredit, ed diventare decisiva per l’esito del voto assembleare e poi per gli equilibri all’interno del nuovo cda. Con il rischio anche di ingovernabilità.

L’organo dell’associazione – composto dai rappresentanti delle Sgr e dagli investitori istituzionali con il compito di scegliere i candidati per l’elezione e la cooptazione di amministratori e sindaci di minoranza nella società italiane quotate in Borsa – deve in prima battuta scegliere i nomi che saranno verosimilmente 3 come nell’ultima assemblea di Generali, quando Assogestioni non aveva raccolto abbastanza voti per avere un rappresentante in consiglio. Allora c’erano in campo la lista del cda uscente sostenuta da Mediobanca e quella antagonista, sempre di maggioranza, messa in campo dal gruppo Caltagirone e da Delfin degli eredi di Leonardo Del Vecchio. Senza Unicredit come socio di peso.

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Terna, piano da 23 miliardi d’investimenti in 10 anni

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Ventitre miliardi di euro di investimenti nella rete elettrica in dieci anni per integrare al meglio le fonti rinnovabili e aumentare la capacità di trasporto. Il Piano di sviluppo 2025-2034 di Terna prevede un aumento delle risorse del 10% rispetto al piano precedente per rispondere “alle urgenti necessità” imposte dal contesto attuale, come ha detto l’amministratrice delegata e direttrice generale, Giuseppina Di Foggia (foto Imagoeconomica in evidenza).

“Le richieste di connessione di impianti rinnovabili, di sistemi di accumulo e, sempre più negli ultimi mesi, di Data Center, sono in costante aumento”, ha osservato Di Foggia evidenziando come le domande per data center siano cresciute di sei volte nel 2024 rispetto all’anno precedente e di oltre 20 dal 2021. Sono richieste che nel breve e nel medio termine, l’a.d. è “molto sicura” di poter sostenere. La società, al tempo stesso, ha adottato un nuovo processo di programmazione territoriale delle infrastrutture per fare fronte al rischio di saturazione virtuale della rete da parte di domande per impianti che non vengono realizzati. Una misura in tal senso è allo studio anche del governo.

DA DX IGOR DI BIASIO, PRESIDENTE TERNA; GILBERTO PICHETTO FRATIN, MINISTRO DELL’AMBIENTE; GIUSEPPINA DI FOGGIA AD E DG TERNA; STEFANO BESSEGHINI PRESIDENTE ARERA (FOTO IMAGOECONOMICA)

Pichetto ha detto di puntare a definire, nei prossimi giorni, “un meccanismo affinché o gli impianti rinnovabili si fanno o la procedura decade” e ha spiegato come al momento la rete sia satura fittiziamente per le richieste di impianti che, dopo 3, 4 o 5 anni, magari non vengono realizzati. Anche il presidente dell’Autorità dell’energia (Arera), Stefano Besseghini, ha sottolineato la necessità di capire “la credibilità di 350 GigaWatt di richieste di connessione alla rete” per impianti rinnovabili. Questi numeri, secondo l’analisi di Terna, superano ampiamente il fabbisogno e gli obiettivi nazionali.

Nel piano della società, 6 miliardi sono destinati a completare, entro il 2030, tre infrastrutture determinanti per la transizione: il Tyrrhenian link, che unirà la Sicilia alla Campania e alla Sardegna, l’Adriatic link tra Abruzzo e Marche, il collegamento tra Sardegna, Corsica e Toscana. Per quell’anno sarà completato inoltre il ponte energetico Italia-Tunisia, nell’ambito del piano Mattei. Di Foggia ha dato appuntamento alla stampa tra maggio e giugno per il completamento della posa del cavo sottomarino del Tyrrhenian link da Termini Imerese a Battipaglia. “Il piano di sviluppo migliora il Paese”, ha detto il presidente di Terna Igor De Biasio “riusciamo a essere abilitatori verso la transizione energetica e verso la decarbonizzazione, anche unendo, connettendo e integrando i territori”.

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